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Torino, 12 ottobre 2010

 

Libreria LegoLibri

 

IL GIOCO DEL PENSIERO

 

Luciano Faioni

 

I giochi della fantasia

 

Eravamo partiti, due incontri fa, da un discorso molto ampio sugli effetti prodotti dal fatto che gli umani cercano continuamente di sopraffarsi, di avere ragione gli uni sugli altri, sia i singoli che gli stati e le nazioni, e avevamo mostrato come questa fosse la causa di notevoli disastri, discordie, guerre di ogni sorta e poi abbiamo mostrato da dove viene tutto ciò, e perché accade una cosa del genere, indicando nel linguaggio, nel fatto che gli umani pensano, parlano, il motivo di questa ricerca della ragione, che è connessa con la ricerca della verità. Soltanto gli umani cercano la verità, sono gli unici abitanti di questo pianeta a mettere in atto questa ricerca. Abbiamo mostrato che per il solo fatto che gli umani parlino ne segue necessariamente che non accorgendosi di ciò che avviene parlando si trovino travolti da fantasie, da fantasie di potere soprattutto, e cerchino in ogni modo di sopraffare il prossimo in un modo o nell’altro, direttamente o indirettamente. Ciò che ci interessa questa sera è intendere cosa produce questo linguaggio, linguaggio che è da intendere non tanto come una verbalizzazione di pensieri o di altre cose ma come una struttura. Molti si sono occupati del linguaggio, i linguisti ovviamente e i filosofi del linguaggio, i logici, per intendere come funziona, che portata ha presso gli umani, una portata della quale ci si è accorti soprattutto nel secolo scorso, portata dicevo che va molto al di là di quanto comunemente e generalmente si fosse immaginato. Si era pensato da sempre che il linguaggio fosse uno strumento per esprimere cose: pensieri, concetti, cioè descrivere cose, però altre e più attente considerazioni hanno messo in evidenza un fatto nuovo, e cioè che il linguaggio non serve soltanto a descrivere qualche cosa, a definire concetti ma è qualcosa che fa degli esseri umani una specie assolutamente particolare, degli esseri in condizione di pensare, di valutare, di decidere, di avere problemi, avere aspettative, speranze, affetti, poterli descrivere, poterli mutare a seconda dei casi, fare insomma una quantità di operazioni di cui gli umani perlopiù non si accorgono perché vengono considerate come assolutamente ovvie, normali, naturali, così come il fatto di parlare. Nessuno si sofferma a considerare, mentre sta parlando, che sta parlando, e di conseguenza che cosa accade mentre sta parlando, in lui in prima istanza, e in chi ascolta. Si è sempre immaginato che il linguaggio fosse quello strumento utilizzato per la descrizione della realtà e uno strumento per piegare anche la realtà eventualmente all’utilizzo che ne fanno gli umani ma, come vi dicevo, le cose nel secolo scorso hanno incominciato a farsi più complesse, più complicate, perché qualcuno ha incominciato a domandarsi che cosa fosse in effetti la realtà che il linguaggio avrebbe dovuto descrivere. Pochi si erano posti questa domanda perché data per scontata, acquisita, la realtà è quello che vedo, che sento, che tocco e chiuso il discorso, qualcuno ha incominciato invece a chiedersi perché, e se è proprio così oppure no. Naturalmente ci si trova di fronte a un indagine piuttosto complessa, interrogarsi sulla realtà comporta mettere in discussione alcune cose che costituiscono una sorta di fondamento per gli umani: il criterio di verifica, una cosa è vera se corrisponde alla realtà è falsa se non corrisponde, generalmente si pensa così, distinguendo quindi tra realtà e fantasia generalmente e come si fa a distinguere? La realtà si considera qualche cosa che costituisce un criterio di verifica, è reale ciò che può essere verificato in base a certi parametri, la fantasia no, si considera che la fantasia non abbia nulla a che fare con la realtà. C’è stato qualcuno che ha incominciato a porre delle obiezioni a una distinzione del genere, creando non pochi problemi, d’altra parte già la letteratura così come i film si sono molto impegnati in questo, cioè nel mostrare la possibilità che ciò che comunemente si chiama realtà di fatto sia qualche cosa di totalmente differente di ciò che si suppone che sia. Pensate a film di fantascienza, come Matrix per esempio, lì, se qualcuno l’ha visto, ricorderà che la cosiddetta realtà è una costruzione, una costruzione di un qualcuno che sta da qualche parte e che attraverso sistemi computerizzati crea ad hoc una certa realtà, che è quella che comunemente si riconosce come tale. È una cosa che spesso interviene: l’idea che la realtà sia un’altra cosa rispetto a ciò che comunemente si pensa. Un pensiero che ha affascinato non soltanto scrittori e registi ma anche filosofi. Qualcuno ha incominciato a porre la questione: perché dovrebbe essere così come la vediamo? Cosa significa affermare che questa è la realtà? Semplicemente perché abbiamo stabilito che chiamiamo realtà tutto ciò che cade sotto i nostri sensi? O c’è qualche altro motivo? D’altra parte si intende realtà come ciò che cade sotto i sensi per cui sembra un circolo vizioso, e la fantascienza si è sbizzarrita in queste cose, però la fantascienza ha avuto sempre questo limite, che è appunto un discorso fantastico sulla scienza. Ma cosa vuole dire che è una fantasia? Che dice cose che non possono essere dimostrate ovviamente, tutto ciò che i film di fantascienza mostrano, esibiscono, raccontano non può essere provato, qualcuno si è spinto anche più in là come un certo Paul Feyerabend, ma non solo lui, il quale ha detto che è vero, la fantascienza è un racconto che non solo non può essere provato ma non ha neanche questa ambizione, questa velleità, nessuno si mette a dimostrare che un film di fantascienza è vero o falso, è un racconto, ma la scienza? La scienza stessa è vera o è falsa? Cosa significa una domanda del genere? Vera o falsa rispetto a che? Qual è il criterio, il parametro che occorrerà