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COMUNICAZIONE DELLA PSICANALISI

 

13 marzo 1993

 

Questa volta, a proposito del discorso religioso e proseguendo la questione, voglio tornare su un aspetto che è sempre presente in quel che diciamo, un aspetto linguistico.

Ci sono alcune annotazioni di Apel, filosofo tedesco vivente, che possono essere lette e che consentono di riflettere e di porre il discorso intorno al linguaggio in modo più preciso. Vi leggo ora qualche passo che ho annotato.

“Più esattamente [si riferisce qui a un tizio immaginario] è già sempre membro di una comunità reale della comunicazione, storicamente costituitasi, con la quale deve condividere una lingua concreta e una pre - comprensione dei problemi; anzi, persino già sempre un’intesa minimale a riguardo di certezze paradigmatiche e di premesse accettabili.”

È una tesi che Apel riprende da Heidegger, quella della pre - comprensione, cioè di un qualcosa che deve essere già da sempre esistente per qualcuno perché possa avvenire la comunicazione. Che cosa è già da sempre esistente? È il linguaggio, dice Apel, cioè il fatto che ciascuno è già da sempre preso nel linguaggio. In che senso “da sempre”? Nel senso che si accorge di essere preso nel linguaggio soltanto aprés - coup, se ne accorge dopo. In effetti, è già preso nel linguaggio ma è solo dopo che se ne accorge.

Questo pone delle obiezioni intorno alle teorie dell’apprendimento del linguaggio, cioè intorno al fatto che il linguaggio possa apprendersi. Già per Heidegger il linguaggio non si apprende. Non c’è apprendimento del linguaggio ma ciascuno ad un certo punto si accorge che è già nel linguaggio, un linguaggio che lo “pre - esiste” perché il linguaggio incomincia a esistere nel momento in cui se ne accorge, non prima.

Ciò che di problematico dice Apel è questo: per lui in qualche modo c’è un accordo, anche minimale. È sempre curioso quando si pone la questione in termini di quantità: c’è più o meno accordo, c’è un accordo minimo, già dato e che consente la comunicazione. Senza questo accordo non ci sarebbe possibilità di comunicazione. Non ha torto ma non ha neanche ragione. Non ha torto per un aspetto filosofico, nel senso che ciascuna cosa che viene detta occorre che incontri nell’interlocutore

 

 

 

LA POLITICA DELLA PSICANALISI

 

16 aprile 1993

 

Introduzione di Sandro Degasperi.

Questa sera diamo inizio al primo di una serie di incontri su “La politica della psicanalisi”.

È noto come la questione politica stia raccogliendo molto interesse in questi ultimi anni. Il crollo del muro di Berlino ha costituito l’atto conclusivo del fondamentalismo ideologico, è stato la metafora del crollo delle ideologie, del marxismo-leninismo e ha segnato l’avvio di un percorso di trasformazione che sta attraversando tutta l’Europa. Questo in un momento in cui si parla di unità europea. L’Europa, potremmo dire, è la scommessa, è la posta in gioco di questa trasformazione. L’Europa non è tuttavia l’esito scontato, il risultato naturale di questa trasformazione. L’Europa è un atto arbitrario, l’Europa non è naturale, non esiste in quanto tale, è un artificio, qualcosa da inventare. Il no di alcuni paesi al trattato di Maastricht dimostrano chiaramente come l’Europa non vada da sè, come non sia naturale.

L’Europa resta una scommessa proprio oggi mentre stiamo assistendo a una microframmentazione di stati sempre più piccoli e a guerre locali in cui ciascuno dei contendenti cerca di ritrovare la propria identità nazionale, religiosa e etnica, la propria origine.

Laddove la separazione fra paesi occidentali capitalisti e paesi dell’Est comunisti aveva mantenuto un’immobilità in cui l’Altro, la differenza erano rappresentati dal nemico al di là del muro, con la fine delle ideologie, con il crollo di questo muro la scena è divenuta incontrollabile, ingestibile. Si è trattato di trovare ovunque l’Altro, di individuare a tutti i costi il nemico, di isolare la differenza, di espellerla, di attaccarla. L’Altro viene personificato, rappresentato e, in questo modo, la differenza diventa convertibile in diversità. E così viene rappresentata nel diverso, nell’ebreo, nell’extracomunitario, ecc.

In Italia, la vicenda tangentopoli, il fenomeno leghe, il dibattito sull’assetto istituzionale segnano il passo di questa trasformazione.

