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11/11/2004

 

Libreria LegoLibri

 

CHE COSA SIGNIFICA PENSARE (IN PSICANALISI)

 

Intervento di Cesare Miorin

 

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Intervento di Luciano Faioni

 

Occorre aggiungere qualche elemento a quanto detto muovendo proprio dalla psicanalisi, che è sorta allo scopo di intendere perché alcune persone si trovano a pensare in un certo modo, per cui questo certo modo produce delle conseguenze che alla persona sono sgradite. Ora i motivi per cui una persona si trova a pensare alcune cose sono sterminati e sono stati intesi dalla psicanalisi in vario modo, per esempio un mancato adeguamento della persona ai modelli originari del pensiero o archetipi, oppure un problema incontrato nell’Edipo, qualcosa che non si è articolato e che non è giunto a compimento oppure ancora il fatto che il bambino si è trovato, non ha saputo, non ha potuto superare un trauma dovuto all’alternanza di presenza e assenza del seno materno, questo a seconda che si pensi come gli junghiani, i freudiani o i kleiniani. Ma rimane la questione più interessante e cioè che la psicanalisi è un modo per interrogare, aldilà del che cosa interrogare comunque rimane un buon metodo per porre delle questioni. Ma come avviene che, per esempio, la psicanalisi freudiana, quella kleiniana e quella junghiana giungano a conclusioni differenti? Perché? Avviene così generalmente quando ciascuno illustra una sua opinione, uno ha un’opinione e un altro ne ha un’altra, l’opinione non è nient’altro che la supposizione che ciò che io affermo sia vero, poi posso anche crederci naturalmente ma questo non rende le cose più semplici, anche perché ciascuna di queste teorie si è accontentata del punto in cui è arrivata e cioè non ha proseguito ad interrogare questo elemento che ritiene fondante e sul quale ha fondato tutta la sua elaborazione, e perché non lo ha fatto? Questo è difficile a dirsi, ma sia come sia ciò che a noi interessa è il fatto che questa operazione non sia stata compiuta. Compiendola che cosa accade? Che cosa accade se si continua ad interrogare ancora, per esempio, il complesso edipico, perché dovrebbe essere così? Perché ho osservato? Chiunque può osservare quello che ritiene più opportuno, non è sicuramente una prova. Forse perché Sofocle ha scritto quella tragedia? Non è il primo né l’ultimo ad avere scritto una tragedia, altri hanno scritto altre cose. Per quale motivo dunque? Perché Freud ha riscontrato questo lungo le analisi che andava conducendo? Cosa significa che lo ha riscontrato? Che è questo che dicevano i suoi analizzanti, i suoi pazienti come diceva lui? Oppure ha pensato che le cose stessero così e quindi tutto ciò che andava ascoltando veniva tradotto, trasformato, piegato in modo da significare quello che lui voleva che significasse, esattamente la stessa cosa che ha fatto Jung, che ha fatto la Klein che ha fatto Reich, che ha fatto Adler e così via, ce n’è un certo numero, ma è possibile andare oltre con l’interrogazione, oppure no? Oppure effettivamente dobbiamo accontentarci di queste risposte? Tra l’altro molto dissimili tra loro, oppure possiamo applicare questo stesso domandare a ciò stesso che queste teorie psicanalitiche hanno trovato, cosa che non viene fatta generalmente, ma se venisse fatta allora ci si accorgerebbe che queste risposte che sono state fornite sono fondate in realtà su niente, su asserzioni assolutamente opinabili, discutibili, nulla che abbia la dignità per potere continuare a esistere. Per interrogare qualche cosa, per esempio una teoria psicanalitica, occorre che io lo sappia fare, ma cosa significa saperlo fare? Porre una domanda come quella che ho posta prima, e cioè per esempio il complesso edipico, perché le cose dovrebbero stare così e non in qualunque altro modo? Abbiamo escluso l’osservazione, abbiamo escluso la tradizione come assolutamente irrilevanti per fondare una teoria, vanno bene per fondare una religione o qualche considerazione folcloristica, ma sicuramente inadeguate per fondare una teoria. Dunque dicevamo, perché le cose dovrebbero stare così? In base a che cosa? In base a niente, e allora? Supponiamo di non potere più fondarci sul complesso edipico o la nozione di inconscio, l’inconscio esiste! Ah sì, e perché? Perché l’ho deciso? Perché mi piace pensare così? Perché me lo ha detto qualcuno o perché l’ho trovato scritto da qualche parte? Quale di questi motivi? E generalmente si accoglie uno perché si preferisce quello e va bene così, però può accadere di non accontentarsi di una cosa del genere e di nuovo torno a dirvi: continuare a interrogare e accorgersi che ciascuna volta che si interroga qualcosa in fondo si compie sempre la stessa operazione e cioè si chiede a questa cosa di rendere conto del suo fondamento o di ciò che la sostiene, che