utilizzare per potere stabilire una cosa del genere? E a quel punto cosa si intende con vero e falso? Le cose incominciarono, agli inizi del secolo scorso, a farsi straordinariamente complicate. Anche alcune forme di religione come lo zen, il buddismo, hanno sempre immaginato il sogno e la realtà come cose che si intrecciano, istanze i cui confini non sempre sono così ben delineati, come in quella famosa storiella zen del monaco che sognava di essere una farfalla, la quale farfalla sognava di essere un monaco e quindi non si sapeva più se era il monaco a sognare la farfalla o viceversa. Come dire che ciò che comunemente si intende e si riconosce come la realtà, come sequenza di immagini, di cose, di racconti così rassicuranti per ciascuno, in cui è nato, in cui vive e si muove, può nascondere degli aspetti, come direbbe Freud stranianti. Molti film di fantascienza o anche dell’orrore giocano su questo, nel mostrare negli aspetti più familiari, domestici, più rassicuranti, degli aspetti sconosciuti, stranianti e all’occorrenza, questo per ragioni filmiche, spaventosi. Ciò che a noi interessa è renderci conto che in effetti, e lo faremo tra poco, se ci si riflette bene, la questione va molto aldilà dei film di fantascienza i quali sono rimasti molto al di qua, sì, perché come spesso accade sia nei film di fantascienza, sia nei racconti di fantascienza, fantascientifici o fantastici semplicemente, c’è sempre questa realtà che si trasforma, che muta, che non è la stessa, che diventa instabile e inaffidabile, ma c’è sempre, è lì, magari non è quella che si pensa che sia ma è lì, c’è, da qualche parte c’è. Anche la religione ha immaginato che le cose esistano perché c’è un dio che ne garantisce l’esistenza e mantiene questa esistenza in essere con la sua volontà. La realtà c’è sempre, comunque, realtà che non è altro che l’essere le cose quello che sono, anche se poi precisare di fatto che cosa sono diventa difficile, sono quello che penso che siano, quello che vedo, ma il fatto che veda una certa cosa non garantisce che questa cosa sia così. A questo punto si perde anche il concetto di identità di qualche cosa, come faccio a sapere che ciò che io vedo corrisponde a una realtà assoluta, immutabile, non basta che altri vedano o mi dicano di vedere quello che vedo io, questo non significa niente. Nel medioevo infinite persone giuravano di avere visto dio per esempio, o di avere parlato con la madonna, avviene ancora oggi, non per questo viene accolto come un dato di fatto, né come una prova scientifica. La prova scientifica è quell’esperimento che viene compiuto da qualcuno e può essere ripetuto allo stesso modo da chiunque e in qualunque momento e in qualunque circostanza, entro certi limiti: se tutti giocano lo stesso gioco vedranno tutti le stesse cose. È questo che alcuni hanno incominciato a considerare, tutti vedono la realtà ma tutti stanno giocando questo stesso gioco, quindi è ovvio che vedono quello che vedo io, basterebbe che qualcuno giocasse un gioco diverso, perché dovrebbe vedere quello che vedo io o che vedono tutti? Si può effettivamente andare molto oltre i film di fantascienza considerando che cosa produce quella cosa che gli umani chiamano realtà. Dicevo prima che tutti riconoscono la cosiddetta realtà perché tutti di fatto stanno giocando lo stesso gioco, hanno tutti imparato le stesse regole che vengono apprese nei primi anni di vita. Quando si impara a parlare si imparano queste regole, le regole alle quali poi ciascuno si atterrà e alle quali risponde perché tutti le mettono in atto e quindi ci si comporta così, ma per quanto sia difficile stabilire il concetto di realtà, cioè definirlo in modo necessario, assoluto e non come una convenzione, rimane che il fatto che la più parte anzi, direi quasi la totalità delle persone ci credano costituisce una prova, come si diceva una volta: vox populi, vox dei, la voce del popolo è la voce di dio, se lo dice il popolo lo dice dio. Come criterio potrebbe non essere così attendibile, se fosse qualche cosa che rende la fantascienza sorpassata e mostra le cose in modo straordinariamente differente? Immaginate per esempio che qualcuno incominci a riflettere su di sé, sul suo modo di pensare, sulle cose che vede, e cioè incominci a considerare che vede una certa cosa, se la vede allora gli occhi sono fatti in un certo modo, una rete di bastoncini che forniscono degli impulsi al sistema nervoso il quale traduce questi impulsi in quella cosa che io credo di vedere, ma tutto questo processo che avviene, diciamo processo fisico o fisiologico, come so che mi restituisce l’immagine certa? Non so neanche esattamente che cosa mi restituisce in realtà, e poi da dove viene il fatto che io mi ponga una domanda del genere? Cosa significa che gli umani si facciano domande? Ecco, questa potrebbe essere una domanda fondamentale anche perché se non parlassero tutte queste questioni non solo non esisterebbero ma non sarebbero neanche mai esistite perché nessuno si sarebbe mai chiesto una cosa del genere perché non avrebbe avuto gli strumenti per farlo, così come avviene. Una lucertola non si pone questioni intorno alla verità o all’essere o all’ente, non lo fa e non si pone, non può porsi la questione perché non c’è questa struttura che chiamiamo linguaggio che consente di fare queste operazioni, e cioè domandarsi per esempio che cos’è il linguaggio. Può sembrare una questione marginale ma in realtà potrebbe anche non esserlo, visto che questa cosa che continuiamo a chiamare linguaggio, perché si chiama così, ci permette attraverso la sua struttura di trarre delle conclusioni, di farci delle domande, di darci delle risposte, di accogliere certe cose come risposte e altre no, naturalmente si suppone che il criterio ultimo di verifica, quando uno prende una decisione o stabilisce qualche cosa sia la realtà, e in effetti così si è sempre pensato, se questa cosa si adegua alla realtà è vera, se non si adegua è falsa. Ma