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LA PROVA SCIENTIFICA COME LA PROVA DELL’ESISTENZA DI DIO.

CONTRO POPPER

 

13 novembre 1993

 

Ringrazio l’Associazione “Scienza della Parola” che ha organizzato questo incontro e anche i successivi. Quattro incontri, quattro sabati, dove ci occuperemo di alcuni aspetti che la psicanalisi incontra. Questa sera l’incontro è dedicato a questo tema: la prova scientifica come prova dell’esistenza di dio. Contro Popper. Non contro lui in quanto tale ma contro una ideologia connessa al suo pensiero.

Fysis cryptesthai filei. L’origine ama nascondersi. L’origine, o il nascimento, come traduce Giorgio Colli. Erano saggi gli antichi. L’origine, l’impossibile luogo della certezza, identico a sé.

Ciascuna ricerca, e quindi ciascun discorso, è fatto di affermazioni e di asserzioni. Anche in ciascuna psicanalisi, di fatto, ciascun discorso procede per affermazioni, per asserzioni. La cosa ci interessa, ci interessa intendere che cosa sia un’affermazione o una negazione. Ciascuna affermazione muove, che lo sappia o no, che ne tenga conto oppure no, da un criterio di verità. Ciascuna affermazione è tale perché si suppone vera, anche là dove c’è il dubbio. Di fatto, il criterio è sempre quello della verità. Il dubbio oscilla fra due, di cui uno si suppone necessariamente vero. Non si sa quale, ma si sa che una delle due proposizioni è vera. Si dà come acquisito questo criterio.

Ciò che ha compiuto la ricerca degli umani, dai presocratici in poi, ha tenuto sempre conto della necessità di dover stabilire un criterio di verità.

Ora, occorre distinguere la ricerca scientifica dall’ideologia connessa a tale ricerca. A noi interessa l’ideologia che attiene alla ricerca scientifica, vale a dire, ciò che ciascuno, che lo sappia o no, che lo voglia o no, si trova a dire e a affermare.

Coloro che più di altri si sono trovati nella necessità di stabilire con certezza un criterio di verità sono stati i Padri della Chiesa. Si sono accorti fin da subito e con molta chiarezza che, per potere stabilire qualunque possibilità che una proposizione potesse dirsi vera o falsa, era necessario trovare un elemento ultimo su cui arrestare la ricerca. Questo elemento era, per loro, dio. Dio come l’ultima parola, come ciò che garantisce tutta la catena combinatoria. Senza quest’ultimo elemento il processo si infinitizza. Era questo, in effetti, che li preoccupava moltissimo, tutti quanti, da Agostino a Tommaso: la necessità di poter arrestare, a un certo punto, questa catena combinatoria o, per altro verso, questa regressio ad infinitum che interviene laddove si cerchino le cause per risalire alla causa prima, quella su cui potere arrestare e quella su cui poter costruire il discorso, un’affermazione o una qualunque proposizione che abbia un senso. Le prove intorno all’esistenza di dio di Agostino, di Anselmo, di Tommaso, di altri, pongono l’accento su questo, cioè, sull’impossibilità data come acquisita, come ovvia, come autoevidente, di potere stabilire qualcosa se non ci fosse, se non si decidesse di arrestare questa proliferazione di cause, di motivi, ecc. La proposizione di Anselmo è ingegnosa a questo proposito: dio come ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore, nulla di più grande. È un marchingegno logico bizzarro perché pone l’impossibilità di raggiungere dio ma lo dà come ipostasi e in ciò riesce perfettamente.

Dunque, la necessità è sempre di qualcosa che possa garantire o sostenere ciò che si dice. Tant’è che ciascuno, laddove può essere messo in gioco, si affanna a reperire una quantità, quella che gli riesce, di elementi che confermino la sua affermazione. Poche cose urtano di più quanto l’essere confutati, per esempio, l’essere messi in discussione o il trovarsi di fronte all’eventualità di dovere ripensare qualcosa che si ritiene certo, stabile, fermo, qualunque cosa sia.

