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Dalla verità alla post-verità

 

Conferenza alla libreria Belgravia di Torino

 

11 novembre 2017

 

Presentazione di Gabriele Lodari.

Non ho bisogno di presentarvi Luciano Faioni, però, volevo dire una cosa. Io sto leggendo con molta attenzione le ultime conferenze che pubblica sul sito della sua associazione, Scienza della Parola, e le trovo sovversive, interessanti. Possiamo dire che il taglio che lui dà alla psicoanalisi e, quindi, alla riflessione sul linguaggio, è a mio parere di assoluto interesse. Bisognerebbe che lo leggessimo tutti, che ci riflettessimo tutti. Intanto, sono anni che si occupa di questioni di logica, di linguistica, soprattutto con una solida cultura filosofica che gli consente di criticare anche i maggiori autori, come Heidegger, con critiche talvolta abbastanza ironiche. Tenete presente che Heidegger è stato recentemente molto criticato, soprattutto in Francia, però, viene criticato per le sue posizioni politiche. È ancora irrisolta la domanda se la sua posizione politica sia stata diretta conseguenza dell’influenza del nazismo. Qualcuno, come Faye in Francia, dice che il suo pensiero è ciò che ha ispirato anche il nazismo. In effetti, ci sono alcuni passi di Heidegger che sono problematici, però, quasi nessuno osa dire che rimane da leggere. A me pare che Faioni sia oltre, nel senso che lui va a cogliere questioni che sono al cuore della questione filosofica di Heidegger ma non solo. È chiaro che Faioni ha come strumento di fondo la questione del linguaggio e questo lo aiuta molto ad essere incisivo. Non voglio sovrappormi a lui, ci sono alcune questioni che poi vorrei porgli intorno alla verità. Il sottotitolo dell’incontro di stasera è “Chi dice la verità?” e anche lì mi pare che approdi a posizioni di assoluto interesse nel momento in cui rinvia alla retorica la questione della verità. Ci dirà lui come intendere meglio questo passaggio. Non si tratta della verità logica, non si tratta della verità così come intesa etimologicamente, il termine greco di verità era alétheia, colei che appare dal nascondimento. Già qui c’è qualcosa di estremo interesse, qualcosa si evidenzia a partire però dal nascondimento. Forse, per noi psicoanalisti è più importante il nascondimento come scaturigine della questione della verità. Mi fermo qui e do la parola a Luciano Faioni.

 

Luciano Faioni.

 