supponiamo che questo tizio di cui parliamo continui a interrogarsi e si domandi “io so che quello è un aggeggio”, però se non mi trovassi preso in questo linguaggio di fatto non potrei chiedermi questa cosa, non saprei che cos’è, non saprei niente, vedrei questa cosa? Se questo personaggio di cui parliamo è un personaggio rigoroso, dovrebbe rispondersi che non lo può sapere se la vedrebbe lo stesso oppure no, perché a quel punto la nozione stessa, il concetto stesso di vedere qualche cosa non c’è più, e quindi chiedersi se la vedrebbe lo stesso oppure no è un non senso perché non ha una risposta. Non posso uscire dal linguaggio, e fuori dal linguaggio fare questo esperimento, cosa che è già una contraddizione in termini perché se faccio un esperimento è perché mi sono posto una domanda e quindi sono già nel linguaggio, e poi per costruire l’esperimento ci vuole una premessa, dei passaggi, una conclusione, quindi ci vuole necessariamente questa struttura che chiamiamo linguaggio, per questo dicevo che chiedersi se in assenza di linguaggio quell’aggeggio esisterebbe oppure no, è un non senso, non ha nessuna possibilità di risposta, non significa niente. Ma allora tutto ciò che mi circonda, il mondo da cui sono avvolto di cosa è fatto? A questo punto questo personaggio è preso in un grandissimo dubbio, una fortissima perplessità circa ciò che lo circonda, tutto ciò che ha imparato, quello che ha saputo, quello che sa, che ritiene di sapere, perché si chiede a questo punto se tutto ciò che per lui è la realtà cioè appunto il mondo da cui è avvolto, che lo circonda da sempre sarebbe lo stesso, o meglio questa realtà sarebbe la stessa se lui non potesse in nessun modo parlare? Cioè non avesse nessuna possibilità di pensare? A questo nostro personaggio verrebbe da rispondere d’acchito di no, probabilmente sarebbe totalmente differente, giunge a questo per la sua esperienza. Per esempio gli animali che hanno un orientamento che non è né visivo né olfattivo come per esempio i pipistrelli volano con un sistema che è molto simile al sonar, vedono le cose come le vediamo noi? La loro realtà è la stessa? O è totalmente differente? Certo è una domanda stupida e molto banale ma che capita di porsi in questi casi, come dire che le cose che ho imparate sono quelle che mi permettono di orientarmi nel mondo, le cose che ho imparate incominciando a parlare sono i primi modelli, ma sono questi modelli che si adattano alla realtà che mi circonda o la realtà che mi circonda è fatta di questi modelli? Modelli linguistici tutto sommato, insomma il nostro personaggio si è posta una domanda che a questo punto è fondamentale e cioè: ho imparato a distinguere il mondo che mi circonda o mi sono trovato a costruire delle cose che io chiamo il mondo che mi circonda? Nella migliore tradizione fantascientifica, come in un film di fantascienza perché il nostro signore qui a questo punto della sua riflessione si trova in una posizione particolare, anche difficile perché non ha più riferimenti, quella stessa realtà che perfino nei film di fantascienza comunque da qualche parte, in qualche modo rimane, appare una costruzione, appare una sorta di modulo, di modulo linguistico, qualcosa che Wittgenstein potrebbe chiamare una struttura logica e quindi linguistica. Qui la cosa si fa non soltanto complicata ma si fa incredibilmente complessa, non c’è più nessun riferimento, nulla, nel senso che non c’è più nulla che possa garantire di essere vera, di essere attendibile, di essere, per dirla in termini molto spicci, rassicurante: niente, più niente, ogni cosa si dissolve, si dissolve nel suo stesso domandare, mano a mano che domando e procedo lungo questo domandare, la domanda dissolve ciò stesso che sto domandando, non c’è più. Se mi interrogo intorno alla realtà mano a mano che procedo questo concetto svanisce, si dissolve, non c’è più, scompare come neve al sole e mi lascia con le mie domande, le mie risposte, i miei pensieri e cioè con tutto quell’armamentario che mi consente di farmi tutte queste domande, l’ho chiamato armamentario ma in realtà è il linguaggio per chiamarlo con il suo nome, come dire che ormai orfano di qualunque riferimento perché non regge più, perché non è più sostenibile: la fisica stessa che è stata per secoli accreditata come la dottrina, la scienza più rassicurante, più affidabile di fatto è fondata su criteri che sono l’uno l’osservazione, l’altro il calcolo numerico, perché dovrei affidarmi a questi due criteri? Chi l’ha detto? Chi ha detto che sono quelli certi, quelli sicuri, quelli che mostrano come stanno le cose? Il calcolo numerico non è altro che un gioco che funziona finché si accettano quelle regole e l’esperienza la stessa cosa, d’altra parte lo stesso Heisemberg ha notato che se voglio fermare un qualche cosa per definirlo nel momento stesso in cui cerco di fermarlo questo inesorabilmente non è più dove penso che sia, faceva un esempio banalissimo, doveva stabilire la posizione di una pallina che rimbalza, e quindi cosa fa? Mette in una scatola una pallina, la fa rimbalzare e con una macchina fotografica che può fotografare anche i millesimi di secondo, ma per fotografarla ho bisogno di illuminare con un lampo la scena, questo lampo produce fotoni, questi fotoni cambiano la direzione, cambiano la traiettoria e la velocità, minimamente ma la cambiano, quindi a causa dello stesso osservare, questa cosa che osservo non è più lì dove dovrebbe essere, si è spostata. La realtà, per dire in altri termini, al momento in cui cerco di osservarla, per il solo fatto di osservarla la modico, questo diceva Heisemberg. Questa considerazione che dice che se incomincio a riflettere sulla realtà modifico la realtà è significativa, ci dice che nel momento in cui incomincio a pensare la realtà questa realtà cambia, non è più la stessa anzi, mi si dissolve sotto le mani mentre ne parlo, mentre cerco di fermarla scompare nel nulla. Il problema è che non ricompare da un’altra