La psicanalisi, in questo senso, è un esercizio di pensiero, in prima istanza. Di pensiero e, pertanto, di linguaggio. De Saussure non aveva torto dicendo che di ciò che penso ne so qualcosa soltanto laddove ne dico, ne parlo. In caso contrario, non ne so niente, non posso nemmeno supporre di pensare. Esercizio di linguaggio che ha questa prerogativa: porre le condizioni perché ciascuno possa accorgersi di ciò che avviene mentre parla. Mentre ciascuno parla avvengono cose sorprendenti di cui difficilmente si tiene conto, di cui difficilmente ci si accorge. È impossibile controllare la parola, prevedere la parola, le immagini e i pensieri. Ciascuna parola è composta da una quantità sterminata di variabili, ciascuna delle quali varia, è variante, varia continuamente, per connessioni, per implicazioni, per immagini che si legano, per elementi che la parola evoca, sempre altri, sempre differenti.

Se c’è qualcosa che in nessun modo gli umani riescono a controllare è la parola. Da qui la necessità, l’esigenza di potere stabilire un qualche cosa che riuscisse a dare una sorta di consistenza alla parola, a porla come identica a sé. Così l’invenzione della metafisica.

La metafisica possiamo indicarla in questo modo, come la supposizione che esista un aldilà delle parole. E cioè che ciascuna parola abbia, aldilà di se stessa, una sua origine, una sua garanzia, qualcosa che consenta di fermarla, di arrestarla, di significarla in modo definitivo.

Ecco allora la ricerca intorno a tutto ciò che potesse in qualche modo reperire l’elemento o gli elementi che potessero funzionare a questo scopo. La metafisica di Aristotele non è lontanissima da tutto ciò che è stato detto dopo di lui, in modo particolare, come dicevo prima, dai Padri della Chiesa. Anche Tommaso si accorge che parlando accadono cose sgradevoli, spiacevoli e ingestibili e che in nessun modo si riesce a stabilire alcunché a meno che ci sia qualcuno, da qualche parte, che si ponga come il garante assoluto, il padrone della parola. Chi è? È dio, il padrone della parola.

Si suppone che la religione, o la religiosità, di alcuni si sia perduta o che abbia lasciato il posto alla scienza. Forse non è proprio così. L’ideologia connessa al discorso scientifico - non la ricerca scientifica che, come dicevo, segue una via assolutamente imprevedibile - riprende pari pari la questione religiosa.

Potremmo dire questo, che il discorso mitologico ha preso due vie: l’una è la religione, l’altra è la scienza. Entrambe hanno un elemento in comune, essenzialissimo, cioè la verità come ipostasi. La prima, la religione, la dà come acquisita, eventualmente da confermare, da precisare, ecc. La seconda la dà come da raggiungere, o raggiungibile, eventualmente per approssimazione.

Per approssimazione. Una formulazione curiosa che Popper formula in questo modo. Dice:

Vi abbiamo descritto il principio di induzione come il mezzo grazie al quale la scienza decide sulla verità. Per essere più esatti, dovremmo dire che esso serve a decidere sulla probabilità. Infatti, alla scienza non è dato di raggiungere la verità o la falsità, ma le asserzioni scientifiche possono soltanto raggiungere gradi continui di probabilità, i cui limiti superiori o inferiori, peraltro irraggiungibili, sono la verità o la falsità.

Ora, di fronte a questa asserzione, possiamo dire due cose. O dà la verità come ipostasi e allora in questo caso, se la dà come inconoscibile, non può in nessun modo stabilire se e quando ci si avvicina. Oppure, esclude questa nozione e allora non ha più alcun interesse parlare di limiti superiori e inferiori. Se invece c’è ma non la conosce - perché lo dice lui che non è dato di raggiungere la verità - allora lui come fa a sapere se ci si è avvicinati oppure no?