Il titolo che avevo proposto per questo incontro era Dalla verità alla post-verità, poi, ho aggiunto anche Chi dice la verità? La post-verità è un concetto abbastanza risibile, è stato proposto un paio di anni fa ed è un modo assolutamente povero e insignificante di affrontare una questione, quella della verità retorica, che invece ha una sua dignità e anche una sua forza. Spesso si distingue tra verità logica e verità retorica. La verità logica è quella che procede dal ragionamento, dal calcolo; la verità retorica, invece, muove in tutt’altro modo. Anche la verità retorica poggia sui cosiddetti fatti ma agisce inserendo questi fatti in contesti differenti, dando la priorità a uno e mettendo in ombra un altro e, soprattutto, fa leva sulle emozioni, sui sentimenti. È per questo che è più potente della verità logica, perché quando qualcuno sente qualche cosa, un sentimento, un’emozione, ecc., per lui che lo sente questa cosa è assolutamente vera, non c’è alcun dubbio. Dunque, se è assolutamente vera allora per lui è vera anche quella cosa che l’ha provocata, le ragioni che l’hanno prodotta, per questo è così potente la verità retorica. Sia la verità, intesa nell’accezione filosofica, sia la verità intesa nell’accezione retorica, nasce grosso modo nello stesso momento. La verità logica, filosofica, nasce con Parmenide, la verità retorica con Gorgia. Entrambi sono vissuti verso la fine del V secolo a.C., anno più, anno meno. Gorgia, scrivendo il suo Encomio a Elena, compone il primo scritto “ufficiale” di retorica. Sapete che Elena era stata accusata di un’accusa terribile, di essere stata la causa della guerra di Troia, e lui, Gorgia, la discolpa usando la retorica. Dunque, due modi di pensare la verità, intanto. C’è, però, una questione. La verità, almeno da Parmenide, non che l’abbia inventata lui, ovviamente, lui l’ha pensata per primo, l’ha posta come un problema. La verità è stata posta sin dall’inizio come un problema: per affermare la verità occorre che questa affermazione, questa proposizione che l’afferma, sia vera, ma come faccio a sapere se questa proposizione è vera se ancora non so cosa sia la verità? E qui c’è già il primo blocco, che potrebbe essere definitivo, però, non lo è stato perché comunque si è continuato a parlarne. Non è stato casuale che sia stato uno dei problemi più grossi affrontati dal pensiero, forse il principale, anche perché si può considerare che tutte le altre questioni procedono da questa, qualunque questione deve a questa la sua validità, la sua affermabilità. Da qui l’importanza che ha avuto, da Parmenide fino a oggi, e aggiungerei anche questo, che da Parmenide a oggi non è che si sia andati molto avanti rispetto alla questione della verità. Sono state date molte definizioni di verità, ma c’è una cosa che occorre rilevare, e cioè che tutte queste definizioni, adesso ne elencheremo alcune, presuppongono già all’opera una verità. Una verità che possiamo configurare così, come la descrizione di uno stato di cose. Badate bene, ho detto di uno stato di cose, non dello stato di cose, ma di uno, in quanto lascia assolutamente indeterminato quale sia lo stato di cose. La descrizione di uno stato di cose è ciò che immancabilmente compare in qualunque definizione di verità. Vi faccio un esempio. Prendete la definizione di verità che fornisce Frege, che è stato il fondatore della filosofia analitica, anche se poi ha avuto un lungo corso nel mondo anglosassone. Per Frege la verità non è definibile perché, qualunque affermazione io faccia per definirla, questa affermazione dovrà essere verificata da un’altra proposizione e questa da un’altra ancora. Quindi, la verità non è definibile e, infatti, la pone come un’idea primitiva, qualcosa che non è ulteriormente scomponibile ma che, soprattutto, non è derivabile da altro. Un’idea primitiva, un po' come quelle di Peano. Tarski, qualche anno successivo, parliamo degli anni fine ‘800 e inizio ‘900, considera che la verità non può essere definita all’interno del sistema in cui opera, perché così facendo si incappa in paradossi irresolubili e, quindi, occorre che la verità sia posta fuori del sistema. Ponendola fuori fa sistema, però, si sollevano altri problemi, e cioè il problema della verificabilità, del rapporto tra queste verità, quella portata fuori dal sistema e quella dentro al sistema: come facciamo a sapere, per esempio, che sono la stessa cosa? Per quanto riguarda la filosofia continentale potete pensare a Heidegger, a Derrida, a Merleau Ponty. Heidegger, per esempio, definisce la verità in modo completamente differente dalla filosofia analitica. Per Heidegger la verità è il disvelarsi di ciò che appare nel modo in cui appare. Vi cito anche Severino, che è un filosofo contemporaneo, ancora vivente, vecchietto. Per Severino la verità è l’eterno apparire dell’esser sé degli essenti. Che è quasi la stessa cosa, se ci pensate bene. Quindi, mentre per la filosofia analitica la verità si pone come qualche cosa che è derivabile, deducibile da un calcolo, per la filosofia continentale, invece, è ciò con cui gli umani hanno a che fare continuamente, nel senso che la incontrano in ciò che appare nel modo in cui appare in questo momento. Per esempio, Stefania in questo momento mi appare così come mi appare e non in un altro modo. Tra dieci minuti mi apparirà magari in un altro modo, ma anche in quel caso mi apparirà così come mi apparirà e non in un altro modo. Però, se ci si pensa bene, tutte queste definizioni sono descrizioni di uno stato di cose. Se io dico che la verità è indefinibile, perché ciascuna proposizione che l’afferma deve essere verificata, ecc., ecc., sto descrivendo uno stato di cose, per cui le cose stanno così e non in un altro modo. Questo per Frege ma è la stessa cosa per Tarski: la verità non può essere definita all’interno dello stesso sistema in cui opera, quindi, le cose stanno così e non in un altro modo. La stessa cosa vale per Heidegger, Severino e anche per Lacan, quando dice che la verità non può dirsi tutta ma solo a metà, ci sta dicendo che le cose stanno così e non in un altro modo. Come dire che questa posizione, che vede nella verità la descrizione di uno stato di cose, appare qualcosa che è soggiacente a qualunque possibile definizione di verità, ma è quella verità che è necessaria per potere definire, proporre, descrivere, immaginare qualunque definizione di verità. Dunque, la verità come una descrizione di uno stato di cose. Questa formulazione ha, a suo favore, il fatto che non comporta nessun regresso all’infinito, come capitava a Frege, perché qualunque regresso io faccia mi ritroverò sempre in una descrizione di uno stato di cose, non comporta nessun paradosso. Però, porre la cosa in questi termini ci dice che dobbiamo riflettere meglio su un’altra cosa, perché il dire che è la descrizione di uno stato di cose prevede che ci siano delle cose che stanno in un certo modo. Quindi, la domanda, a questo punto, è: come stanno le cose? E, soprattutto, c’è la possibilità di sapere come stanno le cose? È una questione importante perché, o le cose stanno in un certo modo, e allora descrivere le cose come stanno è effettivamente quella verità, così come è pensata anche dalla metafisica, dalla teoria corrispondentista, cioè fa corrispondere la proposizione alle cose così come sono. Se, invece, questo non è possibile, allora cambia tutto, perché, dicendo che la verità descrive uno stato di cose, descrive che cosa, esattamente? Dunque, come stanno le cose? Qui ci avvarremmo di due pensatori: uno è Husserl e l’altro è Freud. Husserl aveva l’idea inizialmente di approcciare le cose direttamente e, infatti, il suo motto era “alle cose stesse”. Però, ha incontrato un problema: come approcciarsi alle cose stesse, direttamente, in modo puro, senza nessuna mediazione, cioè, in modo immediato? Devo togliere il linguaggio, innanzitutto. Togliendo il linguaggio, tolgo tutto ciò che io penso, ciò che so, ciò che sono, ciò che ho vissuto, i miei desideri, le mie fantasie, le cose che ho apprese, devo togliere tutto quanto. Questo è l’unico modo per avere accesso diretto alle cose stesse. Il problema è che, se tolgo tutte queste cose, tolgo me, quindi, chi a questo punto ha accesso alle cose stesse? Nessuno e il problema scompare da sé. Non c’è nessun accesso alle cose stesse se non attraverso tutte queste cose che vi dicevo, cioè, me, quindi, le cose che so, che ho apprese, la mia storia, la mia vita, tutto ciò di cui sono fatto, tutto ciò che, e qui interviene Freud, costituisce la mia realtà psichica, che raffigura questo scenario in cui esisto e di cui sono fatto, che è quello che mi consente l’approccio alle cose, attraverso tutto ciò che io sono, che penso, che ho vissuto, che desidero, che immagino, ecc. Questo scenario non può togliersi. Freud accennava all’idea che si potesse avere accesso alla realtà materiale attraverso la realtà psichica ma si potrebbe spingere oltre la questione dicendo che la realtà psichica è ciò che impedisce l’accesso alla realtà materiale. È una questione che già Kant per primo aveva posta ma per il momento Kant non ci interessa. Quindi, in assenza della possibilità di stabilire come stanno le cose… perché posso pensare come stanno le cose sempre e soltanto “all’interno” di questa scena che io sono. Dunque, dicevo prima della verità come una descrizione di uno stato cose, ma queste cose questo punto, non potendo sapere che cosa sono perché non ho accesso a queste cose se non attraverso ciò che io sono, ma a questo punto cosa mi garantisce che il mio accesso sia quello corretto? Niente, indubbiamente. Quindi, l’esistenza stessa dello stato di cose, delle cose stesse, come diceva Husserl, è un’ipotesi: io faccio questa ipotesi che esistano le cose stesse. Però, è un’ipotesi che non può né ha modo di essere verificata. E che cos’è un’ipotesi che non può essere verificata in nessun modo? Niente, una fantasia nei migliori dei casi, una superstizione nella peggiore. Quindi, cosa accade a questo punto? Beh, accade una cosa interessante. Qui la verità appare, in quanto l’ho definita prima, come la descrizione di uno stato di cose, come un qualche cosa che fa funzionare il linguaggio, cioè, non sarebbe possibile parlare in assenza di questa cosa che chiamiamo verità. Questo indipendentemente da come mi piaccia definirla, ma in ogni caso dovrò comunque, affermando qualcosa, descrivere uno stato di cose. Se non faccio questo allora non faccio niente. Descrivere uno stato di cose significa dire “è così”. Come dicevo prima, per Frege, per Tarski, anche per Heidegger il dire che la verità è il disvelarsi di ciò che appare così come appare, anche questa è una descrizione di uno stato di cose, e non c’è verso che non lo sia, perché è così che funziona il linguaggio. In questo senso potremmo intendere l’idea di Tarski e anche di altri della non derivabilità della nozione di verità, nel senso che tutto ciò che fa funzionare il linguaggio non è derivabile da qualche cosa che è fuori dal linguaggio ma può essere inteso solo all’interno del linguaggio, del suo funzionamento. Non posso uscire dal linguaggio e da lì osservare le cose come stanno. Con che cosa le osservo? Questo è un problema che moltissimi si sono posti, tuttavia… Vedete, ponendo la verità in questo modo, appare questa verità come qualche cosa che non può non essere, e cioè come qualche cosa che è necessario per potere parlare. Sto dicendo che la verità, posta in questi termini, è ciò che è necessario per potere parlare, senza questa verità non posso parlare perché non posso più dire nulla di un qualunque stato di cose, cioè, non posso affermare niente, perché ogni volta che affermo qualcosa, qualunque cosa sia, sto dicendo come stanno le cose. Anche in questo momento sto dicendo come stanno le cose, magari fra dieci minuti cambio idea ma fra dieci minuti le cose staranno così come io le descriverò. Ecco perché la questione della verità non è deducibile, ovviamente. Certo, la logica lo fa, pone la verità come il risultato di un calcolo, nel caso della logica proposizionale di un calcolo appunto proposizionale. Ma la logica, per fare un po' il verso a Heidegger, come la scienza non pensa, cioè, non pensa le cose con cui ha a che fare, non