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SCIENZA DELLA PSICANALISI

 

11 giugno 1993

 

La questione del tempo è importante. Il tempo è quindi ciò che interviene, rispetto a questa nozione, come possibilità di misurazione. Come sapete, intorno al tempo gli umani si interrogano da sempre, in modo più o meno interessante, in modo più o meno articolato. Uno fra i tanti è Plotino, che coglie nel tempo due aspetti interessanti. Il primo è che, dice, mentre l’eternità riguarda dio, il tempo invece attiene all’anima, che attiene agli umani. La seconda è questa, che pone il tempo come divisione, contrariamente all’Uno che è la cancellazione della divisione, l’unità per Plotino.

Ci sono delle proposizioni che possiamo leggere per poter poi aggiungere delle cose.

“A ragione si potrebbe affermare che l’eternità è Dio, che appare e si manifesta nella sua essenza. Essa è cioè l’essere immutabile, identico a se stesso, così come è, saldo nella propria vita. [Questa è l’eternità, ché in effetti lui muove per l’elaborazione intorno al tempo da quella di eternità, cioè di assenza di movimento, di immobilità]. Il tempo non va concepito al di fuori dell’anima, come l’eternità non va concepita al di fuori dell’essere di lassù.”

“Se poi qualcuno affermasse che Platone definisce tempi anche i movimenti degli astri, costui farebbe bene a ricordarsi che Platone dice che gli astri sono nati per rendere manifesto e dividere il tempo e perché ci sia una misura evidente. Infatti, poiché non era possibile all’anima di limitare il tempo stesso e gli da se stessi non erano in grado di misurare ciascuna sua parte, questo perché il tempo è invisibile e inafferrabile, ma soprattutto perché non sapevano come, allora il Demiurgo fa giorno e notte mediante la cui differenza si poté comprendere il due, dal quale, dice Platone, nasce la nozione del numero.”

Alcune cose possono già dirsi intorno a questo.

Dunque, il tempo come divisione. Non a torto, Plotino introduce la questione del due in relazione al tempo. Il due, potremmo dire, la divisione. Il due che non segue all’uno, cioè, non procede per scomposizione dell’uno, ma precede l’uno. Dire che il due precede l’uno comporta questo, che le cose non procedono da un’unità, cioè non procedono per scomposizione da un’unità precedente, ma se è originario il due, è la divisione originaria e dunque non l’unità delle cose. Le cose non sono unitarie, direbbe Plotino, non sono eterne, cioè identiche a se stesse e immobili.

Tutto questo che cosa ha a che fare con la scienza? Ci sono molti aspetti della scienza che a tutt’oggi rilevano questioni molto antiche, soprattutto connesse con aspetti ideologici o religiosi. Ciò che è immutabile e eterno è ciò che di per sé è evidente, ciò che non può essere altrimenti che così.

Prendete una dimostrazione matematica, nella sua interezza e nella sua precisione. Potremmo dire che è immutabile nel tempo, cioè, tra mille anni sarà ancora così. C’è qualcosa di eterno in tutto ciò, di necessario.

La questione ci interroga a vario titolo. Interroga noi ma prima di noi ha interrogato molti altri. Che cosa garantisce di questa eternità? Perché affinché sia così evidente, così certa, così sicura, occorre che non muti nel tempo. E cioè che i criteri, che la rendono valida oggi, la mantengano valida anche domani. Cosa assicura che questo sia possibile, che questo avvenga?

Una volta questo fatto era molto semplice e la risposta immediata. Non che avessero un pensiero meno sofisticato, meno articolato di quello attuale. Semplicemente, avevano un altro tipo di risposta e questa risposta era dio. Dio garantisce che le cose stiano così. Perché? Beh, ce lo spiega Galilei, in un certo senso, ma anche Cartesio. Cartesio che scrive nelle sue Meditazioni “in nobis sunt semina scientiarum”. Perché questi semi della scienza sono in noi e pertanto soltanto noi possiamo stabilire, verificare la certezza di un asserto. Nel senso che ciò che ci dice che questa cosa è vera è qualcosa che abbiamo e che ci è data da dio. Perché? Perché ha disposto l’universo in un certo ordine e ci ha dato la capacità di reperirne le leggi. Reperirne le leggi, vale a dire, cogliere dei criteri di spiegazione dei fenomeni che accadono, tali per cui sono sempre vere. Sono sempre vere perché le cose stanno così. Stanno così, dicevano allora, perché dio le ha sistemate in questo modo.