Questo artificio, che potremmo chiamare artificio retorico, accomuna il discorso scientifico a quello relativo al punto che, notava Feyerabend più volte, la dimostrazione scientifica è più fondata su artifici retorici che su prove inconfutabili. Lui sostiene addirittura che Galilei abbia avuto una certa fortuna non tanto per la portata delle sue asserzioni quanto perché è stato migliore promotore di sé di quanto lo siano stati altri. Ma questa è un’altra questione.

Ciò che ci interessa qui è questo, reperire come la questione connessa al discorso religioso, cioè all’esigenza di stabilire una verità come ipostasi, sia reperibile, riscontrabile, tanto nel discorso scientifico quanto nel discorso di ciascuno. Questo per un motivo che alla psicanalisi interessa moltissimo.

Dicevo all’inizio che ciascuno, parlando, compie una serie di asserzioni e di affermazioni, che se ne accorga oppure no. Queste affermazioni sono molto spesso delle conclusioni che procedono da premesse, premesse di cui non sempre si avverte la portata, di cui non sempre si avverte nemmeno l’esistenza. C’è l’eventualità che la questione sia la stessa o meglio che si ponga negli stessi termini. E cioè che ciascuno si trovi preso, senza saperlo, in una struttura che potremmo indicare come la struttura del discorso religioso. Nulla contro il discorso religioso, però il tenere conto di questo può consentire di muoversi in un altro modo, di accorgersi che forse alcune affermazioni, alcune certezze, hanno la struttura di una credenza religiosa o di una petizione di principio.

Che la verità non possa darsi senza ammettere l’esistenza di dio era notissimo a Cartesio. Cosa dice Cartesio? Dice questo,

Cerchino pure i migliori ingegni fin tanto a che loro piace. Non vedo che possano addurre una ragione sufficiente a togliere questo dubbio se non presuppongono l’esistenza di dio. Perché, in primo luogo, anche quella che ho assunto poc’anzi come regola, cioè che le cose che concepiamo molto chiaramente e molto distintamente sono tutte vere, non è certa se non perché Dio è o esiste e da lui riceviamo tutto quello che è in noi.

Questo nella quarta parte del Discorso sul metodo.

In un colloquio con Burman dice:

Se infatti ignorassimo che ogni verità deriva da Dio, ancorché le nostre idee fossero altrettanto chiare, non sapremmo che esse sono vere e che noi non siamo ingannati. Questo avverrebbe qualora non ci concentrassimo su di esse e ci limitassimo a ricordare di averle percepite chiaramente e distintamente. Quando, invece, ci volgiamo alle verità stesse, non possiamo più dubitare anche se non sappiamo che Dio esiste. Se così non fosse non possiamo dimostrare che Dio esiste.

Importante questo che ci dice Cartesio.

C’è qualcosa di immutabile, di eterno, nella verità. Come è noto, la verità matematica è tale perché è eterna, fuori del tempo, fuori della parola. Questa è la sua prerogativa. Ma è una prerogativa bizzarra.

La supposizione che tutto ciò non possa sostenersi è stata intravista da Einstein come la necessità che dio non giochi ai dadi. Dio non deve mentire. Se dio mentisse tutto ciò non sarebbe né vero né falso. L’esigenza è che dio non menta. Dio, in effetti, è la verità, come è noto, la verità assoluta, ciò che non può mentire.

La cosa straordinaria in tutto questo è come queste proposizioni, tutto ciò che sto dicendo, funzioni e che ciascuno possa reperirlo in atto, nel quotidiano, nelle cose che ascolta e che talvolta si trova a dire.

Prendete, per esempio, la nozione di osservabilità. Nozione su cui peraltro Popper si appoggia moltissimo, anzi, lo pone come criterio ultimo, come se questa asserzione base di cui parla, la proposizione catalettica per gli stoici, potesse darsi come identica a sé, come fuori della parola, come non presa in questa semovenza delle immagini, in questa continua alterazione delle parole. Che cosa osservo? Che cosa vedo?