è la stessa cosa. Perché facciamo questo, quando interroghiamo qualcosa? C’è un motivo per cui chiediamo che cosa sostiene questa certa affermazione oppure non ce n’è nessuno? Evidentemente parrebbe che ci sia un motivo, e cioè ogni volta che interroghiamo qualcosa chiediamo sempre la stessa cosa ma a questo punto potremmo anche continuare a interrogare e cioè chiedendoci perché continuiamo a chiedere sempre la stessa cosa e cioè che cosa sostiene una certa affermazione. E a questo punto forse potremmo cominciare ad avere a disposizione qualcosa di più interessante e cioè il fatto che io non posso domandare in nessun altro modo, sono costretto ogni volta che domando qualcosa a usare sempre lo stesso modo, ma da dove arriva questo modo? Posso anche dire che me lo hanno insegnato, certo, in buona parte è così ma potrei modificarlo? Oppure no? E se non lo posso modificare allora significa che c’è qualcosa di strutturale in questo modo di domandare le cose, qualcosa cioè che non posso cambiare in nessun modo. Per farla breve possiamo giungere a questo punto tranquillamente, e cioè che io penso in un certo modo e non posso modificare il modo in cui penso ma, badate bene, quando dico modo di pensare non sto dicendo tutte le varie idee che ho, le mie opinioni, le mie credenze superstizioni, certezze, nulla di tutto questo, intendo la struttura che mi consente di pensare perché se penso, penso sempre esattamente utilizzando la stessa struttura e cioè da una considerazione, attraverso una serie di passaggi che giudico coerenti, arrivo a un’altra considerazione che chiamo conclusione, posso pensare in un altro modo? Se sì, quale? Oppure non posso pensare in un altro modo, e allora a questo punto abbiamo trovato qualcosa di notevole e cioè quella struttura che consente a ciascuno di pensare, quindi anche di domandare e quindi anche di pensare di domandare e insieme con questo qualunque altra cosa. Ma come dicevo occorre saperlo fare perché non è semplicissimo continuare a interrogare anche le cose che si sanno con la più assoluta sicurezza e sulle quali anzi si opina essere assolutamente fuori di luogo continuare a interrogarle, questo non è semplice ma se lo si fa si arriva a quella conclusione cui ho appena accennato e cioè che a fondamento di tutto c’è quella struttura che mi consente di pensare e quindi di costruire, per esempio una fobia, la paura dei topi. Con che cosa l’ho costruita? Oppure la paura di essere abbandonato o qualunque altra cosa, o la teoria della relatività, tutto questo con che cosa l’ho costruito? Cesare prima sottolineava che la condizione per potere fare tutto questo è quella struttura che si chiama linguaggio, come abbiamo detto tante volte, avremmo potuto anche chiamarla pippo, però c’è questa parola e continuiamo a usarla. E allora è il linguaggio che consente di costruire la paura di essere abbandonati, ora questa paura di essere abbandonati funziona o è stata costruita esattamente come qualunque altra cosa e cioè è partita da una considerazione e attraverso una serie di passaggi arriva alla sua conclusione che è quella “sono abbandonato”. Sapere pertanto come funziona il linguaggio significa anche sapere come ho potuto costruire una cosa del genere, sapere che se l’ho costruita allora: primo, ho avuto dei buoni motivi per farlo, secondo, sono partito da alcune considerazioni che ho date per certe mentre certe non lo sono e queste considerazioni sono quelle che hanno costituito la base sulla quale ho costruito una serie di altri argomentazioni che mi hanno condotto all’affermazione finale “sono abbandonato” e dunque sapendo come funziona il linguaggio, non è semplice però è possibile, allora so anche come si costruisce qualunque cosa, come cioè io sono giunto a costruire la paura con la convinzione di essere abbandonato, o la paura dei topi e così a seguire qualunque altra cosa, perché penso di essere fatto in un certo modo per esempio, mi accorgo mano a mano che tutte queste cose in realtà non sono altro che delle proposizioni, delle stringhe linguistiche e giusto per concludere a questo punto non ho più bisogno di credere per esempio che gli umani sono vincolati a degli archetipi o a qualunque altra sciocchezza del genere. Tutte queste favolette non mi servono più e quindi posso sbarazzarmi di qualunque teoria perché so che è fondata su niente e quindi mi baso unicamente su ciò che non posso necessariamente escludere, e cioè la prima considerazione quella più banale e cioè che parlo, penso, e se parlo e penso tutto questo è consentito da una struttura e cioè segue un certo andamento che è sempre lo stesso e che è quello che appartiene al linguaggio di cui sono fatto. Questo appena per dare un seguito alle cose che diceva Cesare ma altri possono aggiungere, togliere, muovere delle obiezioni e provare che tutto ciò che ho detto è falso…