Si erano già resi conto che senza questo artificio, chiamiamolo così, cioè senza ricorso a dio, diventava molto problematico sostenere questo, nel senso che chi ci garantisce che le cose che noi descriviamo attraverso una legge corrisponda a qualcosa che esiste o che non è mai esistito? Domanda più che legittima che già gli antichi si erano posti in modo molto preciso. La risposta era questa, evidentemente: dio. Con questo si tagliava corto, certamente. Pur avvertendo il problema, tagliava corto con la questione che questo problema sollevava.

Questione interessante quella delle leggi perché resta un aspetto straordinario non soltanto nella matematica, nella fisica, ma anche nel diritto. Si tratta di intendere se c’è una qualche connessione. Vedremo poi se c’è a proposito del diritto.

La scienza oggi, come sapete, si avvale soprattutto di concetti che non si attengono più alla dimostrabilità o alla verità ma, più recentemente dopo Popper, al criterio di falsificabilità. Questo, come vedremo, non è che poi sposti di molto la questione. Anzi, la riconduce da dove era partita, in un certo senso.

Si tratta, quindi, di vedere se ciò che gli umani hanno inventato come scienza dice qualcosa di ciò che li circonda oppure no. Già questa sarebbe una questione interessante da svolgere, perché non va affatto da sé. È una questione molto dibattuta a tutt’oggi. Si tende quasi sempre a porre una realtà che obbliga all’osservanza. Una realtà, potremmo dire, uguale per tutti - già qui potete avvertire una connessione con la legge. Una realtà uguale per tutti e quindi possibile a tutti reperire, individuare.

Leggi queste che sono eterne, nell’accezione che indicavo prima, cioè, identiche a sé, immutabili, immaginate governare l’universo: l’universo è scritto in formule matematiche, sta a noi trovarle, diceva Galilei. Sta a noi, dunque, trovare queste leggi che spiegano, che illustrano, che rendono conto dei vari movimenti. Ciò che la ricerca ha mano a mano verificato è che queste leggi sempre meno rispondono a questa esigenza di spiegare gli accadimenti. Tuttavia, c’è una questione che può affrontarsi. Ciò che andiamo dicendo qui muove da una nozione di legge che, come è noto, muove ciascuna volta da ipotesi. Di queste ipotesi diremo tra poco perché se ne occupa anche la filosofia della scienza.

Un’ipotesi è un sillogismo, un sillogismo composto da un’universale affermativa e da due particolari affermative. Come ci fa notare Peirce, un’ipotesi muove da una supposizione. È, letteralmente, un sottoporre, una sottoposizione, che deve giungere alla posizione, alla tesi. Quindi, è qualcosa che va sottoposto, un “non ancora”, potrebbe essere.

La questione della scientificità della psicanalisi non sorge in un momento qualunque. Sorge in seguito alla teoria elaborata da Popper. È dopo Popper che si pone questo problema. Prima non importava niente a nessuno che la psicanalisi fosse scientifica o no, nel senso che la nozione di scienza non aveva ancora assunto questi criteri così rigidi e morali come quella a cui la sottopone Popper. E, quindi, questo dibattito intorno alla scientificità della psicanalisi incomincia in seguito all’elaborazione di Popper. Cioè, ci si chiede se i risultati, se ciò che avviene lungo una psicanalisi è riproducibile, osservabile, falsificabile. Non è riproducibile, perché ciò che si dice in ciascuna conversazione non è riproducibile nei termini in cui è avvenuta in quella conversazione, come ciascun linguista sa perfettamente. Non è osservabile, perché chiunque osserva, osserva quel che “gli pare”. Ciò che ciascuno osserva non è così ingenuo, come volevano già gli stoici parlando della rappresentazione catalettica, poi ripresa fino a Husserl o fino a Carnap con l’enunciato protocollare, quello che mostra le cose così come sono, la loro datità. Ecco, forse questa osservazione non è così ingenua in quanto ciascuno osservando ci mette, potremmo dire così, del suo. Quindi, il criterio di osservabilità può essere messo in discussione. Non è falsificabile, cioè, non può costruirsi una proposizione che la falsifichi ma nemmeno può costruirsi una proposizione che la renda vera. Cioè, non è sottoposta ai criteri di verità o di falsità. Non se ne occupa. Sottoporre le proposizioni a criteri di verità è sempre molto complicato, molto arduo e imprescindibile dal fornire un criterio di verità.