Qui, Popper è costretto a fare i salti mortali e a dire che lui non definisce l’osservabilità. Taglia corto dicendo che eventualmente si riserva di fronte a questa domanda di fare degli esempi.

È evidente che rispetto a questa nozione non può non incontrare una serie di aporie sterminate. Aporie che non gli consentono di potere stabilire alcunché perché, dal momento che dice che le cose devono essere falsificabili, cioè, che deve sempre potersi costruire una proposizione tale che può falsificare un sistema, questo prevede necessariamente la nozione di verità, sennò si falsifica rispetto a che? È falso rispetto a che cosa?

E allora questa nozione di verità, che lui allontana da sé come una sorta di chimera, gli ritorna inevitabilmente, gli ritorna come criterio su cui è costretto a basare la possibilità della falsificabilità. Così come ciascuno che parlando si trovi nell’eventualità di dovere affermare qualcosa.

Immaginate di dovere affermare una cosa, qualunque cosa. Ciò che vi consente di fare questa operazione è un criterio di verità che deve essere presente anche se considerate ciò che volete dimostrare assolutamente falso, anche se siete in malafede e volete dimostrare il falso. Chi vi fornisce il criterio di verità? Beh, un discorso in cui ciascuno si trova, evidentemente. Un discorso che potremmo indicare come discorso occidentale, che ha reso possibile questa nozione.

Una annotazione di Heidegger a questo riguardo suona di grande interesse, proprio intorno alla nozione di verità. Dice, dunque, nel 1928:

La verità sta nell’essenza della trascendenza. Essa è originariamente una verità trascendentale. Ma se il tema fondamentale della logica è la verità, allora la logica stessa è metafisica.

È una questione su cui è possibile riflettere, questa affermazione “la logica è metafisica”. La logica è ciò che consente a ciascuno di argomentare, di dire, di parlare, di dire qualunque cosa voglia dire. E allora?

Ciascun discorso è metafisico? È una domanda su cui per il momento possiamo fermarci, nel senso che può essere arduo rispondere a questa domanda. Sicuramente, possiamo valutarne delle implicazioni, delle connessioni, sul fatto, per esempio, di una implicazione, di una necessità: per affermare una verità c’è necessità, dunque, di un aldilà delle parole, cioè della metafisica.

“Quello che dico è vero!” Cosa vuol dire questa proposizione? Domanda tutt’altro che semplice su cui da un paio di migliaia di anni gli umani si interrogano in vario modo e a vario titolo, a seconda della necessità e della posizione che questa nozione si trova a avere nei vari discorsi. Il discorso scientifico, allo stesso titolo e allo stesso modo di quello religioso, necessita (sempre nell’accezione che indicavo, cioè, di ideologia) di un’ipostasi della verità e Popper lo sottolinea, volente o nolente. Lo sottolinea in modo bizzarro perché dice che non è raggiungibile. E allora come si fa?

Come questa ipostasi funziona e quali sono gli effetti di questa ipostasi nel discorso di ciascuno? Questa è, invece, la domanda che si è posta Freud, anche se non propriamente in questi termini, parlando della nevrosi.

Cosa fa la nevrosi? La nevrosi cerca di porre un rimedio all’impossibilità di credere che esista dio. Cioè, non riesce a crederci, nonostante gli sforzi, nonostante possa dirlo. E allora occorre un rimedio, qualcosa che argini questa proliferazione di sensi, di cause, di significati, di tutto quel che volete, inarrestabile e soprattutto ingestibile. E allora sorge quello che Freud chiamava il sintomo. Il sintomo, una formazione di compromesso, una via di mezzo, un modo per risolvere un problema scegliendo il male minore. Ciò che compie la nevrosi, in effetti, è questo: lo stabilire che qualcosa è così e credere che sia proprio così. Per sé, naturalmente. Se, invece, immagina che sia così per tutti necessariamente, allora è una psicosi.