Con la crisi dei partiti, seguita alla fine dell’ideologia comunista, fine che ha scosso un equilibrio dualista che ha retto l’Italia per più di quarant’anni, è esplosa la denuncia della corruzione. La partitocrazia ha lungamente occupato lo stato assumendo una macchina del tempo atta a produrre e gestire un’egemonia totalizzante sull’impresa, sulla finanza e sulla cultura secondo una logica della spartizione retta dal principio della tangente. Oggi, la denuncia della corruzione dei politici è così estesa e travalica i confini cittadini, regionali e partitici che dimostra che in ballo non è l’onesta personale di qualcuno, non è in questione la correttezza personale o dei partiti, è in discussione l’ideologia della politica. Questo è l’aspetto più interessante. Tuttavia, anche in Italia si assiste a un recupero dei vari arcaismi, dei vari provincialismi nel tentativo di economizzare la trasformazione. Recupero che sembra riuscito laddove si ascolta un delirio giudiziario e inquisitorio e il dibattito sembra arrestarsi su una dicotomia purismo-corruzione in cui ancora una volta si tratta di rappresentare l’Altro nel nemico.

Oggi sembra molto difficile pensare una politica senza nemico. Una politica senza nemico resta, tuttavia, la scommessa dell’avvenire.

C’è una politica, la politica della psicanalisi come scienza della parola, che non è la politica dei partiti, che non è la politica del discorso comune moralista, che non è la politica delle visioni del mondo, ma è la politica della parola, la politica del tempo, della divisione, dell’apertura.

La politica della psicanalisi non toglie l’Altro, non deve rappresentarlo, personificarlo, ma procede dalla funzione di Altro, dalla funzione di terzo, dal principio del terzo incluso che sovverte il bipolarismo ideologico gnostico di cui ha vissuto il sistema politico italiano e internazionale.

Il discorso occidentale si è retto da Aristotele in poi sul principio del terzo escluso, sulla necessità dell’eliminazione dell’Altro, della differenza per garantire l’identità, l’unità.

La funzione di Altro, la funzione di terzo, la funzione vuota è ciò che impedisce che la parola sia identica a sé, è ciò che impedisce la significazione, è ciò che impedisce che il discorso possa chiudersi formando un’unità, un tutto.

Il discorso politico occidentale ha creduto di poter esercitare la padronanza sulla parola offrendone lo spettacolo. Ha creduto possibile controllare la parola, ha creduto possibile controllare la scena, dirigerla, come se la scena fosse la scena tutta, la scena delle cose finite, immobili. La psicanalisi dice invece di una parola infinita, di una scena delle cose infinite, di un’altra scena che si produce parlando, di una scena non controllabile, non isolabile perché c’è sempre dell’Altro.

La politica senza nemico dunque è una politica che proceda dall’Altro, dalla differenza, dalla sua ammissione. In altri termini, una politica dell’integrazione che consenta d’inventare l’Europa e da cui possa emergere la pace. Non la pace dell’armonia cosmica, che è sempre fondata sul terrore, ma la pace come indice della differenza sessuale, come indice della soddisfazione.

 

Intervento di Luciano Faioni.

Freud ha scritto dei testi politici, fortemente politici, solo per citarne alcuni, il Disagio della civiltà, l’Avvenire di un’illusione, l’Uomo Mosè e la religione monoteista e, se volete, anche le risposte alle lettere di Einstein.

Un intervento politico e non partitico, cioè un intervento che non si avvicina né a un partito né a un altro. È una nozione di politica assolutamente lontana da quella aristotelica, vale a dire quella attuale, cioè politica come la distribuzione dei beni a ciascuno secondo i propri meriti, con una valutazione e un criterio ciascuna volta differente, ma l’impianto resta comunque quello, consente cioè questa distribuzione in modo che ciascuno abbia il suo. Da allora il pensiero, pur con alcune varianti, è rimasto lo stesso: la possibilità di una distribuzione, vale a dire di una misurabilità del bene che deve essere distribuito.

Per Freud la politica attiene all’immisurabile, a ciò che non è né distribuibile, né partecipabile, né gestibile. Indicava tre mestieri impossibili: governare, educare e psicanalizzare.

Una posizione, dunque, di chi non suppone per nulla che la politica abbia a che fare con la distribuzione e quindi con la misura, con l’essere più o meno misurati nella doppia accezione del termine. Se voi leggete alcuni di questi testi a cui accennavo prima, cogliete immediatamente che l’obiettivo, la direzione è quella di intendere la struttura di una credenza che è necessaria al mantenimento della supposizione della necessità della politica nell’accezione di cui dicevo prima.