le pensa, le usa, usa continuamente la verità come fa ciascuno di noi ma non la pensa, non pensa cosa sta facendo mentre pone la verità, cosa che, invece, è preferibile fare. Certo, nel luogo comune, nella superstizione, nella chiacchiera, tutto questo non ha nessun interesse, tutti quanti sano benissimo come stano le cose e non c’è nessun problema. Ma nel momento in cui la questione comincia a essere pensata, ecco che si pongono altre cose, altre strade si aprono per la riflessione e per considerare che qualunque verità io affermi sarà una verità retorica. Certo, è necessario che la verità sia una descrizione di uno stato di cose ma queste cose che descrive non sono affatto necessarie, sono arbitrarie, cioè, sono quelle che sono perché io sono quello che sono, la scena di cui sono fatto me le fa apparire nel modo in cui appaiono. A questo punto potremmo porci anche un’altra domanda: a che cosa serve la verità, ammesso che serva a qualcosa? Posta nei termini in cui l’ho posta, serve a parlare. Ma c’è qualcosa in più. Veniva posto prima l’etimo di verità, i greci usavano la parola alétheia, che è un termine negativo, indica qualcosa che esce dal nascondimento, dall’oscurità e viene alla luce. Però, la nozione di verità che noi utilizziamo non ha questa provenienza, dall’alétheia greca, viene dalla nozione latina di veritas, che è tutt’altra cosa. La veritas non viene dall’alétheia, ha un altro etimo. La verità, posta nell’accezione latina del termine, cioè come veritas, è la verità imperiale, è la verità che serviva all’impero romano per controllare, mantenere e dominare. Questo è l’uso della verità, intesa come veritas, che è poi l’uso che ciascuno fa comunemente, la verità che domina dall’alto. L’etimo pare che sia un albero che sta dritto, ben piantato e che dall’alto domina ogni cosa. Parlando di veritas il richiamo a Nietzsche è inevitabile: veritas come volontà di potenza, come la necessità da parte del parlante di imporre, che cosa? Lo stato di cose che ha descritte. La verità è una descrizione di uno stato di cose. Una volta che ho descritto questo stato di cose sto dicendo che le cose stanno in quel modo e non in un altro. Certamente, l’idea metafisica occidentale immagina che la descrizione corrisponda a una realtà, che è fuori del linguaggio e come tale inamovibile, che in nessun modo io posso modificare. Sì, non la posso modificare se posta in questi termini ma non la posso nemmeno conoscere, non posso nemmeno dire che cosa sia. Quindi, di che cosa sto parlando esattamente quando parlo della realtà o di come stanno veramente le cose? Le cose stanno così come mi si configurano, come appaiono all’interno della scena che io sono. Freud non era lontanissimo da questo, nonostante tutto il fardello naturalista e positivista che si portava appresso, fardello pesantissimo. Per alleggerire un po', mi rendo conto che le cose sono complesse, una delle fantasia che mi è capitata riguarda una domanda. Sappiamo che Freud non ha letto Nietzsche, ce lo dice lui per cui non abbiamo motivo di pensare diversamente. Ora, la mia domanda è questa: cosa sarebbe accaduto se il genio di Freud avesse letto gli scritti di Nietzsche? Cosa sarebbe accaduto? Mi piace congetturare questa cosa, fare delle ipotesi, delle fantasie, ovviamente. Magari si sarebbe accorto di ciò che accade alle persone, e cioè che stanno malissimo quando perdono il controllo, quando perdono il potere su qualche cosa, e quando lo recuperano stanno benissimo. Si sarebbe sicuramente alleggerito tutto ciò che dice riguardo all’inconscio, lo avrebbe alleggerito da una serie di fardelli positivistici e naturalistici, magari ponendo l’accento sul fatto che ogni discorso, ogni parola, è una costellazione infinita di altri discorsi, di altre parole, che intervengono lì mentre sto parlando, e che tutti questi discorsi, queste parole, costituiscono quella scena che io sono mentre parlo. E che questa parola che io dico in quel momento non esisterebbe senza tutte le altre, che sono lì presenti mentre parlo. Questa è anche la lezione di De Saussure, tra l’altro. Magari anche la teoria della rimozione avrebbe subìto qualche modificazione. Ma è una fantasia, non lo sapremo mai. Nietzsche ha puntato il dito su questo aspetto. Addirittura, pone la volontà di potenza come l’essere, le cose sono in quanto prese in questa volontà di potenza. Questa volontà di potenza ha molto a che fare con la questione della verità, in particolare con la verità latina ma non soltanto, anche con l’alètheia, dopotutto: dicendo che qualcosa esce e appare dall’oscurità, viene alla luce, comunque descrive uno stato di cose, cioè, dice che le cose stanno così e non in un altro modo, non il contrario, per esempio. Ecco che, allora, la volontà di potenza potrebbe essere di straordinario interesse da riprendere, proprio per la questione psicoanalitica. Come dicevo, Freud forse avrebbe modificato alcune cose, però, non l’ha letto. Non so se avrebbe modificata la sua teoria, perché quando uno costruisce una teoria poi ha poca voglia di cambiarla. Però, il genio di Freud ha posto delle condizioni di straordinario interesse per la lettura di testi, di scritti, di discorsi. Leggere un testo, come per esempio quello di Heidegger, ascoltandolo, cioè cogliendo quali sono le cose che questionano in ciò che sta dicendo, quali sono le aperture che il suo discorso mostra, magari senza lui se ne accorgesse, non necessariamente, delle volte sì ma altre volte no, mostrare quali infinite altre cose ci possono essere in un discorso, che può essere il discorso di qualcuno che racconta le sue storie, e può essere un testo, non fa una grossissima differenza. Non sono esattamente la stessa cosa ma può essere letto anche in questo modo: trovare nuove aperture, nuove direzioni da seguire. E questo soltanto una formazione psicoanalitica può farlo, nessun’altra formazione, né filosofica, né linguistica, né semiotica, ecc., può farlo. Certo, ciascuna dice delle cose straordinarie ma non basta, occorre saperle leggere ascoltandole, cioè, come dicevo prima, coglierne le questioni essenziali, ciò che fa nodo in una teoria, per esempio, linguistica o semiotica, e cogliere quante altre aperture ci sono mentre sto leggendo quel testo, cosa che un semiotico, un linguista o un filosofo non possono fare perché non sono stati addestrato a fare una cosa del genere. Non si ascolta, si cerca una verità ma una verità nell’accezione metafisica del termine: che cosa ha veramente voluto dire. Che, peraltro, non lo saprà mai. No, lasciare invece che il testo continui a parlare, che non è certo una novità, però, sicuramente, il modo in cui può farlo qualcuno, che ha ricevuto una formazione psicoanalitica, è certamente differente da chi non l‘ha avuta. Quindi, a questo punto ci troviamo in una condizione particolare. Questa la dico per fare arrabbiare Stefania. Abbiamo stabilito che cosa necessariamente è la verità. Dopo duemilacinquecento anni di attesa finalmente puoi smettere di aspettare. Abbiamo detto che cosa necessariamente è la verità perché, se così non fosse, noi non potremmo parlare. E sappiamo anche che le cose, cui si riferisce questa verità nella sua descrizione, sono quelle che sono così come ci appaiono perché appaiono in questa scena che io sono. Quella cosa che Freud chiamava “altra scena”, eine anderer Schauplatz. Questa scena è in continua modificazione, ogni parola che dico va a modificare quelle che ho dette e quelle che dirò, in un incessante rincorrersi delle parole. Di questo non c’è ovviamente il controllo, il controllo potrebbe avvenire se io potessi uscirne fuori, fuori dal linguaggio, ma io, e quando dico io intendo il linguaggio, il discorso, la scena che io sono, mi trovo costituito da tutte queste cose, che lavorano incessantemente, che mutano, si trasformano, variano senza fine. Ecco perché la verità è necessaria per il funzionamento stesso del linguaggio, per parlare, altrimenti non potremmo dire niente. Tutto ciò che sto dicendo non è altro che un’infinita descrizione di stati di cose, e non posso fare in un altro modo, perché non c’è. Ma al tempo stesso tutte queste cose che sto descrivendo sono quelle che sono all’interno di questa scena di cui io sono fatto, fuori da questa scena, purtroppo, non c’è granché. Potremmo dire anche che non c’è nulla dal momento che fuori da questa scena non c’è niente, perché la scena che mi fa dire che sono quello che dico che sono, sennò non potrei nemmeno dire che sono qualche cosa. Dunque, la verità. Adesso Stefania sa che cos’è la verità, in modo definitivo, sa anche che le cose cui si riferisce sono delle cose che stanno nella scena, non potrebbero stare da nessun’altra parte. Certo, è ovvio, il luogo comune, la superstizione, la chiacchiera, dicono continuamente che le cose stanno così, ecc., ecc., però, se si muove dal pensiero, anziché dal luogo comune e dalla chiacchiera, allora si incontrano questi problemi, quegli stessi che si incontrano da duemilacinquecento anni. C’è un punto in cui non basta più il luogo comune, la chiacchiera, non basta più usare la parola “verità”. Anche Freud la usa, della verità parla poco ma della realtà ne parla, la usa come la usano tutti ma, di fatto, non la pensa, non si pone di fronte alla questione ponendola come un problema, problema che interroga. Qualcun altro lo ha fatto, quanto meno è andato in questa direzione, che non è certo una direzione semplice, perché man a mano che si procede le cose appaiono dissolversi, disgregarsi, ricostituendosi continuamente in altre cose, come in una sorta di caleidoscopio. La logica stessa, quella della filosofia analitica, Frege, Tarski, Russell, Wittgenstein, Neurath, tutti quanti, ce n’è uno sterminio, anche per questi la nozione di verità, anche se la definiscono, presuppongono una nozione di verità che è scontata, che di fatto non è pensata, se ne servono, la usano, senza pensarla. Questo, ovviamente, li mette in una condizione per cui, talvolta accade, come è accaduto, che si giri in tondo. Se non si intende, come ha fatto Freud, che le cose sono quelle che sono nella scena che io sono e vado a cercarle fuori, non le troverò mai, non solo ma continuerò a girare in tondo all’infinito, in un rinvio senza fine che non mi porterà da nessuna parte. E, invece, devo cercarle lì, nella scena che io sono, lì le cose mi appaiono così come mi appaiono. Qui torniamo a Parmenide, alla definizione anche di alètheia, tutto ciò attorno a cui ha girato il pensiero da duemilacinquecento anni. Prima ponevo la questione della verità retorica e, quindi, perché la verità retorica fa leva sulle emozioni, sulle sensazioni, ecc.? Fa leva su tutte quelle cose di cui è fatta anche questa scena di cui vi dicevo, la scena che io sono. “Dentro” questa scena c’è tutto ciò che io sono: i miei affetti, i miei sentimenti, le mie emozioni, il mio sapere, le mie conoscenze, tutto quanto. Questo non è naturalmente fotografabile, ovviamente, non posso farlo, perché in continua evoluzione, modificazione: ogni parola che dico, dicevo prima, andrà a modificare quelle che dirò, non solo ma modificherà anche quelle che ho dette, perché le penserò in un altro modo. Ecco, noi siamo tutte queste cose, ed è la nostra fortuna, naturalmente. Non è possibile modificare questo modo di pensare la verità, cioè, non posso non descrivere stati di cose mentre parlo o penso. Posso, però, saperlo, posso sapere ciò che sto facendo. Posso non saperlo, ovviamente, e se non lo so ne sono travolto senza accorgermi di nulla. Se invece lo so, posso tenerne conto, cioè, incominciare a pormi in modo differente rispetto alle cose che mi appaiono, che vedo in un certo modo. Le cose non sono così come sono, sono così come mi appaiono in questo momento. Poi, per comodità, si immagina che restino quelle che sono fino alla fine dei tempi, ma è un’illusione, una sciocchezza, che ha la sua funzione, peraltro, perché ci consente di muoverci all’interno del mondo in cui viviamo in un certo modo e grosso modo orientandoci. Però, se la cosa incomincia a essere pensata si mostra in tutt’altra maniera. Anche per un bambino il mondo è una certa cosa, poi, crescendo, cambia, diventa un’altra cosa, e diventa un’altra cosa, potremmo dire, ogni volta che parla.