 

Intervento: come nasce la fobia dei topi?

 

Lei può porre un’altra domanda che può illustrare meglio la sua e cioè: come nasce una religione? C’è l’eventualità che siano la stessa cosa, o la paura dell’inferno. La paura dell’inferno, per esempio, segue a una serie di questioni che sono state acquisite con l’educazione, chiamiamola così, per cui se faccio una certa cosa all’ora mi succede quell’altra. Ora nel caso specifico del topo, il topo, per esempio, Freud si era divertito ad accostare la figura del topo a quella del pene, è una possibilità, niente di più…

 

Intervento: può accadere

 

Perché no? Accostare l’idea di questo animale a qualche cosa di pericoloso, di minaccioso, che in realtà poi non si sa bene in che cosa consista propriamente, perché per ciascuno si sia configurata in quel modo questo soltanto il suo racconto potrebbe dirlo, cioè come è giunta, per quali vie, ad avere paura dei topi anziché delle armi nucleari, che sono più pericolose, però non fanno la stessa paura. La paura del topo come di qualunque altra cosa segue a tutta una serie di considerazioni, ma se questa serie di considerazioni viene svolta cioè si sa, si riesce a intendere qual è la premessa da cui si è partiti per costruire questa paura e a sapere a che cosa serve questa paura? Allora questa paura che si subisce diventa un pensiero che è possibile agire, se io so a che cosa mi serve la paura del topo. Facciamo un piccolo esempio, supponiamo che mi serva per produrre una certa eccitazione, allora vedo il topo, comincio a eccitarmi e saltare di qua e di là, allora in questo caso, saputo a che cosa serve posso considerare che questa eccitazione eventualmente può seguire anche ad altre cose, non necessariamente a un topo, e che se proprio voglio farla seguire dal topo perché no? Ma una paura che non è più subita ma è agita cessa di essere una paura, come dire: se sono io che decido di avere paura di qualche cosa è una sorta di contraddizione in termini, non è più paura. Ma in ogni caso lei non può dire a una persona che ha paura del topo dire per quale motivo ne ha paura, occorre che sia quella persona a dire perché ha paura del topo, non può dirglielo lei, e cioè a cosa le serve avere paura del topo in definitiva o di qualunque altra cosa…

 

Intervento:

 

Fa senso agli uomini che cosa? Il topo? Ah sì? Ne è sicura? Per sentito dire… sì è possibile che ad alcuni possa fare senso, ma ad altri no, ci sono persone che sono spaventate da alcune cose però questo non significa niente… altri che vogliono dire qualcosa?