parte, non compare più, si è dissolta completamente e dicevo prima, rimango solo con il mio discorso, con i miei pensieri e quindi con questa cosa che chiamiamo linguaggio: è attraverso il linguaggio che è stata costruita la realtà ed è il linguaggio stesso che l’ha decostruita, anzi annullata, annichilita, ridotta a niente. Questo fa il linguaggio: costruisce una realtà, ve la mostra, ve la esibisce, ci fa ambientare, dopodiché la dissolve nel nulla come se non fosse mai esistita. Nessun film di fantascienza ha mai osato tanto, e cioè dire quella cosa che gli umani chiamano la realtà e il mondo che li circonda, in cui vivono, che li accudisce è una costruzione, cosa vuole dire che è una costruzione? Che è una sequenza di proposizioni, il mondo è fatto delle proposizioni che parlano di questo mondo, non c’è da qualche parte, chi ci ha provato a fermarlo, a individuarlo da qualche parte ha fallito sempre e comunque. Come sapete quando si intende fermare qualche cosa, provare che cosa qualche cosa è effettivamente ci si trova di fronte a dei paradossi inenarrabili, paradossi dell’autoreferenzialità soprattutto e cioè il discorso, un qualunque discorso che cerchi la causa di sé al di fuori di sé trova il nulla, e questo è molto semplice da illustrare: se voi cercate di stabilire un quid, una qualunque cosa, cercate di definirla attraverso il linguaggio ovviamente, o anche attraverso esperimenti che comunque sono sempre proposizioni in definitiva, ora questo qualche cosa se immaginato fuori dal linguaggio dovrebbe rispondere di sé, ma come? Con che cosa? Tolto il linguaggio non può rispondere di niente e con niente, e allora c’è un problema. Il problema è che qualunque cosa si cerchi fuori dal linguaggio non la si trova, in nessun modo, mano a mano che si procede nella ricerca, come è accaduto, e per lo stesso motivo per cui è accaduto per la realtà, accade anche a quest’altra cosa e cioè si dissolve, non trova niente, trova rinvii, rinvii che a un certo punto scompaiono, rimandando a se stessi: mi chiedo che cos’è una certa cosa, certo è una formulazione ancora metafisica, però a questo punto dovrei chiedermi “che cos’è il che cos’è?” e così via all’infinito, sembra un procedimento inarrestabile, in caduta libera, senza possibilità di fermarsi, un regresso all’infinito che non si ferma mai. Tuttavia se, come dicevo prima, rimango orfano di qualunque realtà, di qualunque mondo in quanto semplice costruzione del linguaggio allora resto con il linguaggio, che non è poco, resto cioè con quell’unica cosa che è quella che mi consente di esistere, di vivere, mi consente anche di crearmi il mondo, di accogliere quello che altri hanno accolto prima di me, di poterlo considerare, valutare, accogliere, rifiutare, posso fare tutto quello che mi pare e se lo posso fare è perché ho il linguaggio, se no non lo potrei fare. Qual è la differenza fra gli umani che sono caratterizzati dall’esistenza del linguaggio e gli animali che sono caratterizzati dall’assenza di linguaggio. Un linguista francese, Benveniste, ha colta molto bene la questione, gli umani possono decidere se fare una certa cosa oppure no, gli animali no, non possono comportarsi in modo differente da quello per cui sono programmati per così dire. Faceva l’esempio delle api, un’ape non può andare dove non ci sono i fiori, tornare indietro e fare uno scherzo e trasmettere alle altre che invece ci sono, non lo fa, gli umani sì, continuamente. Questa sostanziale differenza mostra che c’è una possibilità che è tipica degli umani di riflettere su ciò che si sta facendo e trarne delle conclusioni, e delle implicazioni, delle connessioni, cosa che l’animale non può fare, è questa la differenza fondamentale che ha consentito agli umani di costruire cose meravigliose e anche orrende ovviamente, a seconda dei casi. Ecco dunque la realtà dissolta, non c’è più niente, affermare che esiste questo tavolo, che siamo qui in questa stanza questa sera è un gioco linguistico al pari di qualunque altro e può farsi, questo gioco linguistico, perché ciascuno dei presenti si suppone che accolga le stesse regole di questo gioco, è stato addestrato a accogliere le regole di questo gioco da sempre; ciò che nessuno ha mai spiegato loro è che si tratta di regole per giocare, regole di un gioco e non quella cosa assoluta, immutabile, eterna che comunemente si suppone essere la realtà, ma soltanto giochi, giochi linguistici, accoglieteli e allora vivrete all’interno di una società che usa gli stessi giochi linguistici, rifiutateli e sarete rifiutati anche voi di conseguenza, perché una persona che non accoglie il gioco che fanno tutti gli altri non viene accolta, e questo è un altro gioco linguistico naturalmente. Sequenze di giochi linguistici, sequenze naturalmente molto complesse, molto elaborate anche perché all’interno di un gioco linguistico possono intervenire moltissimi altri giochi linguistici, ma sono sempre giochi. Che cos’è un gioco? È un’attività definita da certe regole, alcune mosse sono consentite altre no, questo dice una regola, e il linguaggio funziona esattamente così: alcune regole sono consentite e altre no. Come dicevamo la volta scorsa non è consentito a una persona contraddirsi, questa è una delle regole del gioco, in questo caso del gioco del linguaggio, della sua struttura. Nessun film di fantascienza si è spinto così lontano da considerare che ciò che gli umani chiamano, immaginano, suppongono, sperano molto spesso essere la realtà, è un gioco linguistico e nient’altro che questo, definito da regole e reso possibile da quella struttura che si chiama linguaggio. Potremmo anche dire che in assenza di linguaggio non solo non esisterebbe il mondo ma non sarebbe mai esistito, semplicemente togliendo il linguaggio, e il motivo a questo punto dovrebbe essere abbastanza chiaro. Ho fatto un excursus rapido, se qualcuno ha qualche questione da porre, domande da fare, possiamo precisare o articolare meglio delle questioni …