Stefania Guido: Le cose che hai detto colgono il mio ascolto e le collocano in una prospettiva dove, secondo me, spesso l’infelicità umana nasce dal prendere la verità per vera, dove per vera intendo assolutizzarla, fermarla. Spesso, l’infelicità viene dal non permettersi di cambiare scena. Qual è, poi, il senso di un’esperienza analitica? È il fatto di potersi permettere di non chiudere mai questo libro, di non mettere mai la parola “fine” a questo libro, ma fare l’esperienza di una continua riscrittura di questa verità. Mano a mano che si fa questa riscrittura si riesce a renderla più fluida, meno ossificata. Ecco, io tendo a pensare questo. C’è chi da un lato ossifica la verità e, quindi, ossifica se stesso, e chi fa quel lavoro per cui non riesce a fermarsi mai. Ecco, allora, io penso che l’esperienza di un’analisi è ciò che permette di collocarti e di conoscere questi due estremi, quello di irrigidirsi in una supposizione verità e quella di avere un rincorrere continuo che, però, non permette di avere una soddisfazione.

Gabriele Lodari: Lei ha evocato Nietzsche, la volontà di potenza, e ha distinto la veritas dei romani dall’alètheia greca. Pensavo sarebbe interessante proporre questa proporzione, e cioè che Freud sta all’alètheia come Nietzsche sta alla veritas romana. Io attenuerei un po' l’importanza della volontà di potenza, nel senso che Freud si è accorto che nessuno ha ragione, perché la ragione è dell’altro, è sempre altra. Credo che Freud non si sia posto il problema della verità non tanto per limiti, che comunque c’erano, positivistici, ecc., ma credo che non l’abbia fatto perché era troppo dentro la questione dell’inconscio, quindi, per lui la verità era qualcosa di dinamico, non era qualcosa che era già istituito, deciso, evidente. Lei ha fatto questo movimento, dalla verità dei fatti, dello stato delle cose, alla scena come discorso. Questo sarebbe un punto interessante che coinvolgerebbe la questione del linguaggio. La scena freudiana è l’Altro per Lacan. Quindi, non si può evitare la questione del linguaggio, altrimenti avremmo il blocco della cosa. Sulla cosa tutti i filosofi hanno discusso, Heidegger in modo particolare che ha dedicato un testo alla cosa. Sarebbe interessante approfondire la questione in relazione al linguaggio. La cosa per noi è il linguaggio, è la parola. Quindi, potremmo tentare di dire così: siamo inevitabilmente attratti dalla cosa in quanto altra. Come diceva giustamente Stefania, nel momento in cui siamo ancorati alla stessa cosa, alla stessa scena, allora c’è la sofferenza: stessa cosa, stessa vita, ecc. Però, siccome le cose non esistono di per sé, già date, ha detto bene quando diceva che non c’è accesso diretto alla cosa, la scoperta freudiana è questo: non c’è accesso diretto alle cose. Lacan ha ribadito questo scrivendo La cosa freudiana e ha insistito molto su questa questione dell’oggetto come oggetto perduto, che si sottrae, ecc. La cosa nella parola ci aiuta a impostare la questione della verità nei termini di qualcosa che fugge. Forse, la questione della verità non è stata affrontata da Freud semplicemente perché lui si è accorto che questo oggetto è imprendibile, inafferrabile. Noi abbiamo questo compito, anche etico, di inseguire questo oggetto, quindi, di inseguire la verità, però, la verità come concetto… l’esperienza analitica insegna a porre attenzione non tanto alla verità quanto a ciò che sto dicendo, quindi, a quello che segue ciò che sto dicendo, quindi, proseguendo, inseguendo questo oggetto.