Se volete dirla altrimenti, l’avvio di un’elaborazione in termini precisi, scientifici, del gesto di Platone e della sua favola, della sua nobile menzogna come la chiama nella Repubblica. Ciò su cui Freud si interroga, in definitiva, è intendere il perché di questa menzogna, da dove viene, e quali, di questa menzogna, sono gli effetti per ciascuno. La menzogna è quella di far credere alla necessità di una misura nelle cose, che le cose debbono essere misurate, pertanto, partecipate e partecipabili.

Freud non si è mai posto nell’ambito di un discorso religioso, di un discorso che debba necessariamente salvare. Discorso religioso nell’accezione più ampia del termine. Mi riferisco a una struttura del pensiero che è religiosa e che si pone, appunto, l’obiettivo di salvare qualcuno da qualche cosa.

Come salvare qualcuno da qualche cosa? Due cose sono necessarie: indicare il male e indicare il bene, la via della salvezza.

Freud non ha mai partecipato a questa orgia salvifica: non ha mai indicato quale fosse il male e non ha mai detto quale fosse il bene da raggiungere e quale la via della salvezza. E è questo che ha suscitato qualche perplessità. A tutt’oggi il dibattito insiste intorno a questo: Freud non è stato un salvatore.

La psicanalisi non salva, lo psicofarmaco sì.

Il dibattito, che era presentissimo al tempo di Freud e ancora oggi lo è, poggiava su questo equivoco, che la psicanalisi fosse uno strumento di salvezza. L’accusa dice che non lo è. Infatti, non lo è mai stata, non si è mai posta in questi termini. Non si è mai posta per Freud. Altri poi hanno preso altre vie.

Tolto, quindi, il progetto di salvezza, la politica non è più pensabile nei termini di un’equa e giusta distribuzione del bene.

I terapeuti, di cui parlavamo qualche tempo fa a proposito di Filone alessandrino, immaginavano il bene come l’essere. Era una tesi che traevano anche da Aristotele. Si tratta nel pensiero politico, così come è passato fino a oggi, di una giusta, corretta, equa distribuzione dell’essere: che ciascuno abbia la sua parte e ne sia quindi partecipe.

Non tutto, però, perché l’essere tutto, in quanto tale, nel cristianesimo è posto come irraggiungibile, è sempre al di fuori, è dio. Per la posizione gnostica, invece, è ottenibile attraverso un certo percorso che occorre fare seguendo alcune regole.

Dunque, dicevamo della distribuzione dell’essere, del bene. Chi più del terapeuta si occupa di questo, della distribuzione del bene? I terapeuti di cui parla Filone alessandrino era una setta che operava intorno al I sec. d. C. e che aveva come obiettivo la salvezza non soltanto psichica ma anche morale, etica. E, in una parola, anche quella politica. C’entra Aristotele, occorre leggere Aristotele perché una quantità considerevole di questioni che oggi sono date come acquisite, scontate, ovvie, naturali, sono un’invenzione di Aristotele. Non sono né naturali, né ovvie, né evidenti, proprio per nulla.

I terapeuti, dunque, sono coloro che sanno quali siano esattamente i bisogni del prossimo e sanno che il prossimo, finché non abbia soddisfatto i propri bisogni, è insoddisfatto e sanno come soddisfare questi bisogni. Tutto questo sa il terapeuta. Come lo sa? Questa è una questione molto spinosa su cui si glissa con estrema disinvoltura. Nella migliore delle ipotesi lo sanno perché direttamente ispirati da dio. Dico nella migliore delle ipotesi perché la peggiore è, invece, quella di ritenersi la mente, la mente del popolo, la voce del popolo, idea che è comunque sempre connessa a dio. Vox populi, vox dei. La questione di dio va molto al di là del cristianesimo, evidentemente.

Il terapeuta qui è il politico ideale, l’uomo politico, l’homo politicus, colui che si occupa di togliere il disagio in quanto non essere, come ciò che non è e, quindi, si fa anche fautore del vero indicando ciascuna volta il falso.

Tutto ciò che vado dicendo è certamente molto noto ma comporta l’invito, oggi, a una riflessione intorno a ciò che sta avvenendo, non tanto oggi in quanto stanno avvenendo cose più o meno spettacolari, ma come per ciascuno, si ponga la questione politica, come ciascuno la incontra e come funziona.