Dunque, ritornando a ciò che stavamo dicendo, la psicanalisi non rientra nel concetto popperiano di scienza. Ciò che può interessare, invece, è se la nozione popperiana di falsificabilità rientra nella stessa nozione di scienza che essa stessa introduce. Infatti, non va da sé, anche se non è propriamente ciò che ci interessa in questo momento, ma intendere piuttosto la portata ideologica del testo di Popper. Come, cioè, la nozione di scienza che lui introduce funzioni come una sorta di giudizio, ma di giudizio “giudiziario”, potremmo dire.

Si può aggiungere ancora un aspetto intorno alla nozione di scienza della psicanalisi. La scienza di cui occupa la psicanalisi non è quella popperiana. Non è nemmeno una scienza che debba avvalersi di criteri di verità, che sono sempre molto ardui e difficili da maneggiarsi, sempre pronti a scivolare con estrema facilità verso posizioni mistiche, religiose, e che comunque presuppongono sempre una credenza, un atto di fede come punto di partenza.

Avanzare una nozione di scienza che non necessiti di un atto di fede e che quindi non implichi in qualche modo una struttura religiosa è ciò che il testo di Freud ha incominciato a fare. È un’operazione che occorre proseguire.

Intanto occorre sbarazzarsi della nozione di verità. Ma come sbarazzarsene? Può sembrare facilissimo ma poi, di fatto, può risultare meno semplice. Possiamo intanto distinguere tra vero e verità.

Vero è ciò che è creduto tale, né più né meno.

La verità non più come causa, dunque. Perché forse sta proprio lì l’inghippo, in cui molti sono stati presi, cioè porre la verità come causa. Invece, si tratta di porla come effetto del discorso. Porla come effetto vale già a porre una posizione differente dall’osservanza rispetto alla verità o rispetto a un suo criterio. La verità è un effetto di ciò che dico mano a mano. Certamente, non verificabile da un criterio che, invece, pone la verità come causa. Dunque, non verità come causa ma, eventualmente, causa di verità, cioè, qualcosa che parlando è causa di verità, ha effetti di verità.

Non c’è in Freud la necessità di stabilire una verità come causa a cui attenersi, a cui riportare ciascuna cosa per verificare il vero-falso. Mi riferisco qui a queste nozioni in quanto prese in una ideologia, non necessariamente come ciò che attiene a un calcolo matematico o un gioco matematico, che si avvale di questi schemi, per così dire, senza attribuire peraltro alcun valore. Russell diceva che in matematica si fanno un sacco di cose senza sapere assolutamente che senso abbia tutto ciò che si sta facendo. Invece, c’è una sorta di ideologia che si avvale, così come avviene sempre, di alcune nozioni prodotte lungo una ricerca di varie discipline, di varie scienze, per cercare di stabilire su queste un discorso, potremmo dire, religioso.

Ma veniamo, dunque, a Popper. Ritengo che l’elaborazione di Popper abbia costituito, e costituisca a tutt’oggi, un emblema di ciò che l’ideologia può raggiungere. Tanto più oggi in quanto c’è un aspetto che è, come dicevamo prima, giudiziario. Ma leggiamo qua e là qualche brano giusto per poter proseguire.