Credere che sia così è appoggiarsi a un criterio di verità. Il fatto che sia personale non toglie nulla al criterio, che talvolta viene enunciato come personale, cioè “questa è la mia verità”. Questa proposizione vale il dire “questo è il mio limite, oltre il quale non posso andare”. O anche “io la penso così”, che è la stessa cosa. “Questo è il mio limite”, limite cui mi attengo scrupolosamente e, in molti casi, religiosamente, come se l’infrazione di questo limite comportasse una infrazione morale. “Attieniti ai tuoi limiti”: conoscere i propri limiti, insomma, che ciascuno stia al suo posto, ma che soprattutto sappia qual è il suo posto. A questo chiaramente ci pensano delle istituzioni apposite.

Ciò che a noi, invece, interessa, come dicevo prima, è il modo in cui la psicanalisi incontra questi elementi, ché li incontra continuamente. Il cosiddetto nevrotico è colui che la pensa in un certo modo e si attiene a questo suo pensiero. Si attiene religiosamente, cioè, esclude che le cose possano pensarsi altrimenti salvo immaginare uno sconvolgimento terribile e assolutamente impraticabile. Pensate, per esempio, a chi si immagina abbandonato o non amato, come preferite. Si atterrà a questo criterio qualunque siano le prove contrarie. Avrete un bel da fare a dimostrargli che non è così. Troverà sempre l’elemento che conferma che non è amato e elementi ne può trovare quanti ne vuole. Non c’è elemento che possa valere sia a conferma che a disconferma. Per cui non c’è nulla che possa intaccare questa credenza, nulla dal momento che qualunque cosa venga osservata, verrà osservata con questa finalità, con questa intenzione di dimostrare che è così.

Wittgenstein si chiede a un certo punto questo: un calcolo matematico, di qualunque tipo, è un esperimento? Il fatto che io mi alzi tutte le mattine dal letto per andare da qualche altra parte è un esperimento? Che cosa fa di un’operazione, di un gesto, un esperimento? Evidentemente, l’intenzione che sia tale.

L’intenzione, dunque, è ciò che fa di un certo processo una prova o una dimostrazione o un’osservazione. Questione di cui Popper non tiene conto, né può farlo. Non può farlo perché mettere in discussione la nozione di osservazione comporta immediatamente il crollo di qualunque possibilità di falsificare alcunché. Tant’è che a un certo punto, allarmato, dice che se non ci atteniamo con saldezza a questo criterio di osservabilità si piomba nell’anarchia, insomma, nella catastrofe universale. Quella stessa anarchia che poi, tutto sommato, accoglierà Feyerabend, in un modo curioso: se nulla è vero, allora tutto è vero, cioè, tutto è possibile. No, perché senza questo criterio, senza questa nozione, non c’è nemmeno quella di possibilità.

Ma torniamo alla questione che Freud incontra. Freud ha a che fare con la religiosità, continuamente. È esattamente ciò che ascolta ogni giorno nella sua pratica. E cioè persone che gli raccontano come stanno le cose. Per loro, naturalmente. “Le cose stanno così”, questa affermazione è esattamente ciò con cui ha avuto a che fare lungo tutta la sua esperienza. E è ciò che ciascuno, che si trovi in questa pratica, si trova a ascoltare: asserzioni.

La domanda che verte intorno a questo, cioè che cosa rende possibile un’asserzione o, più propriamente, che cosa rende possibile l’asserzione di una persona, è ciò di cui esattamente si occupa la psicanalisi.

Cominciate a domandarvi da dove vengono queste asserzioni, quali siano le premesse, considerate universali, su cui si sostengono. In altri termini, qual è il criterio di verità per ciascuno a cui si attiene, dal momento che è proprio l’attenersi a questo criterio che crea qualche problema, fino alla psicosi.