Può avvenire che si immagini che l’uomo politico sia in effetti il terapeuta, cioè colui che deve soddisfare i bisogni di ogni genere, demandando pertanto a altri, sempre e necessariamente, la possibilità e la capacità di togliere il proprio disagio.

Se voi state male, questo è il motivo. C’è una prontezza, una facilità, una rapidità nell’attribuire, di volta in volta, il male a qualcosa o a qualcuno.

Il male coalizza sempre, si fa sempre fronte comune di fronte al male o, se preferite, di fronte al nemico. Quando c’è una guerra tutto il popolo si fa uno contro il nemico. Pochissime cose, quanto la guerra, hanno la capacità di coesione della popolazione. Di colpo scompaiono tutti i dissidi interni, tutti i problemi svaniscono. Addirittura, diceva Freud in un modo un pò umoristico, persino le nevrosi, durante una guerra, scompaiono: tutti stanno perfettamente bene.

Oggi, con l’ampliarsi dei mass-media, la spettacolarità ha avuto una portata sempre maggiore. Anche i processi diventano spettacolari. Purtroppo la gogna è in disuso, ma se si potesse ... Le esecuzioni avvenivano sempre in pubblico, l’aspetto spettacolare ha sempre costituito una componente fondamentale, perché unisce.

Dunque, la necessità è quella di far fronte comune o, comunque, fare di tutto perché i cittadini siano uniti. Ecco, allora, lo scandalo politico. Lo scandalo politico comporta che tutti siano d’accordo nel dire che c’è un tizio che è uno sciagurato. Non ci interessano le valutazioni morali, ci interessano gli effetti di un discorso, gli effetti di un percorso. Sono importantissimi gli effetti, intendere ciascuna volta dove conduce un discorso. Questo perché da ciò che produce può intendersi moltissimo rispetto a ciò che ha mosso un certo dire, un certo fare. È la questione del lapsus, dell’atto mancato, questione elaborata da Freud in termini molto precisi.

Ecco, allora, lo scandalo politico avvicina, almeno per un aspetto. Ciò che importa è che ciascuno incominci a riflettere, come dicevo prima, su varie questioni. La questione politica è la questione della divisione quindi dell’impossibilità di misurare. La divisione non è gestibile, non è arginabile, nel senso che le cose si dividono da sé e pertanto sono immisurabili. In questo senso, ciascuno può riflettere intorno alla politica del proprio discorso.

Certamente, questo non toglie una riflessione anche intorno agli avvenimenti attuali, avvenimenti che possono intendersi non soltanto attenendosi rigorosamente al pensiero politico così come è strutturato ma anche e soprattutto cogliendo come lo scandalo politico abbia una funzione di normalizzazione. Lo scandalo ha questa funzione, nessun’altra: indicare che è tempo che le cose diventino normali, che le cose cambino, che bisogna fare in un certo modo. E è così da sempre, lo si può leggere nello scandalo relativo a Verre, accusato da Cicerone di concussione, attualissimo. Le questioni sono le stesse, anche il processo si svolge negli stessi termini. C’è un progetto, non sempre consapevole, non sempre del tutto noto e che attraversa ciascuno scandalo politico.

Lo scandalismo dice che qualcosa deborda rispetto alla normalizzazione. Ma al di là di questo, vale a dire della portata morale, importa come ciascuno reperisce queste questioni rispetto al proprio discorso, cioè che cosa fa scandalo nel proprio discorso, che cosa interviene come inammissibile, come insostenibile. Come dire tutto, ma questo no, questo proprio non può passare, non deve avvenire. Lì si intravede lo scandalo, che è il modo più corrente e diffuso di avvertire come qualcosa sia funzionale al discorso comune in quanto è soggetto a essere ricondotto sulla retta via.

Dicevo all’inizio che il messaggio di Freud allude a una questione straordinaria nel senso che indica nell’ordinario, nel misurabile, nella supposizione più o meno metafisica che qualcosa sia misurabile, pertanto partecipata o partecipabile, una delle illusioni più sorprendenti, più curiose e bizzarre che si possano immaginare. Tant’è che la esplora lungo tutta la sua elaborazione. Non c’è in Freud né pessimismo né ottimismo, non gliene importa nulla. Ciò che lo interroga è come le cose avvengono, non come porre dei rimedi. Il terapeuta è, invece, colui che pone dei rimedi perché sa qual è il bene.