“Abbiamo descritto il principio di induzione come il mezzo grazie al quale la scienza decide sulla verità. Per essere più esatti, dovremmo dire invece che serve per decidere sulla probabilità. Infatti, alla scienza non è dato di raggiungere la verità o la falsità, ma le asserzioni scientifiche possono soltanto raggiungere gradi continui di probabilità i cui limiti, superiore e inferiore, peraltro irraggiungibili, sono la verità e la falsità.”

Ma se non può raggiungerla mai, come fa a sapere che è la verità? Cosa gli dice, o cosa può fargli dire eventualmente raggiungendola che è la verità? Perché è soltanto a partire da questo criterio può dire se un elemento gli si avvicina oppure no.

È una questione su cui peraltro Popper non ritornerà più, curiosamente. Curiosamente perché costituisce, sin dalle prime pagine, qualcosa di già scontato, di acquisito. E su questo lui costruisce tutta la sua dottrina: una verità che non c’è, che nessuno raggiungerà mai ma che costituisce il parametro, il criterio, su cui misurare la vicinanza o la distanza di un’ipotesi dalla verità. E come? È curioso che non abbia fatto uno sforzo maggiore in questo senso. Ma d’altra parte in più punti c’è un richiamo al buon senso comune laddove la questione interroga in modo radicale e minaccia di porre obiezioni tali da rendere almeno molto discutibili le sue asserzioni, ecco, su questi punti taglia corto.

Dicevamo tempo fa di questo aspetto, del tagliare corto il discorso rispetto a un elemento di cui non si sa nulla, pur rilevandosi lungo la conversazione costituire la colonna portante di tutto il discorso. Allora, si glissa però questo glissaggio comporta, immediatamente dopo, che questo elemento assolutamente sconosciuto, assolutamente aleatorio, indefinito, serva da colonna su cui poggia curiosamente tutta l’argomentazione.

Ma ci sono altre cose che volevo leggervi.

“È opportuno notare che una decisione positiva può sostenere la teoria soltanto temporaneamente, perché può sempre darsi che successive decisioni negative la scalzino. Finché la teoria affronta con successo controlli dettagliati nel corso del progresso scientifico non è scalzata da un’altra teoria, possiamo dire che ha provato il suo valore e che è stata corroborata dall’esperienza passata.”

Qui c’è un’altra questione che si pone. Il fatto che una teoria sia “corroborata da esperienze passate” comporta che evidentemente ciascuna ipotesi, ciascuna tesi, debba necessariamente essere sostenuta da ipotesi precedenti. Ora, certamente, Popper non è così ingenuo da non accorgersi della regressio ad infinitum. Ma lui come risolve il problema?

Lo risolve in un modo curiosissimo che adesso vi indico.

“La cosa è valida quando, dunque? È valida quando per qualcuno essere in possesso di ragione la sua ragion d’essere è soggettiva e sufficiente. [Questo è Kant che parla, non Popper. Però, dice, il mio uso dei termini soggettivo e oggettivo non è dissimile da quello di Kant.] Io sostengo che le teorie scientifiche non sono mai completamente giustificabili e verificabili e nondimeno possono essere sottoposte a controllo. Dire, pertanto, che l’oggettività delle asserzioni della scienza risiede nel fatto che esse possono essere controllate intersoggettivamente.” Però, in effetti, dà per buono questo enunciato di Kant. “Quando una persona è in possesso di ragione dice la stessa cosa.”

Certo che dirà la stessa cosa. Perché? Lo diceva prima dicendo che ciascuna ipotesi è corroborata da ipotesi precedenti. Ora, è chiaro che ciascuno si trova preso in un discorso che si avvale di elementi, di figure, che sono quelle per esempio del discorso occidentale, che sono fatte per essere accolte, sono fatte dunque per costituire il luogo comune. Come dire che, in definitiva, il criterio ultimo è quello di un consenso intorno al luogo comune, quindi, accettato dai più. È questa, poi, la base dell’esperienza su cui lui si fonda, questa esperienza che dà come base. Non si rinuncia mai all’esperienza, lui dice. Ma di che cosa è fatta l’esperienza? Di ciò che acquisisco ma ciò che acquisisco mano a mano come lo acquisisco se non attraverso dei processi psichici che sono tali proprio in quanto partecipano di una mia elaborazione continua da cui non posso in nessun modo distrarmi, cioè, distogliermi. Non posso uscire dal mio discorso, non posso uscire dalle fantasie che mi riguardano, non posso in nessun modo essere obiettivo, per dirla così. Come dire, che saranno sempre di parte tutte le mie affermazioni. Quale parte? Quella che mi concerne, quella in cui mi trovo in quel momento specifico. L’esperienza è di ciascuno.