Dove si situa a volontà di potenza? Nel momento in cui io descrivo uno stato di cose impongo alle cose di essere così come sono. È un’imposizione che è necessaria, altrimenti non posso parlare. Dico come stanno le cose non perché so come realmente stano le cose ma per poterle descrivere, per potere affermare una qualunque cosa. Per esempio, dire che non c’è la verità, che la verità si conosce solo in parte, che la verità è irraggiungibile, tutte queste cose sono sempre descrizioni di uno stato di cose, perché ciascuno afferma che le cose stanno così e non in un altro modo. Quando Lacan dice che la verità non può dirsi tutta ma solo a metà, sta dicendo quello e non il contrario, per esempio, cioè sta dicendo come stanno le cose. La questione che sto ponendo da tempo è se ciò che Nietzsche intende con volontà di potenza abbia qualcosa di molto simile a ciò che ho indicato con la verità, cioè qualcosa che appartiene al funzionamento stesso del linguaggio, e cioè, nel momento in cui io descrivo le cose, e non posso non farlo, sto mettendo in atto una volontà di potenza: dico che le cose stanno così. Poi, che io abbia ragione, che mi sbagli, che cambi idea dopo cinque minuti, questo è assolutamente irrilevante, importa quello che sto facendo in quell’atto di parola. Anche lo stare male fa parte della scena che io sono. Occorre pensare anche questa cosa. Quali sono le condizioni perché io possa dire di stare male. Ci saranno pure delle condizioni, non è che accada così, ex nihilo. Ci vogliono delle condizioni e queste condizioni sono reperibili in questa scena, che è ciò di cui io sono fatto, perché se fossi fatto in un’altra maniera quelle cose non mi farebbero stare male.