Dicevo all’inizio che poche cose sono così fastidiose quanto l’essere contraddetti. Ma non è casuale. Cioè, pone l’accento su quale sia per ciascuno l’importanza, come ciascuno si attenga assolutamente al proprio criterio di verità, anche se apparentemente può giocarci, supponendo di condurre il gioco. Cessa di divertirsi quando si accorge che il gioco non lo conduce affatto, ma che ne è travolto, che è preso in questo gioco. Un gioco linguistico. Dio è il padrone del gioco, solo lui sa condurre il gioco, perché conosce la verità e pertanto sa che cosa è gioco e cosa non lo è. Sa che cosa è vero e cosa è falso.

L’esplorazione del discorso di ciascuno come discorso religioso conduce a constatare, a tenere conto, che ciascuna prova, di qualunque genere, si voglia addurre, in particolare la prova scientifica, necessita di una ipostasi per potersi dire ancora prima di potersi dimostrare. Necessita di una ipostasi di verità, cioè, di dio. Ma è la condizione stessa della dicibilità o della pensabilità della dimostrazione. Quasi umoristicamente, quasi parodisticamente, Wittgenstein scrive “chi dimostrerà la dimostrazione?”. Dio, solo lui può farlo.

Ecco, dunque, come la questione religiosa sia presente costantemente laddove si ponga la necessità o l’occorrenza di stabilire, di formare, una proposizione, di dire che qualcosa è così. Non c’è modo neanche per Popper, che peraltro si adopera moltissimo per sbarazzarsi di questo intoppo. “Potessi liberarmi del linguaggio!”, dice Wittgenstein. Ci prova. Curioso che non si tenga conto (forse è stato Freud il primo a riprendere questo gesto di cui si erano avvalsi i sofisti), non si tenga conto, dunque, in prima istanza, qualunque operazione si faccia, si dimostri, affermi, si neghi, ecc., che si sta parlando. Considerazione banalissima ma tutt’altro che priva di conseguenze.

La domanda che i filosofi si sono posti da sempre “che cos’è l’essere?”. Questione antichissima. Ebbene, l’essere è un significante, in prima istanza. Dopo, eventulamente, altre cose. Ma non tenere conto di questo, di questa considerazione così semplice, così banale, comporta immediatamente il piombare nella metafisica, cioè, il cercare l’aldilà delle parole. No, è una parola in prima istanza, con tutto ciò che questo comporta. E, quindi, tutte le possibilità e tutte le questioni che apre.

Che non ci sia uscita dal linguaggio non va senza conseguenze. Ma, dicevo, è stato Freud il primo, almeno negli ultimi secoli, a tenere conto di questo aspetto, cioè, che ciò ciascuna persona si trova a dire intanto la sta dicendo. Prendete i suoi scritti, l’Interpretazione dei sogni, la Psicopatologia della vita quotidiana, il Motto di spirito. Potete leggerli come testi di linguistica, anche abbastanza sofisticati tutto sommato, anche se Freud non possedeva quelle nozioni che nascevano insieme con lui alla fine del secolo scorso. La linguistica ha avuto un impulso in seguito a De Saussure e quindi con lo strutturalismo. Tra l’altro, alcuni linguisti, tra i più attenti, come Hjelmslev, Greimas, Benveniste, giungono a considerazioni che sono straordinariamente prossime a quelle di cui, qua e là, Freud fa menzione nei suoi scritti. Freud giunge alla nozione di significante nel saggio intorno alle afasie. Non enuncia il termine significante, perché non ha questo termine che è stato inventato da De Saussure e prima di lui dagli stoici, ma parla di di rappresentazione acustica e rappresentazione di cose.

E i pensieri? Che ne so dei pensieri se non li esprimo tra me e me o tra me e altri? Non ne so niente, non posso neanche dire che sono pensieri, neanche negarlo perché, se lo faccio, comunque dico qualcosa. E così il gesto. Che cos’è il gesto? Cos’è il gesto senza un supporto che renda il gesto un qualche cosa per qualcuno?