 

Intervento: lei proprio adesso diceva “agli umani non è concesso contraddirsi” è una delle regole dei giochi oppure del linguaggio?

 

È una regola che consente il funzionamento del linguaggio senza questa regola …

 

Intervento: non è una regola di un gioco?

 

No …

 

Intervento: del metagioco?

 

Bravo, come dicono alcuni linguisti, un metagioco, cioè quel gioco che consente di giocare qualunque gioco. In effetti per stabilire un qualunque gioco occorre che una regola sia se stessa, se una mossa è vietata occorre che sia vietata e un’altra consentita, non può contraddirsi, cioè costruire un gioco dove una qualunque regola è se stessa ma anche il suo contrario, non può più giocare nessun gioco, nessuno. Così come stabilire che “se A allora B e se B allora C, allora se A allora C”, non è una cosa facoltativa che uno può anche non accogliere, se non l’accoglie smette di parlare, perché è così che funziona il pensiero, così che funziona il linguaggio ovviamente, non si può contraddire il linguaggio, per contraddirlo, se ci pensa bene, occorre compiere un’operazione che è straordinariamente complicata, per contraddirlo deve costruire una sequenza che dice che sta contraddicendo il linguaggio, lo afferma, e quindi per cercare di contraddirlo deve confermarlo, e questo è un problema irresolubile …

 

Intervento: quindi il linguaggio è un insieme di regole logiche?

 

Proprio così. Lo abbiamo definito come una sequenza di istruzioni, per usare un termine più ampio possibile. Istruzioni che consentono la costruzione di sequenze che chiamiamo proposizioni, in fondo sono molto poche queste istruzioni, basta che un elemento sia riconoscibile come identico a sé, ma questa è un istruzione non un’affermazione ontologica, è l’istruzione che stabilisce che è identico a sé. Poi un sistema inferenziale tale che da un elemento sia possibile inferirne un altro, e la possibilità, che è la conseguenza, di distinguere un elemento da un altro. Con questi tre mattoncini è possibile costruire tutto, così come da quattro aminoacidi è possibile costruire un dinosauro, una zanzara, Anna Maria …

 

Intervento: quali sono i tre mattoncini?

 

Tecnicamente potrebbe essere soltanto il principio di identità. Il principio di identità è un’istruzione e dice che una cosa è se stessa, è identica a sé, poi, dicendo che è identica a sé dice anche che è differente da qualunque altra e in questo stabilisce il terzo e cioè l’inferenza, se un elemento è identico a sé allora differisce da qualunque altro. Queste sono istruzioni, badate bene, questo è fondamentale, non sono affermazioni dimostrabili, non le posso dimostrare: se io stabilisco che tre assi battano due sette, non lo posso dimostrare, è una regola del gioco, è un’istruzione per giocare quel gioco, sono queste istruzioni che consentiranno, combinate in opportune sequenze, la costruzione di criteri di verifica. Se io costruisco un criterio di verifica, costruendolo devo potere utilizzare degli elementi che sono identici a sé, per esempio il segno uguale deve essere identico a sé, ma lo è perché lo ho stabilito. È un po’ così come funzionano le macchine, quando gli umani hanno costruito le prime macchine pensanti con Alan Turing si sono accorti che il modo in cui si addestra una macchina, cioè si forniscono le istruzioni, è lo stesso con il quale si istruiscono i bambini, sono istruzioni che vengono fornite e insieme con queste istruzioni il modo per poterle usare, così funzionano le macchine e così funzionano gli umani. In base a queste istruzioni è possibile costruire sequenze, poi queste sequenze diventano sempre più complesse ovviamente, il problema è che queste istruzioni, queste prime istruzioni che hanno costruito le prime sequenze non hanno né possono avere la possibilità di essere riconosciute come istruzioni, ma vengono chiamate erroneamente cose, sta qui il problema ma anche la chiave per risolvere tutto: se io le chiamo cose, queste cose mano a mano che il linguaggio si evolve e si articola diventano tutto ciò che cade sotto i miei sensi in base a un criterio che io mi trovo ad accogliere perché è accolto da tutti, e quindi non sono considerate quello che sono e cioè delle istruzioni, è come se uno pensasse che il fatto che quattro assi battono due sette sia una realtà dei fatti o un decreto divino, se è religioso, o qualcosa che ha a che fare con l’immutabilità della natura delle cose. Nulla a che fare con tutto ciò, è solo un’istruzione per giocare, nient’altro. Il concetto di realtà, e torniamo al punto di partenza, è una delle regole di un gioco, né più né meno: la realtà è un gioco, ed essendo un gioco ha a che fare con la fantasia e cioè come qualcosa che appare, che non può essere provato dicevamo, può essere provata l’esistenza della fantasia? Se sì, con quale criterio? E questo criterio come sapremo che è attendibile? Chi ce lo dice? Chi lo garantisce? Nessuno. A questo punto la realtà è una fantasia, detto questo non abbiamo detto niente naturalmente perché non è che significhi un granché, semplicemente abbiamo fatto un piccolo passo per ricondurlo a quello che è, e cioè uno dei giochi linguistici, se si accolgono certe regole allora ci si comporta di conseguenza, se la macchina è programmata per compiere certe operazioni farà quelle operazioni e tradurrà dei caratteri macchina in un film bellissimo per esempio, sequenze di caratteri diventano un film, naturalmente c’è un sistema di decodifica, però di fatto sono solo istruzioni che vengono lette in un certo modo e restituiscono ciò che il programma gli dice di restituire, tutto qui.

 

Intervento: l’ambiguità del linguaggio, è una costruzione a priori …

 

Qui però c’è già un’ambiguità …

 

Intervento: due personaggi del processo storico del cristianesimo il cardinal Bellarmino e Galileo Galilei, siamo di fronte al problema del sistema tolemaico copernicano, due cristianissimi … entrambi con sovrastrutture di pensiero cristiano, cattolico … il gioco linguistico è già predeterminato nel caso di un eccesso di fede che … qui il gioco linguistico come gioca?