 

Intervento: la paura del topo, volevo dire alla signora, se uno si ferma alla fobia e considera le cause che possono aver portato alla nascita di questa fobia e quindi alla ripetizione nel discorso di questa fobia, oltre a non tenere conto delle connessioni che avvengono mentre intervengono i vari elementi che fanno di questa fobia la storia di questa fobia, dicevo che se ci si limita soltanto ad intendere quelle che sono la cause e non ci si interroga sullo scopo, sul vantaggio del perché si costruisce una fobia, si limita il discorso a quello che tuttavia fanno la maggior parte delle persone, infatti la signora chiedeva come nasce una fobia? O perché le persone soffrono…non tiene conto che per ciascun atto c’è un vantaggio per compiere quell’azione, per fare quel gesto, dicevo che se si depura la fobia del vantaggio non si intende e quindi non si può cominciare a smitizzare certe questioni, per esempio, il vantaggio adesso per rendere più semplice una fobia come quella dei topi, può essere quello agganciato all’idea di saltare addosso a una persona amata, di farsi proteggere, può essere nata così e non essere la ripetizione per lo schifo per il topo ma la ripetizione per esempio, per avere potuto abbracciare una certa persona, per abbracciare una certa persona… Freud la raccontava anche così, quando si trovava, parlava dell’economia di una certa azione… raccontava delle cose in questo modo (il tornaconto certo) il tornaconto è quello di ripetere, per esempio, questa azione per cui nel pensiero della persona rimane la paura del topo perché non si trova a elaborare la questione del tornaconto che rimane una questione staccata, di cui non ha responsabilità come non fosse una sua costruzione (…) occorre che sia la persona che tramite l’analisi intende, prosegua cioè interroghi le questioni che intervengono mano a mano svolgendo il desiderio, se no non c’è nessuna dignità…

 

Intervento: …stavo cercando di meditare sulla fobia, sulla paura… non sono riuscita a collegare l’economicità della fobia con…

 

Lei è provvista di qualche fobia?

 

Intervento: io ho paura di vedere la gente litigare, però non riesco a capire l’economicità…

 

Allora adesso, molto semplicemente, proviamo a fare delle considerazioni. Io non so nulla di lei, però lei mi ha detto questo, giusto per riprendere ciò che ha detto Beatrice: a che cosa serve una cosa del genere, ora tendenzialmente quando si ha una di queste paure o di queste fobie accade di essere molto attenti a ciò che si teme, per esempio una persona che ha paura dei topi, se c’è anche un minuscolo topolino, che nessuno ha visto, quella persona lo vedrà immediatamente così come nel caso di due persone che litighino è sufficiente che magari discutano un po’ animatamente di un qualche cosa e probabilmente già lei teme che scoppi la rissa, che le cose vadano malissimo e che tirino fuori i coltelli mentre magari è solo una discussione un po’ animata, un po’ vivace, è come se ci fosse la ricerca in realtà di ciò che maggiormente teme, un po’ come il topolino, la persona che lo teme lo vede ovunque anche se magari non c’è, così come uno che teme i litigi vede persone che litigano anche laddove queste persone in realtà non stanno litigando, succede, magari discutono solo animatamente…

 

Intervento:…

 

Sì, non stanno litigando e se lei va per i mercati nella provincia di Firenze, la domenica, urlano come matti ma non sono affatto arrabbiati, né stanno litigando, semplicemente stanno conversando tra loro. Però a questo punto sorge una questione: perché si dovrebbe immaginare necessariamente che due persone debbano litigare per forza quando invece stanno parlando un po’ animatamente, come può accadere anche tra amici talvolta, per gioco, perché? È come se si cercasse questa situazione, magari due persone che litigano producono una fantasia, cioè evocano, richiamano un’altra questione, quella sì magari che attrae fortemente, per qualche motivo, e allora si va a cercare queste persone che litigano anche quando non litigano affatto, le si fa litigare appositamente, cioè si immagina che litighino al solo scopo di provare quella sorta di emozione, nota come paura, che altrimenti non proverebbero, d’altra parte nessuno la costringe a provare questa cosa e soprattutto nel caso in cui due persone non stanno affatto litigando ma lei invece suppone che stiano litigando perché a questa condizione lei può provare la paura e allora a quel punto certo, si tratterebbe di proseguire ovviamente e di intendere perché l’idea di due persone che litigano è così importante, così eccitante e proseguire lungo questa via, è come se questa scena provocasse una storia, dicevamo prima che il linguaggio funziona così, produce proposizioni, quindi storie, racconti, due persone che litigano immediatamente fanno partire una storia, un racconto, un film ed è questo racconto, questa storia che appare come irrinunciabile, per cui si immagina sempre che appena due persone alzano un po’ la voce litighino è così è possibile fare partire…