Allora, la considerazione che ciascuno parla, in prima istanza è la considerazione che ha consentito a Freud di inventare la psicanalisi. Questo ha un corollario immediatamente, cioè l’impossibilità di stabilire, della psicanalisi, qualunque teoria, qualunque griglia di interpretazione, qualunque sistema che possa essere riproducibile, partecipabile. È noto che una seduta di psicanalisi non può essere partecipata. Una persona estranea che ascolta ciò che viene detto in una seduta non ricava assolutamente niente. Ciò che ascolta non lo riguarda, non riguardandolo non produce assolutamente niente, non incontra quelle immagini, quelle fantasmatiche e quelle parole, che invece incontra la persona che è in questione. Questo è il motivo per cui Freud rifiutò di fare un film sulla psicanalisi, che poi fecero altri. Hitchcock fece un film molto bello, come li faceva lui, che però ha poco a che fare con la pratica analitica.

Heidegger per qualche verso si accosta alla questione di cui dicevamo laddove enuncia questa sorta di paradosso, enunciando l’essenza della verità come la verità dell’essenza. Una definizione sibillina. In effetti, quando parla di un velarsi diradante parlava evidentemente di questo e cioè che l’essenza della verità non può dirsi senza un criterio precedente. Da qui la sua considerazione intorno all’impossibilità, che lui ravvisa, di potere pensare la verità senza il supporto della metafisica, cioè senza trovarsi in una struttura metafisica. Pensare alla verità come adæquatio rei et intellectus o, in definitiva, come ciò che deve rispondere di sé, in modo identico, perché la verità per definizione non può mentire. Deve essere identica a sé, almeno quella deve essere identica a sé, non deve mentire.

La supposizione che esista un tale elemento linguistico è un’invenzione della metafisica. Anzi, è la metafisica stessa.

Allora, posti questi elementi, si può fare una domanda: cosa fa la psicanalisi?

Pone le condizioni perché ciascuno possa articolare, elaborare, una struttura religiosa che insiste nel proprio discorso, quindi, dissolvere la necessità di attenersi a un criterio o di attenersi a un pensiero, di attenersi a qualunque cosa. Cessare di avere questa necessità consente una mobilità, consente di potere disporre di ciò che si dice e di ciò che si fa in tutt’altro modo, consente una libertà assoluta.

 

Risposte lungo il dibattito.

 

La prova scientifica, per potere darsi, necessita di un criterio vero-funzionale. Fuori da questa nozione di vero-falso la ricerca scientifica, soprattutto la sua ideologia, non può fare niente.

 

Il teorema di Gödel è di straordinario interesse. In effetti, la crisi dei fondamenti della fine del secolo scorso, che ha travolto non soltanto la matematica ma anche altre discipline, sorge proprio nel punto in cui è stato chiesto al pensiero di confermare se stesso. Il pensiero o qualunque asserzione, perché, finché un’asserzione afferma qualcosa di altro va tutto liscio. L’intoppo sorge laddove a questa proposizione si chiede di affermare se stessa. Allora succedono dei problemi insormontabili.