 

C’è intanto una prima ambiguità, per usare il suo termine, perché il linguaggio di per sé non è ambiguo, non c’è nessuna ambiguità, è soltanto un sistema di istruzioni, è come una sequenza di comandi, come nelle macchine, uso questo termine perché forse è più semplice cioè se c’è uno 0 (zero) non si passa, se c’è un 1 (uno) si passa, non c’è un’ambiguità perché è un comando, un comando non è ambiguo, è un ordine, in informatica si chiamano input. Naturalmente ci deve essere una macchina tale che riconosce questo comando, ma non c’è nessuna ambiguità, il comando è quello che è anzi, viene “stabilito” essere quello che è, un comando non è l’effetto di una deduzione, è un ordine. Stabiliti questi comandi a quel punto è possibile incominciare a costruire proposizioni. Queste prime istruzioni sono quelle che consentono alla persona di potere affermare una qualunque cosa, per esempio io affermo che questo è un orologio, come faccio ad affermarlo? Cos’è che mi impedisce di affermare che sia il suo contrario, cioè un non orologio? È semplicemente un’istruzione, qualcosa che ho imparato. Un’istruzione di per sé non può essere ambigua, possono essere ambigui i giochi linguistici che sono possibili proprio perché esistono delle istruzioni che li costruiscono, allora lì possono sorgere delle ambiguità, per esempio il fatto di voler servire quella che si ritiene essere la volontà di dio e d’altra parte servire la verità che invece sembra andare in un’altra direzione. Se io stabilisco un gioco che ha come regola questa: che ciò che ha detto Aristotele è stato accolto dai Padri della chiesa, i Padri della chiesa erano ispirati da dio quindi quello che ha detto Aristotele è ispirato da dio, e questa è una regola di un gioco; poi stabilisco che ciò che io vedo cioè ciò che dio ha costruito è scritto con i caratteri matematici e quindi deve potere essere spiegato in termini matematici. Se io metto a confronto queste due cose mi trovo di fronte a un dilemma perché entrambe le cose sono opera di dio, ma nel primo caso il gioco che sto facendo mi dice che devo attenermi a quello che ha detto Aristotele perché i Padri della chiesa hanno detto che lui era ispirato da dio, dall’altra invece mi trovo a considerare che tutto ciò che dio ha creato è stato scritto in termini matematici e quindi deve potere essere spiegato in termini matematici, da qui il dramma di Galilei, cristianissimo certo, in fondo lui pensava che tutto il creato fosse stata opera di dio ma se è opera di dio, dio deve aver operato in termini matematici, ma questo contraddice ciò che dicono i Padri della chiesa, e allora che si fa? È ovvio che posta la questione in questi termini, come spesso accade non c’è soluzione, cioè se si danno per veri, per necessari, due giochi linguistici o più propriamente ciò su cui si fondano non c’è nessuna soluzione, c’è un arresto, un blocco, così come avviene spesso nei computer che si bloccano di fronte a un dilemma del genere, non c’è soluzione, c’è l’arresto in attesa di istruzioni, in quel caso le istruzioni sono arrivate dalla Santa Inquisizione che ha risolto il problema: “o dici quello che diciamo noi o finisci sul rogo!” e lui ha preferito naturalmente abiurare piuttosto che il rogo. Anche qui si tratta sempre di un altro gioco linguistico: “vuoi vivere?” sì/no. Ecco “per vivere occorre fare questo” sì/no, e ci si comporta di conseguenza. Giochi linguistici che seguono le regole di cui sono fatti. Prendete una persona una qualunque, “vuoi vivere?” sì/no. Sì, bene, allora se vuoi vivere, devi vivere bene o male? Bene. Allora devi fare questo. Un po’ come faceva Platone, è un sistema binario, un sistema binario che ogni volta scarta l’eventualità che viene rifiutata e accoglie l’altra che a sua volta ha due possibilità, e va avanti così appunto come i computer. Ma perché tutto questo sistema funzioni occorrono quelle istruzioni fondamentali che fanno funzionare il tutto e cioè che rendono possibili i giochi linguistici, senza le quali istruzioni non c’è nessun gioco linguistico, così come senza nessuna istruzione non c’è nessun computer che funzioni: se lei prende un computer e non gli mette dentro nessuna istruzione non succede niente, rimane tutto muto e silenzioso. È esattamente la stessa cosa. Queste istruzioni ovviamente possono essere, anzi devono essere connesse fra loro, si connettono, costruiscono altre sequenze, altre sequenze ancora, infinite, così come avviene per una persona, per un umano che è in condizioni di praticare quantità sterminate di giochi linguistici partendo da pochissime istruzioni, così come è possibile costruire della musica, inventare della musica utilizzando solo sette note, eppure quanta musica si è fatta da quando esistono gli umani? È un sistema questo che per un verso, e qui ci si potrebbe giocare in un film di fantascienza, rende particolarmente difficile l’accesso al suo funzionamento, è come se fosse protetto, in termini informatici da firewall che rendono impossibile l’accesso, lo sbarrano, in effetti chi mai ha pensato a cose del genere? Eppure sono sotto il naso di tutti, questo sbarramento è dato dal fatto che per funzionare questo sistema non ha nessuna necessità di riflettere su se stesso, funziona benissimo, si prende un certo elemento, questo elemento viene considerato vero in base a certi altri elementi, costituisce una premessa, passaggi, conclusione, questa conclusione serve come premessa per altre costruzioni e così via all’infinito, non ha nessun bisogno di considerare il suo funzionamento, né di riflettere intorno a se stesso, nessuno, per questo nessuno ci aveva mai pensato perché ben protetto dal sistema più efficace e cioè dal fatto che è inutile riflettere sul suo funzionamento, è inutile nel senso che non serve per farlo funzionare, funziona lo stesso benissimo, è come se la sua macchina funzionasse benissimo anche senza la benzina, ce la metterebbe? Ciò che possiamo dire è che funziona così, non possiamo che fare altro che tenere conto del suo funzionamento, ma è sicuramente un buon sistema di protezione rendere la ricerca del suo funzionamento inutile. Però ci siamo accorti che invece sapendo perfettamente come funziona ci sono degli effetti, certo non serve a farlo funzionare, funziona comunque abbiamo detto, va avanti da sé, appena si immettono le prime istruzioni queste istruzioni consentono al sistema di partire e di procedere, ma qual è la differenza sostanziale? Che cosa è che fa la differenza? Il sapere che cosa accade mentre si parla, di cosa è fatto ciò che mi circonda e quindi agire ciò che penso, ciò che dico, ciò che faccio, oppure subire tutto quanto travolto da qualunque cosa, assolutamente incapace e impotente di fronte a qualunque cosa perché qualunque cosa è scambiata per la realtà e la realtà per definizione è immutabile, è identica a sé anzi, è il vero di fronte al quale non posso fare niente, e se è così non mi resta che subire tutto quanto. La questione interessante è che essendo psicanalisti, questo ci ha costretti a modificare totalmente la dottrina psicanalitica, la cosiddetta dottrina psicanalitica, tenendo conto che tutto questo non poteva in nessun modo mantenersi tale e quale era prima, perché nessuna cosa più, sapendo questo, è più come prima, niente è più come prima anche se apparentemente tutto sembra identico, niente è più come prima, basta un dettaglio certe volte, sapere una certa cosa e tutto ciò che sembrava assolutamente familiare, domestico, tranquillo, confortante, si trasforma in una cosa straniante, inquietante. Se io vi dicessi, per esempio, che anziché essere uno psicanalista in realtà sono un agente del KGB, e sono qui per motivi ben precisi, cambierebbe il modo in cui mi voi mi vedete, non sarebbe più lo stesso, da quel momento non sarei più lo stesso così come quando una donna si accorge che il suo uomo la tradisce, da quel momento il suo uomo non è più lo stesso, è un altro. È un esempio molto banale ovviamente, ma qui la modificazione è ben più radicale, più definitiva, procedendo lungo questa via si raggiunge un punto che possiamo, attenendoci sempre ai film di fantascienza, chiamarlo un punto di non ritorno, ciò che si sa non consente più a un certo punto, non consente più di potere pensare come prima, non è più possibile, è come se si inserisse un virus in un sistema, modifica tutto e le cose non saranno mai più come prima ….