Cosa fa immaginare a Popper che questa esperienza sia veridica? Ché già gli antichi mettevano in forte discussione, se non altro già Aristotele. Basare la scienza sulla propria esperienza è sempre problematico. Su cosa, dunque, può fondarsi se non sull’enunciato fondamentale che enunciava prima, cioè, la supposizione, la certezza - perché qui sembra una certezza - di poter stabilire che cosa o quando un elemento è più o meno vicino alla verità. Chi può garantirlo? Dio, solo lui può farlo.

Sta in questo l’aspetto religioso di Popper, cioè la necessità, per quanto lo si immagini distante dalla metafisica, la necessità di un elemento che sia lì fermo, immobile, eterno. È chiaro che deve essere eterna questa verità perché se varia continuamente non ha nessun criterio per stabilire se un elemento è più o meno vicino alla verità. Tolta questa possibilità non c’è possibilità né di verificare né, di conseguenza, di falsificare alcunché.

Ma la cosa non finisce qui. Ci sono altri elementi curiosi.

Qui propone una questione per cui sembra quasi che sia in mala fede.

“Senza discutere questo problema in dettaglio, desidero soltanto far notare che il fatto che i controlli non possano andare avanti indefinitamente, nulla urta contro la mia richiesta che ogni mia asserzione scientifica debba poter essere controllata. [al che potremmo fare questa obiezione banalissima: chi controllerà il controllore?] Io non esigo, infatti, che prima di essere accettata ogni asserzione scientifica debba essere stata di fatto controllata. Esigo, soltanto, che ciascuna asserzione di questo tipo sia passibile di essere controllata. O, in altre parole, mi rifiuto di accettare l’opinione secondo cui nella scienza ci sono asserzione che dobbiamo rassegnarci a accettare come vere unicamente perché, per ragioni logiche, non sembra possibile controllarle.”

Cosa vuol dire che è passibile di essere controllata?

Per essere possibile che sia controllata occorre che sia possibile falsificarla. Ma se abbiamo visto che non è possibile verificarla in nessun modo perché il concetto di verità lui stesso ci dice che è irraggiungibile assolutamente, allora non sarà mai passibile di essere controllata in nessun modo. Poi, lui stesso dà la risposta a questa questione, anche se non se ne accorge perché ne parla in tutt’altro modo. Dice:

“L’osservazione e la percezione possono essere psicologiche ma l’osservabilità non lo è. Non ho alcuna intenzione di definire il termine “osservabile” o “evento osservabile” benché sia prontissimo a chiarirlo per mezzo di esempi di tipo psicologistico o meccanicistico.”

Cioè, dice, può fare l’esempio. Che cos’è l’esempio? È un’induzione, e cioè esattamente ciò che scartato all’inizio come inservibile per costruire una teoria. Oltre a ciò l’esempio è una sorta di analogia, per cui deve spiegare un elemento, un rapporto meno noto attraverso un altro rapporto simile e più noto. Però, di fatto, sono due cose diverse, che non hanno niente a che fare tra loro. È un abuso, un artificio. Già parte con una petizione di principio, cioè che c’è un rapporto tra una cosa che considero e quell’altra. Cosa che non va affatto da sé.

Perelman dà delle indicazioni a questo riguardo perché l’analogia viene usata moltissimo per spiegare dei fatti, delle cose, dei rapporti. L’analogia dice che A:B = C:D. Si dà come già dato, come già acquisito, come evidente, autoevidente, che ci sia un rapporto tra i due. E chi l’ha detto? Perelman suggerisce, di fronte al tentativo di far valere l’analogia come prova, di far rilevare che tra i due rapporti non c’è nessuna relazione. D’altra parte, non può dimostrarsi nessuna relazione. È un modo per cavarsi d’impaccio non dicendo nulla rispetto a ciò di cui si parla ma dicendo un’altra cosa che si suppone di conoscere meglio.