Freud non si è mai chiesto che cosa fosse il bene, cioè qualcosa a cui ricondurre sempre tutto, necessariamente. Aveva altro da fare. Non ci credeva, non era né ingenuo né sprovveduto. Quando Einstein gli chiede cosa fare perché le guerre cessino, Freud non risponde nulla, non ha alcuna ricetta. Non è un terapeuta. Non ha la ricetta, non si pone come l’uomo politico, prova soltanto a formulare delle questioni, che riguardano lui, come potete leggere nell’Interpretazione dei sogni. Si domanda come mai qualcosa avviene in un certo modo anziché in un altro.

Questo non è andato a genio. Il discorso di Freud non è funzionale al regime, alla normalizzazione. Non andava a genio a Stalin, a Gramsci, a Mussolini, a padre Gemelli, non andava a genio a nessuno che si ponesse come terapeuta, di volta in volta.

Ciò che andava inventando Freud non era propriamente una tecnica di guarigione ma un primo modo di avviare un’elaborazione intorno alla nozione di guarigione e, quindi, di male. Non è mai partito dal concetto di sacro, cioè che ci fosse qualcosa di assolutamente intoccabile e di cui non si dovesse parlare, ha provato a interrogare questi concetti su cui si fonda il discorso occidentale quali il concetto di sofferenza, di sacrificio, di male necessario, ecc. Ciascuno può ritenere che ciò che lo angustia o lo angoscia sia necessario, oppure, no. Ciò che si chiede Freud è: se sì, allora, come mai? Forse, non va da sé, per cui questa idea può essere connessa con altri elementi e trovare così una fantasmatica che la sostiene. Già Cristo sosteneva che la sofferenza non è necessaria.

Invece, curiosamente, si ascolta da parte di molti, anche sui giornali quando intervengono, come la psicanalisi debba essere il modo per imparare a convivere con la sofferenza. Questa è una forma di rassegnazione desolante. Un mondo di rassegnati, di sconfortati, di avviliti. La psicanalisi non dice questo. È Jung che aveva quest’idea, che ciascuno, per farla breve, occorre che si accetti per quello che è. Freud no, semmai Freud pone delle obiezioni proprio intorno a ciò che ciascuno crede di essere.

Ecco la distanza dall’ermeneutica, cioè dall’interpretazione. Freud è lontanissimo da ogni codice interpretativo, vuoi semantico, esegetico o ermeneutico. L’interpretazione è del terapeuta, è lui che interpreta, naturalmente sempre per il bene dell’altro. Il terapeuta, ovvero l’homo politicus. Non c’è terapeuta, o tiranno se preferite, che non faccia qualunque cosa sempre per il bene dell’altro. Ciascuna guerra è sempre fatta per la pace. Ciascuna guerra è l’ultima. Si fa la guerra perché non ce ne siano più. Quando mai si è fatta una guerra semplicemente per il gusto di farla? No, ciascuna volta è l’ultima. Anzi, è una necessità tremenda ma inevitabile, perché non ci siano più guerre.

E così il terapeuta dice che è l’ultima sofferenza, che è l’ultimo sforzo, l’ultimo sacrificio. Diceva Sade “Francesi, ancora uno sforzo!” per poi liberarsi. Ma chi ha l’idea di liberarsi da qualcosa già parte male perché parte dalla certezza che ci sia un quid, un qualcosa in quanto tale da cui allontanarsi. Ma non sarà, forse, proprio questo a istituirlo come tale, questa credenza, questa certezza che sia proprio così?

Nulla è più funzionale a un gruppo, di qualunque forma sia, che la trasgressione del ribelle. I ribelli sono necessari, assolutamente. Sono le persone che più di altri credono in un’istituzione, per abbatterla.

Si tratta ciascuna volta di un’opera di pulizia e di polizia. Di pulizia, cioè, togliere il marcio, il male. Tolto questo ci sarà il bene. Tolto, aristotelicamente, il non essere, l’essere è finalmente totale, è il tutto. La purificazione, il purismo, costituiscono una questione importantissima da svolgere, da elaborare e da intendere. Che cosa sostiene l’idea di purezza e, quindi, dello sporcarsi le mani, del lavarsi le mani, dell’avere le mani pulite. È sempre questione di mani, la mano insiste in varie configurazioni.

Il purismo, come forma di pulizia, è il supremo obiettivo del terapeuta. Il terapeuta è sempre l’uomo dalle mani pulite, colui che è innocente, vale a dire colui che non nuoce. E, non nuocendo, si pone fuori, è colui che non c’entra.