 

Intervento: lo spettacolo

 

Brava, qualcosa del genere…

 

Intervento: allora la paura dovrebbe essere un piacere

 

Infatti lo è, ma si chiama invece paura per un motivo particolarissimo e cioè che finché per lei funziona come una paura, cioè può chiamarla tale, può godersela, ma se potesse, come potrebbe accadere, di accorgersi che è un piacere allora cesserebbe di godersela, non gliene importerebbe più niente, mentre finché è una paura ne ho paura e quindi non sono io che lo voglio, sono loro che litigano, gli sciagurati. Così come sempre accade la paura non è nient’altro che una sorta di capovolgimento “non sono io che voglio che accada questa cosa tant’è che ne ho paura e quindi proprio non la voglio assolutamente”, ma se avesse l’occasione di accorgersi che in realtà c’è del piacere che si produce in tutto questo allora non la subirebbe, la agirebbe e cesserebbe di produrre quella forte emozione, che è quello che va cercando. Funziona così. Si perdono una serie di paure e quindi anche di forti emozioni però ciò che si ha in cambio è qualcosa di notevole. Ed è una delle cose più difficili lungo la conduzione di un’analisi fare in modo che una persona abbandoni ciò che più teme, perché è ciò cui non rinuncia per niente al mondo, è ciò intorno a cui ha costruito la sua stessa esistenza, ciò che gli fornisce il motivo per esistere in alcuni casi, non sempre ma in alcuni sì, per cui non ci rinuncia, preferisce in alcuni casi abbandonare l’analisi anziché la sua paura…

 

Intervento: forse perché è l’unico modo in cui può godere di un piacere non ammesso o non consentito diciamo…

 

Non è difficile togliere una paura, la difficoltà sta nel fare in modo che la persona possa rinunciare a quella paura, questa è la difficoltà, può apparirle bizzarro ma è un po’ come una persona che si inietta eroina, la difficoltà è nel fare in modo che questa persona rinunci all’eroina, magari in cambio di un’altra cosa, se ci rinuncia vuole avere in cambio qualche cosa di altrettanto emozionante, altrettanto piacevole, per questo è inutile mandarli a coltivare pomodori. non gli da la stessa emozione…

 

Intervento:…

 

Come è potuto avvenire? No, non deve pensarsi un mostro, è assolutamente gradevole…

 

Intervento:…

 

Quando parlo di piacere intendo dire che c’è qualcosa che attrae pur fuggendola, lei può pensare ai film che fanno paura dove si paga il biglietto per spaventarsi, la struttura è la stessa, solo che in quel caso è assolutamente consapevole di quello che fa, nell’altro caso no perché per potere continuare a usufruire di quella paura, di questa eccitazione che produce quella scena deve pensare che lei non la vuole e quando parlo di piacere alludo a una sorta di attrazione per qualcosa che si teme. Quest’attrazione è qualcosa che seduce, letteralmente trae a sé, un’attrazione irresistibile al punto che in alcuni casi la crea anche quando non c’è, due persone che parlano in modo animato tra loro, tra amici, e lei invece pensa che stiano litigando per provare questa sensazione, ma non è un mostro, ci sono altri sei miliardi di persone che pensano in modo molto simile…

 

Intervento: mal comune mezzo gaudio…

 

Non saprei, ma in ogni caso è il modo di pensare normale, non c’è niente di più normale, però è possibile saperne di più, questo sì, occorre una certa curiosità ma se c’è questa curiosità è possibile saperne di più…

 

Intervento:…

 

Anche l’educazione viene utilizzata, qualunque cosa viene utilizzata per costruire una paura, cioè per costruire un’occasione di eccitazione poi in definitiva…

 

Intervento: pensare in psicanalisi è completamente diverso che pensare in altri ambiti? Un connubio… un incontro come auspica il vostro collega Galimberti…

 

Il collega Galimberti? Non è mio collega.

 

Intervento: lei non è psicanalista?

 

Sì, ma non è un mio collega. Intanto occorre stabilire che cosa si intende con pensare…

 

Intervento: lei prima parlava del linguaggio come struttura…

 

Sì certo, significa nient’altro che questo: continuare a interrogare i fondamenti del proprio sapere, cosa che il signor Galimberti non fa, lui come infiniti altri, poi è junghiano…

 

Intervento: è da buttare via allora?