Stefania Guido: C’è ancora un’altra cosa, secondo me. Come potremmo descrivere lo stare male? Stai male quando sei così dentro a quel quadro di riferimento che ti sei illustrato e che tu, tra l’altro, consideri verità. Ma cosa ti viene a mancare? Il fatto di sapere che quello che tu ti illustri in quel momento ha dentro la possibilità di modificarsi ma è come se il tuo stare male è determinato dal fatto che è come se funzionasse un ferma immagine e, quindi, tu sei tutto dentro a quel quadro.

Franco Quesito: Quello che ho ascoltato fino ad adesso è stato interessante ed efficace. Mi manca, però l’aspetto più complessivo. Ho quasi la percezione di un lavoro estremamente ricco ma che ha qualcosa di solipsistico. Qualunque concetto di giusto e di sbagliato, e quindi di verità, si aggancia, a parer mio, a qualcosa che lo stabilisce questo concetto di verità. C’è da qualche parte un ente a cui ci si appella o che ci appella e che fonda l’aspetto della verità. È in questo confronto con l’altro che noi andiamo in crisi. C’è qualcosa che ci è addosso e che funziona da vero ma che non ci appare tale. Ed è in questo iato che ci interroghiamo intorno alla verità e puntualmente si va a scontrare con la questione dell’ente che dice la verità. Sarebbe molto bello e moto efficace riuscire a stare nel concetto del quadro in quanto elemento che mi rinfranca sulla verità. Purtroppo, mi sembra che occorra un bel percorso di analisi per stare dentro a questo concetto, altrimenti non ci si arriva, cioè, non si riesce a stare dentro indeterminato se non l’hai scoperto nella tua esperienza. Tutti gli esseri umani hanno bisogno di certezze ed è questo a parer mio che li consuma. Tu cosa ne dici, Luciano?