È una questione straordinaria quella dell’innocenza, che muove da una supposizione che il nocumento sia la prerogativa di qualcuno. Chi nuoce, propriamente? C’è un nocumento, nel senso di qualcosa che altera nella parola. Ciò che si dice ciascuna volta si altera, nuoce, non è innocente. Le parole non sono innocenti.

Chi è l’innocente? Per definizione, è l’infans, colui che, guarda caso, non parla. Chi non parla, chi è fuori della parola, è innocente. La questione dell’innocenza è ancora tutta da elaborare, magari partendo da alcune considerazioni che ha fatto Freud intorno al crimine.

Criminali per senso di colpa, scrive Freud, come qualcuno giunga a ammazzare qualcun altro per finalmente riuscire a dare un senso a un senso di colpa che insiste e che non riesce a sistemare.

È, quindi, la questione della confessione. Theodor Reik scrive un libro che fornisce materiale interessante e che si chiama “L’impulso a confessare”, impulso che è tipico del discorso ossessivo.

Dunque, è l’homo politicus, come il terapeuta per antonomasia, come il normalizzatore, che si avvale, aristotelicamente, della politica come concetto normalizzante. Leggete la Politica di Aristotele e troverete il concetto espresso in modo preciso. E da Aristotele si può giungere a altri autori, fino a Rousseau e fino a Hegel. Forse, solo Machiavelli prende le distanze da questo dicendo che nella politica non si tratta di una misurazione, di una distribuzione equa. Dice che è vano immaginare tutto questo e che, anzi, forse proprio questo pensiero è quello che ha causato i peggiori massacri.

La politica della psicanalisi, dunque. La politica come l’innumero, l’innummerazione che la psicanalisi incontra.

Abbiamo accennato all’etimo del termine psicanalisi: psiché come soffio, leggerezza, analysis come non soluzione. Questo va dicendo Freud in tutte le sue pagine, che non c’è soluzione, che è inutile cercarla, inutile supporre di rendere le cose misurabili, partecipabili e confortanti perché non lo sono.

Nell’Avvenire di un’illusione Freud indica che l’illusione è strutturale, comporta il gioco, il gioco in cui ciascuno si trova, gioco linguistico, fantasmatico e in cui è preso continuamente da ciò che si trova a dire, a fare, a pensare.

L’illusione, quindi, non può togliersi ma non può nemmeno darsi. Nessuno può dare a altri l’illusione, né può togliere l’illusione in quanto è strutturale. La delusione interviene là dove si suppone di poter gestire il gioco. In questo caso, la delusione è sicura.

L’illusione di cui parla Freud è la speranza in quanto apertura, l’apertura che ciascuno incontra nelle cose continuamente. Le cose non si chiudono ma si aprono. Anziché chiudersi e comporre il circolo, che è sempre vizioso, si aprono. Quindi, alludono e illudono, letteralmente, cioè portano verso il gioco e si strutturano nel gioco. E non c’è chi sappia fare né condurre il gioco. Il terapeuta è, invece, colui che suppone, o fa credere, di sapere giocare e, quindi, sa quali sono le regole del gioco.

Al contrario, Freud indica che le regole sono mano a mano strutturate dal gioco e non lo preesistono. Ciascuno le incontra e può attenervisi. Le incontra trovandosi preso lungo questo gioco.

Perché ho accostato il terapeuta al tiranno? Sono tre le figure di cui possiamo parlare: il despota, il tiranno e il vampiro.

Il despota è colui che gode del suo potere, è colui che, in quanto despota, dispone di tutto e di tutti. È una figura vicina al discorso isterico. Il despota è il soggetto supposto godere.

Il tiranno, invece, non gode ma soffre. Soffre perché desidera il bene dell’Altro. Anche nell’accezione antica il tiranno è colui che governa per il bene e, quindi, sa qual è l’ultimo sacrificio da fare. È colui che dice, per l’appunto, che oggi dobbiamo sacrificarci e soffrire affinché il domani sia migliore. Si avvale della nobile menzogna. Qual’è la menzogna di Platone? Che ciascuno deve stare necessariamente al suo posto. Chi è figlio del tale occorre che resti tale, perché deve essere così, perché non può muoversi dalla sua posizione.

È questa la questione che pone il tiranno. Il tiranno si fa carico della sofferenza di tutti, è sempre oberato da tutti i mali del mondo, ma sempre per poterlo liberare dal male.

Il despota è sempre stato accostato all’orientale, al sultano, al pascià, al califfo, al soggetto gaudente. Il tiranno, invece, è più un’immagine cristiana.

Il vampiro è infine colui che è supposto dire la verità. Il vampiro si nutre della sostanza, vive della sostanza, della verità.