 

Intervento: il pensiero è fatto del nostro linguaggio, come abbiamo detto …

 

Come fa a pensare se no?

 

Intervento: e quindi la realtà o il pensiero sono la stessa cosa?

 

La realtà è costruita dal linguaggio e quindi dal pensiero, ciò che lei fa quando pensa è ciò che costituisce la struttura stessa del linguaggio: quando lei pensa cosa fa? Prende un elemento, automaticamente lo considera vero, perché il pensiero è più veloce della parola e questo certe volte è anche un guaio perché si sorvola, certe volte sembra di sapere certe cose e invece poi se le si deve descrivere non le si sa più, ma dicevo il pensiero agisce esattamente come il linguaggio e cioè da un elemento ritenuto vero costruisce delle sequenze fino ad arrivare alla conclusione che accoglie …

 

Intervento: sì, ma con il pensiero posso pensare di tutto …

 

Sì, anche con le parole può fare di tutto, chi glielo impedisce? Qual è la differenza? Che lei pensi fra sé e sé o pensi fra sé e me, per esempio? Certo, ci sono delle differenze ovviamente, ché se pensa fra sé e sé, per esempio io non posso farle domande, non posso interrogare i suoi pensieri, se invece pensa fra sé e me, io lo posso fare se no, no. È come diceva Agostino: “finché nessuno mi chiede che cos’è il tempo lo so, quando invece qualcuno me lo chiede non lo so più”, ma non è che sia avvenuto chissà quale miracolo nel frattempo, è che finché nessuno glielo chiede, suppone, crede di saperlo, perché molti passaggi li dà per scontati, li salta, li sorvola allegramente, se invece qualcuno gli chiede esattamente che cos’è, questi passaggi deve metterceli e allora lì si accorge di non saperlo, è questa la differenza fondamentale. Per questo è molto utile non soltanto riflettere e pensare ma anche dire, parlare e ancor più scrivere in molti casi, la scrittura è ancora un’altra cosa. Occorrerebbe arrivare alla perfezione e cioè pensare esattamente come si parla, con tutti i passaggi senza saltarne nessuno e allora sì, effettivamente diventa la stessa cosa, ci vuole un po’ di esercizio ma ci si arriva. Pensando accade di prendere degli abbagli, le cose sembra che siano così ma poi di fatto se ci si pensa meglio anzi, ci si trova a esporle e ci si accorge che magari non è proprio così, ci si accorge che si era stati troppo frettolosi nelle prime conclusioni …

 

Intervento: non si può non conoscere come funziona il linguaggio più lo sappiamo come funziona il linguaggio e più siamo in grado di agirlo. Mi è venuto in mente che non avevamo risposto alla domanda del signore, lei ha parlato del principio di identità ma del principio di non contraddizione?

 

Sì, aristotelicamente sì, Aristotele aveva inteso effettivamente il funzionamento e dopo di lui la logica l’ha ripreso quasi pari pari, perché qualcosa funzioni occorre che ci sia un’identità, solo che lui la pose come un principio e allora lì gli umani si sono persi per secoli, anzi per millenni a cercare la dimostrazione che provi una volte per tutte che un elemento è identico a sé, e chiaramente non si può trovare perché è un’istruzione, è come se uno cercasse di provare che due assi battono due sette a poker, come fa a provarlo? È una regola del gioco, è un’istruzione, non c’è una prova, non è possibile dimostrarlo e dicevo per duemila anni si sono persi, anche menti notevoli e robuste e raffinate a cercare di dimostrare l’identità di qualche cosa fino ad arrivare in questi ultimi secoli ad accorgersi che non è possibile dimostrare l’identità di qualcosa e allora la priorità è stata data alla differenza, fino ad arrivare alle ultime dottrine filosofiche, fino ad arrivare all’ermeneutica: ciascuna cosa differisce da sé e nulla è stabile, nulla è fermo e allora non si può che cercare di dirne qualcosa intorno ma, diceva già Kant, la cosa in sé non è coglibile, certo se io voglio cercare la dimostrazione, la prova ontologica della regola del poker non la troverò mai, è un’istruzione …

 

Intervento: la metafora?