Certo, questa è un’opinione molto diffusa, che gli umani abbiano bisogno di certezze. Si potrebbe, però, spingere oltre la questione: cosa se ne fanno di queste certezze? A che scopo le cercano? È vero che le cercano, le religioni sono nate per questo. Perché dovrebbero avere bisogno di certezze? E perché si angosciano quando queste certezze vengono meno? Perché uno dovrebbe angosciarsi? Potrebbe starsene benissimo tranquillo. Se questo non accade, evidentemente c’è un’attesa rispetto a qualche cosa di fermo, di stabile, ecc., qualcosa di controllabile, che io posso controllare. L’angoscia sorge nel momento in cui io perdo il controllo sulle cose, in qualunque modo, non ha importanza, ma non le controllo più. È allora che mi trovo di fronte a dovere confrontarmi con, alcuni direbbero, il nulla, altri direbbero il taglio… Ma non è tanto questo il punto quanto il fatto che in tutte queste operazioni occorre riflettere di più sul perché avvengono. Non è che sia una cosa naturale, per cui se uno perde l’aggancio con la verità assoluta allora si angoscia, perché? Anzi, potrebbe essere divertente. Certo, la questione dell’analisi, sì, certo, è indispensabile. Senza un’analisi non c’è la possibilità di leggere le cose in un altro modo, ed è vero. Però, si tratta forse di porsi nei confronti di tutto ciò in modo addirittura più semplice. Prima dicevo in modo forse un po' rapido: chi ha il controllo delle sue cose sta bene, quando lo perde sta male. È automatico, perde il controllo, non è più sicuro delle cose che dice, delle cose che fa, non è più sicuro degli altri, non è più sicuro di niente, e allora si dice comunemente che sta male. Questo stare male, legato alla perdita di controllo, cessa immediatamente se riacquista il controllo, se ce l’ha o crede di averlo. In quest’ultimo caso, la storia è assolutamente identica, non cambia nulla. Crede di avere il controllo su tutto, sta benissimo, non c’è più nessun problema. Questo lo si può rilevare molto facilmente, per esempio, dalla soddisfazione in una conversazione quando se ne esce vincitori. Dà una soddisfazione grandissima perché uscirne vincitori cosa vuole dire? Vuol dire che ho avuto il controllo sulla situazione, che l’ho controllata io, il gioco l’ho avuto in mano io. Sembra che la soddisfazione venga da lì, dall’avere o non avere il controllo sulle cose. Poi, ciascuno intende questo avere il controllo a modo suo, questo non è irrilevante. L’importante è che pensi, che creda di avere il controllo, se ce l’ha allora sta bene e non ha bisogno di niente. Naturalmente, lo perde poi, è ovvio, prima o poi succede qualche inciampo e allora lo perde o pensa di poterlo perdere. In quel caso si angoscia, incomincia a stare male, corre ai ripari, si agita, fa un sacco di cose; lo recupera e sta di nuovo bene. Sembra troppo semplice. E se lo fosse?

Stefania Guido: Secondo c’è anche l’altra faccia della medaglia. Penso che ci sia in alcune situazioni in cui riesci a porre il tuo senso di te e la soddisfazione esistenziale nella padronanza che hai sulle questioni. Ma penso ci sia anche il rovescio della medaglia, dove invece la soddisfazione la vai a cercare proprio nella totale non padronanza, nella perdita di te.

È vero quello che dici. Perché mai questo godimento nella perdita del potere, di padronanza?

Stefania Guido: È molto difficile dare una definizione che sia univoca.

Torniamo a Freud. Pensa a queste due figure: il discorso ossessivo e il discorso paranoico. Nel caso del discorso paranoico la questione della padronanza è talmente evidente, plateale, che non crea nessun problema. La padronanza è quella che suppone di avere al di là di ogni considerazione. Il fatto che lui, il paranoico, possa sbagliare non è neanche pensabile. Il discorso ossessivo è diverso, ottiene lo stesso risultato ma in un modo, un po' più contorto, e cioè ponendosi come quella persona umile, indifesa, innocua, da cui non c’è da aspettarsi niente di brutto. Però, tutto questo perché lo fa? A che scopo? Anche in questo caso c’è quella cosa che Freud chiama tornaconto, adesso la dico in modo molto rozzo, è come se lasciasse andare avanti l’altro, lui si tira in disparte, però sapendo come stanno le cose, e cioè che se oserà le cose andranno male. Sa un sacco di cose ed è da questo sapere che trae il suo piacere. Nel discorso ossessivo l’altro solo apparentemente sa, ma non è proprio così. In realtà, l’altro non sa e l’ossessivo lo mette alla prova, lo prende in giro molte volte, per mostrare che è lui che sa come in realtà stanno le cose. Il lasciarsi andare è affidarsi nelle mani di qualcuno, ma sono sempre io che mi affido nelle mani di qualcuno. Il discorso ossessivo lascia all’altro il sapere, il potere, ecc., certo, ma è lui che lo fa: se io ti concedo del potere vuole dire che io ne ho più di te, perché se io posso concedertelo ne ho più di te, e di questo non posso non tenere conto, di questo non posso non gioirne, cioè, di sapere di essere comunque il più forte, se sono io a concederti il potere. Nella dialettica servo padrone Hegel descrive bene questa situazione. Il potere è una cosa alla quale nessuno rinuncia, per nessun motivo, piuttosto rinuncia alla vita ma non al potere, come accade peraltro molto spesso. Sembra essere qualcosa di strutturale, per questo ne parlavo prima come di qualcosa che accade, la volontà di potenza, come il descrivere lo stato di cose, qualunque esso sia non ha importanza, ma è in questo gesto che situo il potere, che poi può configurarsi in migliaia di modi, ma questo è irrilevante. Freud ne ha indicati quattro. Per esempio, il discorso isterico è il contrario del discorso ossessivo: il discorso ossessivo non fa, e dopo si pente di non avere fatto; il discorso isterico fa immediatamente e dopo si pente di avere fatto. Ma anche in questi casi si tratta sempre di un sapere che è all’opera, un sapere che la persona ha o suppone di possedere. Rimettere in discussione, in gioco, certi cardini del pensiero può essere utile. Per esempio, queste distinzioni tra giusto e sbagliato, in effetti, io non ho mai parlato né di giusto né di sbagliato. Ho parlato di una verità come la descrizione di uno stato di cose che è il modo in cui a una persona appare. Quel modo non è né giusto né sbagliato, è quello che è. Un po' come l’alètheia: ciò che appare non né giusto né sbagliato, è quello che è, cioè, mi appare così come mi appare. Certo, se si incomincia a parlare di giusto o sbagliato occorre, certo, un altro elemento che valuti, però, questo interviene in un secondo momento ed è, comunque, un modo per controllare, per tenere tutto sotto controllo, cosa alla quale pare gli umani non possono rinunciare. Anche parlando, in qualunque cosa, comunque, anche in queste stesse conversazioni interviene qualche cosa del genere. Certo, dopo un percorso analitico ci sono ben altri strumenti che altri non hanno e che non possono avere. Infatti, dicevo che né i filosofi, né i linguisti né i semiotici possono leggere le cose nel modo in cui chi ha avuto una formazione psicoanalitica può fare. Ma in una qualunque conversazione c’è sempre la necessità di “imporre” lo stato di cose che si va descrivendo, secondo la migliore tradizione della veritas, che deve essere imposta. Poi, è chiaro che non ci si crede in questa cosa, almeno sarebbe auspicabile, però si può rilevare che accade anche senza crederci, anche senza prendersi sul serio, anche senza farne un dramma. Prenderlo come un gioco, certo, ma ci si accorge, si rileva che c’è comunque questa cosa: ho ragione io, hai ragione tu, le cose che dico io sono più profonde, le cose che dici sono più qualche altra cosa. Ma ci si può giocare con queste cose oppure esserne travolti, ma non si evitano. Non si evitano perché ogni volta che tu mi dici qualche cosa mi stai dicendo come stanno le cose e, con tutta la delicatezza che vuoi, comunque me lo stai imponendo, perché quello è lo stato di cose che a te appare e, quindi, non puoi non imporlo. È inevitabile.