Sono figure di un modo di pensare la politica.

Il despota non è un homo politicus, è sempre al di fuori di tutto. Come il vampiro, il tiranno, invece, indica la direzione da seguire, una direzione, però, che è sempre sofferta, travagliata.

Nel ‘68 si scriveva sui muri “Vogliamo tutto e subito”. Non avevano torto. L’intoppo sta nel supporre che siano altri a doverlo dare. In questo caso, sorgono dei problemi perché si suppone che ci sia un tutto, pertanto, un essere, un bene che qualcuno possiede e che può distribuire.

“Se non me lo vogliono dare non mi resta altro da fare che ammazzarli.” Da qui vari conflitti. Come dicevo, la guerra è sempre l’ultima perché se sono loro che hanno il bene, una volta eliminati me ne impossesso e finalmente ne godo. Freud incomincia a avvertire l’eventualità che non sia proprio così. Certamente occorre che ciascuno voglia tutto e subito, ma può accorgersi che forse ce l’ha già. Si tratta solo di accorgersene: ciò che desidera non c’è chi possa darglielo. Questione che apre a un’elaborazione straordinaria, apre, cioè, alla ricchezza di cui ciascuno dispone, una ricchezza senza limiti, inesauribile. Freud la intravede, soprattutto nello scritto intorno ai sogni, laddove si accorge che il desiderio non è affatto il volere. C’è una distanza immensa, incolmabile tra qualcosa che lui individua come il desiderio e ciò che si vuole. Distanza che il terapeuta suppone e fa credere di essere in grado di colmare. Freud dice, invece, che è incolmabile, che non c’è nessun modo di togliere il desiderio, cioè sovrapporlo al volere. Facendo questo toglie ogni possibilità, ogni eventualità di potere supporre di togliere il bisogno. Indica, piuttosto, nel bisogno il significante del malinteso, lontanissimo, quindi, dal poter essere tolto o soddisfatto.

Non è un caso che, come dicevo all’inizio, Freud indichi il governare come uno dei tre mestieri impossibili. Dicendo questo non fornisce nessuna ricetta. Non dice “gli altri fanno male, io vi dico come dovete fare”. Non gliene importa assolutamente nulla. Incomincia a trovarsi in una posizione dove, propriamente, non crede. Non crede al male, pertanto, non crede neppure al bene. Con questo passo, con questo gesto, ha aperto tra lui e il terapeuta una distanza che è e rimane assolutamente incolmabile. Non crede al bene, dunque, non crede alla salvezza, alla salute mentale. In che cosa crede? Non crede. Non crede ma interroga, interroga le questioni. Interroga in un modo differente dal modo in cui avviene l’interrogazione nel Menone di Platone, dove lo schiavo sa già tutto, e si tratta solo di far ricordare ché, se interrogato correttamente, risponderà.

La dottrina della corretta interrogazione. Come interrogare per sapere ciò che voglio sapere? Questa è l’interrogazione che fonda la risposta. È il sistema giudiziario. Un sistema che si avvale dell’interrogazione per stabilire i fatti. Dico sistema giudiziario e non giuridico non a caso. Il diritto si interroga molto su queste cose e avverte che il fatto in quanto tale non esiste. È una produzione che avviene lì, in tribunale. Si inventa lì, sul momento. Tant’è che c’è tutta un’arte per fare in modo che ciò che si produce lì, e che si costruisce proprio dal nulla, abbia una certa forma e sia, pertanto, verosimile, credibile. Già dall’antichità ci sono indicazioni per come soddisfare una giuria.

Nel discorso occidentale l’interrogazione fonda la risposta sulla scia del Menone. La fonda in quanto sa già qual è la risposta giusta. Ciascuna volta il domandare vale soltanto per confermare. La domanda cerca una conferma, non altro. Si dice che la domanda cerchi la verità. In questa accezione la verità è un concetto metafisico, l’essere, l’essere tutto, l’essere di cui parlano i filosofi. In effetti, dire la verità è dire le cose che “sono”.

Della verità abbiamo detto alcune cose in altre occasioni, prendendo le distanze dalla metafisica, dalla verità come essere. La verità è un effetto del discorso, ciascuna volta effettuale, assoluta e non relativa. Non c’è nulla di relativo, propriamente e contrariamente a Einstein che voleva sempre rapportare una cosa a un’altra.