Ecco, quindi, Popper non sa dire nulla intorno all’osservabilità, salvo fare un esempio. L’esempio non ci dice assolutamente niente.

“Ammetto che anche questo rende, in linea di principio, infinita la catena delle deduzioni, ma questa specie di regressio ad infinitum è innocua perché nella nostra teoria non si fa questione di tentar di trovare per suo mezzo una qualsiasi asserzione. E, infine, per quanto riguarda lo psicologismo, ammetto di nuovo che la decisione di accertare una asserzione base e di dichiararsene soddisfatti è casualmente connessa con le nostre esperienze, specialmente con le nostre esperienze percettive.[È, quindi, sempre la sua esperienza che è posta come criterio] Ma è altresì vero che non tentiamo di giustificare le asserzioni base per mezzo di queste esperienze. Le esperienze possono motivare una decisione e quindi l’accettazione o il rifiuto di un’asserzione, ma un’asserzione base non può essere giustificata da esse più di quanto non possa essere giustificata battendo il pungo sul tavolo.”

Ecco cosa dice rispetto alla questione empirica.

“Tutti credono che esse, le osservazioni empiriche, siano fondate su esperienze, quali le percezioni o, secondo il modo formale del discorso, su enunciati protocollari. Quasi tutti possono vedere che ogni tentativo di basare le asserzioni logiche su enunciati protocollari è un caso di psicologismo ma, abbastanza curiosamente, quando si arriva alle asserzioni empiriche lo stesso genere di cose passa oggi sotto il nome di fisicalismo. Tuttavia, sia che si mettano in questione asserzioni della logica, sia che si mettano in questione asserzioni della scienza empirica, io penso che la risposta sia la stessa. La nostra conoscenza, che può essere descritta vagamente come un sistema di disposizioni e che può interessare la psicologia, può essere collegata in entrambi i casi con sentimenti di credenza o di convinzione. Nell’un caso con la sensazione di essere costretti a pensare in un certo modo, nell’altro con quello di assicurazione percettiva. Ma tutto ciò interessa soltanto lo psicologo e non sfiora neppure problemi come quello delle connessioni logiche tra le asserzioni scientifiche che sono le sole a interessare l’epistemologo.”

Come non interessa se dice che si basa su questo? È curioso.

Vi leggo tutte queste cose che possono sembrare noiose, e in effetti lo sono, per dirvi da dove viene questa discussione se la psicanalisi sia scienza oppure no. Viene da qui, dalle cose che vi sto leggendo.

“A questo modo corretto del discorso, il modo formale del discorso, Carnap contrappone il modo del discorso ordinario (perché diceva prima che: “La logica della scienza deve investigare le forme del linguaggio scientifico e non parla di oggetti fisici”, cioè di parole. Quindi, occorre il modo corretto. Quale? si chiede.) Per evitare le confusioni si dovrebbe usare il modo materiale del discorso soltanto dove sia possibile tradurlo nel corretto modo formale del discorso.”

Ci sono tutte una serie di enunciati dati per acquisiti, per buoni, che non lo sono affatto, proprio per niente, al punto che, come quello emblematico di cui parlavo all’inizio rispetto alla verità, non c’è modo di fondare alcunché su questa teoria della falsificabilità. Lui dice che si avvale di un inferenza particolare, che è il modus tollens. Come dicevano gli antichi modus tollendo tollens : se A allora B, ma non B, dunque non A. Però, come avviene sempre in questi casi, ci si trova di fronte all’eventualità di paradossi insormontabili. Come in questo caso laddove (questi sono simboli al cui posto si possono mettere le formule che si vuole) basta sostituire alla T che le teorie scientifiche non sono falsificabili. Allora, ciò che segue da questa proposizione è che le teorie scientifiche sono falsificabili se non sono falsificabili.