Stefania Guido: Esiste proporre, imporre, esporre. Nel mio quadro io vedo delle differenze…

Certo, qualunque dizionario le mostra. Queste differenze sono state acquisite nel corso dei millenni. La lingua, come si sa, cambia, cambiano i significati, molto lentamente ma inesorabilmente. A un certo punto si stabiliscono grosso modo dei significati che sono quelli che il dizionario propone. Ma se io dico “imporre” non è che non sappia che cosa significa, dico imporre per dare più forza a questo atto, a questo gesto, che ciascuno fa ogni volta che parla, ogni volta che afferma qualche cosa. La impone, che lo voglia o no, che lo sappia o no, anche in modo molto delicato, molto tenue, soprattutto molto avvertito di quello che sta facendo, di quello che sta accadendo in ciò che sta dicendo, cosa sta accadendo mentre parla. Occorre essere avvertiti, certo. Ecco la funzione prioritaria di un’analisi, senza un’analisi trovo molto difficile e improbabile essere avvertiti di una cosa del genere, però, con l’analisi, sì. Quindi, posso sapere che cosa sto facendo mentre parlo, ogni volta che descrivo qualche cosa, che definisco qualche cosa, che dico una mia opinione, una mia opinione privatissima che non deve modificare nessuno, una cosa solo mia personale. Tutte queste formulazioni non sono altro che captatio benevolentiæ, care al discorso ossessivo in particolare, servono soltanto a indorare la pillola. Di fatto, le cose che dico, le penso vere perché, se così non fosse, non le direi; vere anche provvisoriamente, non importa, ma mentre le dico le penso vere, non le direi se pensassi che sono totalmente false, ridicole, inverosimili e grottesche, non le direi, non in pubblico almeno.

Intervento: …

Lei pone delle questioni piuttosto grosse da affrontare. Che cosa si debba intendere con vivere veramente, quale sia la vita autentica. Molti se lo sono chiesto pensando a una vita autentica e a una vita inautentica. Lì si va su questioni molto complicate, molto difficili da dipanare. Il controllo fa stare bene finché uno ce l’ha. Certo, rischia di perderlo, ovviamente, perché può sempre accadere qualche impiccio ma finché ce l’ha o crede di averlo, che è la stessa cosa, sta benissimo. Poi, quando lo perde succedono dei problemi: angosce, drammi di ogni sorta. E, allora, farà di tutto per recuperarlo, per riaverlo. Come l’avere ragione. Pensate all’agone dialettico. Lo facevano un tempo i gesuiti per addestrare i giovani a governare. Mettevano due ragazzi di fronte, uno con una tesi e l’altro doveva confutargliela. Lì si vede molto bene come funziona la cosa, e cioè ciascuno dei due deve fare l’impossibile per ridurre l’altro al silenzio, per ridurre l’altro ad ammettere che lui ha ragione. Questo è il modello di ogni conversazione, che non può evitare una cosa del genere. Non può evitarla, non perché ci sia uno scontro dialettico dove si deve premiare un vincitore, ma perché è così che funziona parlando, sempre e necessariamente. C’è qualche cosa al mondo che dia più fastidio del venire confutati? Poche cose al mondo sono così fastidiose, irritanti e qualche volta devastanti. Frege, visto che ne abbiamo parlato all’inizio, quando Russell gli trovò una contraddizione all’interno del suo sistema logico mollò tutto e andò a coltivare verdure da qualche parte. Filita di Coo dicono che addirittura morì perché gli mostrarono un paradosso insolubile, tanto la cosa lo devastava che ne morì. Questo per dire quanto la cosa sia intollerabile. Viene da chiedersi perché sia così intollerabile.