 

La metafora è una figura retorica, una delle tante, delle tantissime figure retoriche, una cosa prende il posto di un’altra e la rafforza. Le figure retoriche non sono altro che dei modi in cui si dicono le cose, quando Barthes scrisse il suo famosissimo “Grado zero della letteratura” indicava una scrittura che a suo parere fosse quasi esente da figure retoriche, appunto il grado zero, l’assenza totale di figure, ma il problema è che in qualunque modo si dica qualche cosa comunque è riconducibile a una figura retorica se si vuole, non c’è problema, e la metafora è una delle infinite figure retoriche, così come la catacresi per esempio è quella figura che dice che si usa in modo improprio un termine per indicare la proprietà di un altro, per esempio le gambe del tavolo, il tavolo non ha gambe propriamente, ha dei pezzi di legno che non sono gambe però siccome non esiste un altro modo si usa quello, ma esiste un modo proprio? Se uno volesse potrebbe sbizzarrirsi all’infinito in disquisizioni che non è che lo portino molto lontano, qual è l’uso proprio? L’uso corretto? Quello stabilito dalla grammatica? E la grammatica perché è stata stabilita in questo modo? Non è sempre stato così, alcune forme grammaticali oggi corrette erano considerate scorrette in passato e così via, è tutto talmente aleatorio e sfuggente che ci si basa, è arrivato a dire Wittgenstein, sull’uso, il senso di una proposizione è l’uso che se ne fa, non si è riusciti fino a oggi ad andare molto aldilà di questo, e cioè il senso di qualche cosa è il modo in cui viene usato questo qualche cosa, tutto qui, senza tenere conto che anche questo procede da istruzioni, e che senza queste istruzioni nemmeno queste riflessioni di Wittgenstein sarebbero mai state possibili. Comandi, istruzioni, quelle che vengono impartite insieme con le prime cose che si dicono a un bambino, la mamma dice a Pierino: “questo è questo” e già gli fornisce delle istruzioni, in modo ostensivo certo, gli mostra qualche cosa rimarrà la vista il senso prioritario su tutti, ma questo può essere un caso e comunque è irrilevante il fatto che per gli umani la vista sia preferenziale e prioritaria, solo che quando la mamma dice che “questo è questo”, per Pierino non c’è nessuna possibilità di mettere in discussione o di verificare una cosa del genere, non lo può fare perché non ha letteralmente gli strumenti per farlo, e quindi per lui diventa una verità assoluta, o lo diventerà, così come sarà una verità assoluta tutta una serie di altre cose che mano a mano imparerà, verità assolute perché ancora non c’è nemmeno il criterio di verità e quindi sono l’esistenza stessa della cose, come se dicessi che al momento in cui affermo che questo è questo, in quell’istante io lo facessi esistere, da quel momento esiste. Per un comando, esattamente come nel computer, non aveva torto Turing, potete leggerlo questo libricino di poche pagine “Intelligenza meccanica” …

 

Intervento: secondo me fino a ieri ci si interrogava sul pensiero ci si poteva spingere oltre, oggi invece ci si interroga sul pensiero si va oltre però senza quel riferimento che è quello del linguaggio, la struttura stessa che ci permette di pensare …

 

Esatto, ciò che è stato compiuto è stato un atto di forza, è come se avessimo forzato il linguaggio a mostrare se stesso, cosa che non fa mai per nessun motivo perché semplicemente funziona, costruisce cose e tutte le sequenze che costruisce sono prese dagli umani come il mondo che le circonda. Questa forzatura non era mai stata fatta prima, è come avere aperto la chiave di volta e ha consentito di conoscere il funzionamento e ha dato anche l’accesso a ciò che ha costruito tutto, a ciò che sta costruendo tutto e  continua a costruire qualunque cosa e a mostrare anche perché gli umani non hanno accesso a questo sistema: ciò che consente di costruire tutto e senza il quale non esisterebbe niente, eppure non ne hanno nessun accesso, come nel film di Matrix, solo che siamo andati aldilà di Matrix, qualcosa che lui neanche immaginava …

 

Intervento: nella prima conferenza che ha fatto quella sulla masse, ha parlato in lungo e in largo dell’esercizio di potere, sui giochi di potere che sono costruiti dagli umani, e quindi costruiti da questa struttura, rimandando alla soluzione di questa storia che sembra atavica e non risolvibile, da sempre da quando gli umani esistono, da sempre hanno giocato questo gioco e cioè ad imporre all’altro il proprio potere, questa sera parliamo di giochi della fantasia o giochi della realtà e direi che anche questi giochi di potere di fantasia in qualche modo anche se dalle persone vengono immaginati essere la realtà delle cose: le guerre, le soprafazioni, tutti gli inganni, tutte le tragedie e lei aveva appunto rimandato la questione alla sua risoluzione e cioè al sapere, al prendere atto che gli umani parlano, che proprio perché parlano hanno la necessità di imporre la propria verità sull’altro. Questa è la soluzione …

 

Sì il funzionamento stesso dei giochi linguistici, quando ci si accorge che il vivere stesso è un gioco linguistico, a cascata qualunque altra cosa lo è, certo….

 

Intervento: quando Carlo Marx dice la filosofia ormai ci ha detto tutto, sospendiamo, si tratta di agire … ed è diventata filosofia della prassi, ciò vuol dire che il linguaggio ormai, il pensiero filosofico ha terminato il suo percorso, perché è inutile continuare, sono giochi continui giochi …

 

Dovremmo accogliere come vero quello che afferma Marx, e perché dovremmo farlo? Chi ci costringe a fare una cosa del genere, oppure, cosa ancora più interessante, occorrerebbe interrogare quello che dice Marx, chiedere a Marx, ai suoi testi, di rendere conto di quello che afferma, se è proprio così, che la filosofia abbia detto tutto, e quindi dobbiamo supporre che ci fosse un tutto da dire e che lui, Marx, lo conoscesse molto bene, tant’è che l’ha saputo riconoscere immediatamente. Cosa molto complicata da stabilire o da accogliere con leggerezza, un’affermazione come questa è impegnativa, va presa sul serio e quindi interrogata, Marx afferma così, ma è così? Oppure no. È per questo che è interessante un gioco del genere, perché consente di potere interrogare qualunque cosa, senza paura. Grazie a tutti e buona serata.