Il relativismo è una posizione un po’ voyeuristica, immagina sempre un osservatore da qualche parte che guardi come le cose si svolgono senza avvertire, come poi avvertiranno altri, che l’osservatore non è poi così innocente. È impossibile osservare, impossibile porsi come punto di vista, il panottico che tutto contempla, tutto vede. Non c’è il punto di vista. Non essendoci punto di vista non c’è nulla di relativo. Non c’è “relativo a me”, a me chi, propriamente? Questo me, questo io che sta parlando non va da sé che mi sia noto, che io ne sappia al riguardo. In altri termini, il riferire le cose a sé o a altri cambia poco, nel senso che non so nulla dell’altro, esattamente quanto so di me. So quello che penso mano a mano che ne parlo, vengo a sapere delle cose ma è un sapere che non fonda, che non è fondante o fondato.

Ecco, allora, tutto questo per introdurre la questione dicendo del discorso che avanza Freud in questa sua ricerca che ha chiamato psicanalisi. Questo termine è oggi molto inflazionato, qualunque cosa diventa psicanalisi al punto che è da verificare se è ancora interessante attenersi a questo termine.

Dicevo, dunque, appena per accennare la distanza che pone Freud dal terapeuta, da colui che salva, dall’homo politicus, come colui che sa il bene, colui che si muove per soddisfare i bisogni. Per Freud il bisogno è il malinteso, non è possibile soddisfarlo, in nessun modo. C’è soddisfazione, ciascuno può incontrare la soddisfazione ma non in quella direzione.

Ecco, mi fermo qui provvisoriamente, anche per lasciare spazio a delle questioni che possano formularsi.

 

Risposte lungo il dibattito.

Il bisogno, negli anni ‘70, ha una certa accezione, una certa portata, riguarda i bisogni del popolo. Il terapeuta pone tale bisogno come necessità. Freud avverte una distanza tra ciò che si enuncia di volere e il desiderio. Indica come desiderio qualcosa che resiste, che resta, che non è soddisfatto dall’ottenimento di ciò che si vuole. Come trova questo? Non soltanto nell’Interpretazione dei sogni ma lungo la clinica, soprattutto nell’analisi del discorso isterico che di questo desiderio fa una caricatura. È un modo in cui l’isteria avverte che il desiderio non è esauribile, in nessun modo. Qualcosa insiste, resiste a qualunque tentativo di toglierlo di mezzo. Il discorso isterico ha creato un modo, in alcuni casi anche drammatico, con cui avverte l’impossibile connesso al desiderio. Freud lo trova lì, in ciò che resiste e che fa ostacolo alla chiusura. Qualcosa continua a lasciare a desiderare. Lo reperisce in uno spostamento continuo, strutturale. Questo desiderio è tutt’altro che marginale per ciascuno perché è ciò che lo muove, insieme a altre cose. Costituisce un aspetto determinante nella vicenda di ciascuno per il modo con cui tenta di porre rimedio a questo impossibile costruendo varie strutture, vari marchingegni che dovrebbero toglierlo, definitivamente, come l’ultima risposta al desiderio.

Nel discorso occidentale, hegelianamente o come vuole il discorso ossessivo, l’ultimo desiderio è la morte, quello che toglie finalmente il desiderio, dopodiché non si desidera più. Da qui tutta la questione del discorso ossessivo intorno alla morte.

La connessione tra desiderio e bisogno è una questione importante rispetto al discorso politico, poiché da questa o su questa coincidenza, sull’idea, sulla supposizione di questa possibile coincidenza, si istituisce ogni promessa politica.

Che cosa funziona? L’idea che, rispondendo al bisogno o a ciò che si avverte come tale, si risponda anche al desiderio. Ma il soddisfacimento di questo bisogno già sposta la questione perché comporta altre immagini, altri pensieri. Non è che l’impossibile soddisfacimento del desiderio sia un male, anzi, è una fortuna. Ma in questo caso la supposizione, la suggestione è che rispondendo in questo modo si chiuda una domanda e, quindi, non ci sia più del disagio, l’inquietudine, qualcosa che interroga e che continua a domandare.

Ci si pone qui di fronte alla questione della domanda, domanda che attiene anche al desiderio, anche se non è la stessa cosa. Domanda pulsionale inestinguibile che comporta il disagio, il disagio della civiltà, che è strutturale. Il disagio non è lo stare male. Lo stare male è la rappresentazione, la messa in atto dell’impossibilità di togliere il disagio.

Il dare soddisfazione a un bisogno comporta ogni volta un malinteso così come togliere un equivoco comporta ogni volta un altro equivoco, inevitabilmente.