In logica ma anche in filosofia, in linguistica, ci sono stati dei contraccolpi non indifferenti a questo. Nella linguistica, ad esempio, Trubeckoj indaga intorno al fonema, come unità minima, che deve rispondere di sé. Almeno lui deve essere identico a sé per potere costruire un linguaggio. Il fatto di non riuscirci lo secca moltissimo. Rende conto che c’è una sorta di impossibilità connessa alla parola che forse già Gorgia aveva intravista. Cioè, non c’è uscita dal linguaggio, per dirla in altri termini. Questo comporta che nessun elemento può dimostrare se stesso salvo uscire dal linguaggio, salvo uscire dalla struttura che lo fa esistere. Gödel ha messo in atto questo rispetto alla matematica, i suoi principi, ma la questione non è differente. Anche in quel caso si è trattato di far rispondere un elemento di se stesso. Non può farlo se non uscendo da sé. Sono considerazioni che possono comportare molto riflessioni intorno alla possibilità di asserire qualcosa e, quindi, la possibilità di credere in qualcosa, che sia così. Ora, non è che ciascuna volta ciascuno tenga conto di una quantità sterminata di conoscenze. Può farlo, ma il più delle volte afferma semplicemente, dice che è così. Però, non saprebbe nemmeno spiegare perché è così. Come accadeva a Agostino: quando nessuno mi chiede cosa è il tempo lo so, quando me lo chiedono non lo so più. Come accade quando si tratta di scrivere qualcosa: magari i pensieri sembrano molto chiari, quando però si devono mettere per iscritto non sono più così chiari.

È di tutto ciò che si occupa la psicanalisi. Lo riscontra e lo rileva, talvolta, in modo drammatico. L’impossibilità di fondare la matematica può essere marginale per i più. La questione può, invece, diventare drammatica laddove si deve fondare un’asserzione che riguarda il fatto che la persona X mi voglia bene oppure no. Questo magari è più importante, può comportare dei risvolti drammatici. Oppure, riguardo alla mia esistenza, oppure riguardo alle cose che voglio fare. Può accadere, per esempio, che qualcuno si chieda “che cosa voglio?” Che cosa sta facendo? Sta cercando l’elemento che fondi il suo desiderio in modo definitivo, l’ultima risposta al suo desiderio. Per Hegel è la morte, il padrone assoluto. In altri casi, è dio, dio come ultima ratio, come necessità di trovare un elemento rispetto a cui fermare questa proliferazione di segni, di cascate di semiotiche di cui parlava Peirce, inarrestabile. Ecco, ciascuno può incontrare questi elementi, apparentemente astratti e del tutto marginali in modo invece drammaticissimo. A un certa età, ho fatto un sacco di cose, ma che cosa veramente voglio, cosa veramente desidero? È un esempio come un altro.

La conoscenza necessita per potere darsi, per potere dirsi, che gli elementi, che mano a mano acquisisce, non mentano. Solo a questa condizione può parlarsi di conoscenza. E è questo che Popper invoca, a un certo punto, come assolutamente necessario: che gli elementi, in questo caso linguistici, non mentano. Se mentissero, se questa eventualità non fosse controllabile, la conoscenza in quanto tale non sarebbe possibile.

Può porsi la domanda intorno alla conoscenza, vale a dire che cosa si intende parlando di conoscenza? Cioè, se parlando di conoscenza si implica necessariamente questo che dicevo, che gli enunciati non mentano, già rientra immediatamente un criterio di verità che va molto oltre la conoscenza o la conoscenza della verità, in quanto data come ipostasi, come necessità linguistica molto prima che conoscibile come imprescindibile per potere parlare.

In qualunque modo io mi approcci a qualcosa lo faccio attraverso il linguaggio. Qualunque sensazione diventa tale nel momento in cui posso esprimerla.

Supporre una fisica fuori del linguaggio è già un’operazione metafisica. In questo senso, che immagina che possa darsi qualche cosa fuori dal linguaggio, che cioè possa cogliersi senza linguaggio, che si dia da sé. Dicevamo prima dell’asserzione catalettica degli stoici, dell’enunciato protocollare, ecc., che le cose mi si diano così come sono, immediatamente. Ma anche pensare questo è già preso in un linguaggio da cui in nessun modo posso uscire.

Metafisica qui non tanto come ciò che va oltre la fisica o come i libri scritti in seguito a quelli della fisica, ma come una struttura di pensiero, cioè, la supposizione che si dia un aldilà delle parole. Ora, certamente, questa supposizione è resa possibile dal linguaggio stesso.