 

Sì, direi proprio di sì… può leggerlo comunque, in ogni caso sono sempre da leggere ma come potrebbe leggere la favola di Cappuccetto Rosso, in fondo ha la stessa fondatezza, cioè nessuna, è un’idea, quella junghiana, è l’idea che esistano degli archetipi uguali per tutti e indistruttibili ai quali ciascuno occorre che si attenga e quando finalmente li riconosce finalmente si rassegna alla sua condizione, è un’idea come un’altra, anche mia nonna pensava una cosa del genere, però non aveva una pretesa scientifica, un conto è affermare qualcosa, altro è saperlo provare, diventa molto più complicato…

 

Intervento: provare è difficile…

 

Esatto, è difficile, occorre anche avere gli strumenti per poterlo fare ma lei si rende immediatamente conto che se questo non si fa allora una qualunque cosa vale quanto la sua contraria, e allora che ce ne facciamo? Niente. Potremmo anche spiegare l’universo utilizzando la favola di Cappuccetto Rosso, perché no? Volendo si può fare…

 

Intervento: dicevo prima in ambito scientifico qualcosina la spiegano di più fondato rispetto all’ambito filosofico o psicanalitico?

 

Spiegano il funzionamento di alcune cose, di alcuni giochi…

Intervento: non è poco

 

Non è né poco né tanto, è un po’ come spiegare il funzionamento del gioco del poker, ci sono delle regole, si stabiliscono delle regole dopodiché, stabilite queste regole, si applicano a una serie di eventi e cioè si spiegano attraverso queste regole che sono state decise. C’è la possibilità che una volta che sia compiuta una dimostrazione, qualunque essa sia, in ambito logico non si sia fatto nient’altro che essersi attenuti rigorosamente, con scrupolo, alle regole che sono state stabilite, nient’altro che questo, c’è questa eventualità, oppure si suppone che esista una realtà da qualche parte che si tratta di scoprire, ma anche questa è un’altra idea al pari di qualunque altra…

 

Intervento: la scienza il fondamento è che è una scienza…

 

Cosa glielo fa pensare? È il contrario, la psicanalisi come stavamo dicendo prima può dimostrare tutto ciò che afferma in modo assolutamente inattaccabile, ma con psicanalisi intendo ciò che stiamo dicendo, non la psicanalisi junghiana che non può provare di sé assolutamente niente, nemmeno la scienza non può provare in realtà assolutamente niente, non può provare i suoi fondamenti, può provare soltanto la correttezza del suo procedere, nient’altro della correttezza di questo e gliene diamo atto, ma aldilà di questo non può fare niente, come dire che se gli assiomi o i principi da cui muove non sono fondabili allora tutto ciò che ne segue rimane altrettanto infondabile, io posso fare un calcolo complicato e bellissimo, arrivare alla conclusione, e con questo cosa ho fatto? Mi sono attenuto alle regole del calcolo, ho fatto altro? No, mentre in questo caso la questione è totalmente differente. Nel caso del pensiero psicanalitico si muove da qualche cosa che non è arbitrario ma necessario. Con necessario intendo ciò che è e che non può non essere, perché se non fosse allora non sarebbe né questa cosa né qualunque altra, mi riferisco alla struttura del linguaggio, la psicanalisi pone a fondamento di tutto ciò che costruisce la struttura stessa del linguaggio che è quella stessa struttura che consente di creare qualunque criterio, qualunque parametro, qualunque assioma, qualunque principio, qualunque dimostrazione, come dire che è la condizione per potere pensare una qualunque dimostrazione. Se si considera la struttura del linguaggio allora si ha in mano qualcosa che è assolutamente necessario agli umani per pensare qualunque cosa, perché viene pensato attraverso il linguaggio che è la struttura appunto, la struttura di cui diceva prima Cesare, una struttura inferenziale prevalentemente, cioè qualcosa che consente di costruire pensieri, costruire conclusioni e quindi di pensare tout court, ora è possibile negare che il linguaggio è il fondamento di qualunque cosa? È complicato, con cosa lo faremo? Con che cosa dimostreremo che, per esempio, esiste qualcosa che è fuori dal linguaggio? Può pensarlo, può crederlo, ma non è questo che ci interessa, può anche credere alla madonna, ma in ambito logico si pretende qualcosa di più. Ora provi a immaginare di dovere dimostrare che un elemento x è fuori dal linguaggio, come farà? Ovviamente dovrà utilizzare il linguaggio per compiere una cosa del genere, necessariamente, e utilizzando il linguaggio che cosa succede? Che si trova di fronte a una condizione che è paradossale, e cioè che può dire, quindi affermare che esiste un elemento che è fuori dal linguaggio a condizione che esista il linguaggio per potere fare questo. Questa è una formulazione che è comunemente nota come paradosso cioè questa affermazione che afferma che qualcosa è fuori dal linguaggio è vera se e soltanto se non lo è, ma affermare per esempio che qualsiasi cosa questa è un elemento linguistico appare non più come una dimostrazione, che è sempre soggetta a confutazione, qualunque dimostrazione può essere confutata, basta essere sufficientemente abili, ma invece ha la forma di una costrizione logica, che è diverso, perché non è possibile non affermarlo, non è possibile uscire dal linguaggio per esempio, è un po’ come dire la stessa cosa, non è possibile costruire un qualunque criterio di dimostrazione o di verifica o di prova che non sia fatto di linguaggio, non lo può fare, il linguaggio cioè una struttura, un sistema operativo, fatto soltanto di due mattoncini in realtà, un sistema inferenziale “un se… allora”…

 

Intervento: mi viene da pensare agli albori del mondo, prima che esistesse il linguaggio… mi vengono in mente gli uomini primitivi che non avevano linguaggio…

 

In ogni caso, questa domanda ha una risposta? Oppure no? Se io le chiedessi di rimbalzo alla sua domanda “cosa c’è prima del linguaggio”? Questa domanda ha una riposta? Voglio dire, è possibile rispondere a questa domanda oppure no? Anche questa è una questione da considerare con molta attenzione, perché c’è l’eventualità che non sia possibile rispondere a questa domanda per un motivo, che per farlo dovrebbe pensare senza linguaggio, per chiedersi come si pensa senza linguaggio o cosa c’è prima, e questo non lo può fare e allora chiedersi che cosa c’è prima del linguaggio è una domanda che potremmo anche chiamare “non senso” perché non c’è nessuna possibilità di rispondere, né adesso né mai, perché non può uscire dal linguaggio e quindi non può pensare in assenza di linguaggio, lei può porsi la domanda, certo, il linguaggio le consente di farlo ma non le consente di rispondere perché non le consente di uscirne e quindi è una domanda che non ha senso ché non ha possibile risposta, non ha una risposta logicamente possibile così esattamente come quella che chiede cosa c’è prima del linguaggio, ha un senso? No. A questo punto, non potendo usare il linguaggio per provare una cosa del genere perché il linguaggio non può provare che qualcosa è fuori di sé, allora può metterci quello che le pare, dio, la natura o qualunque altra cosa, va sempre bene, come abbiamo detto prima ciò che non può essere provato va a seconda del gusto estetico “mi piace pensare che prima c’era dio” va bene! O mi piace pensare che esiste qualcosa fuori dal linguaggio, va bene, perché no?

 

Intervento: così anche per la morte?

 

L’idea della morte in fondo non è altro che l’idea dell’assenza di linguaggio, tant’è che una persona che è morta non parla più, cessa di parlare, questo è un problema, in alcuni casi no. Ecco giusto per chiudere sono riflessioni che conducono, come diceva Cesare, a qualcosa di notevole e cioè a una chiave di accesso: potere avere la risposta a qualunque cosa, e sa perché? Perché ha inteso qual è la struttura che consente di costruire domande e costruire risposte e a quel punto può rispondere a qualunque cosa, cogliendo di qualunque cosa la sua struttura fondamentale e cioè ciò di cui è fatta: ciò che chiamiamo linguaggio…

 

Intervento: scusi lei è di scuola lacaniana?

 

Indirettamente, indirettamente nel senso che mi sono formato con Verdiglione, che si è formato con Lacan, che si è formato con Loewenstein, che si è formato con Abraham che si è formato con Freud. Questa è la sequenza. Va bene, grazie a tutti e buona sera.