Appena per dire che affidarsi a un criterio di deduzione, sia che sia il modus tollens o il modus ponens, muove sempre necessariamente da qualcosa che sia vero, sia, come dice Plotino, eterno, sia così, identico a sé, immutabile e immutevole.

Questa è l’unica garanzia che una dottrina come quella di Popper o altre fondate sulla verificabilità possano sostenersi. Mentre il discorso che andiamo facendo non necessità di alcun criterio di verità. Le cose che si dicono in una conversazione non sono né vere né false. O, se volete, sono vere in quanto si dicono, sono false in quanto incontrano letteralmente una caduta, un punto di caduta, per cui sono non tutte.

Ciò che l’itinerario analitico mette in gioco è che esista una realtà uguale per tutti. Le ipotesi servono per giungere a una tesi, cioè, a una posizione che poi, a sua volta, diventa ipotesi per altro. Tuttavia, già il fatto che la tesi poi si volga in ipotesi è curioso. Cosa avviene?

Avviene che dall’ipotesi si giunge alla tesi attraverso una serie di inferenze, evidentemente, o di prove o di verifiche, come dice Popper. Che cosa trova però lui? Trova che queste verifiche, se uno va a guardare bene, non verificano niente, proprio niente. Ci sono delle dimostrazioni dell’esistenza di dio che sono straordinarie. basti pensare a quella di Anselmo d’Aosta, per esempio. Già allora erano tutt’altro che sprovveduti, conoscevano molto bene la logica. Si possono leggere perché sono dimostrazioni sofisticatissime anche se, certamente, leggendosi prestano il fianco a delle obiezioni. Ma questo appena per dire che il postulato, in effetti, è postulato, cioè si pone come fatto. Il problema degli antichi era quello di dimostrare la verità del postulato, cioè di dio, perché era dio il postulato.

È una cosa che può sembrare banale ma se ci si riflette, gli umani è almeno da duemilacinquecento anni che si affannano intorno a questo. Oggi, certamente, moltissimi scienziati abbandonano, più o meno a malincuore, questa necessità di poter stabilire la verità di un criterio, di uno solo, qualunque sia, non importa quale. Non solo nel campo della fisica ma anche in quello della linguistica, della matematica, molti hanno abbandonato, dopo alcuni scossoni che sono avvenuti soprattutto a cavallo fra l’800 e il ‘900 per via di Gödel, di Cantor, per quanto riguarda la fondabilità della matematica o di altri per quanto riguarda la fondabilità della lingua, per esempio. E, quindi, cosa sorge a questo punto?

Non casualmente, sorgono le teorie dei giochi con Wittgenstein, con Hintikka, e cioè il trovarsi di fronte a un gioco assolutamente arbitrario, casuale. Da qui poi tutte le leggi del caos, di cui oggi alcuni si stanno occupando, cioè trovare anche nel caos qualcosa che ricorra, che ricorra per poterlo riprodurre, in definitiva. È un altro modo con cui risorge una fantasia antica, più o meno spenta dopo la crisi dei fondamenti del primo ‘900, cioè l’idea di poter trovare una legge che governa. Se c’è una legge che governa vuol dire che, allora, c’è qualcosa che può governarsi e, quindi, qualcosa che è sottoponibile a delle leggi e, pertanto, è immobile. E torniamo così al motore immoto. Gli assiomi vengono inventati in base a una dimostrazione che vuole farsi. È sufficiente che siano tautologie, basta questo. Gli assiomi sono indimostrabili perché sono tautologie.

Non tutti vengono inventati, ogni volta ce ne sono moltissimi già pronti. Però, in alcuni casi avviene che vengano inventati degli assiomi, che non esistono nel tabellari fornito, perché servono per una dimostrazione.

Si può anche inventare una logica e la si inventa inventando degli assiomi, i quali occorre che rispondano a un unico criterio perché questo gioco sia giocabile.

Questi assiomi che si inventano è sufficiente che siano tautologie, che cioè siano sempre veri. Qualunque sia la loro composizione non ha alcuna importanza. Può inventarsi un assioma che abbia una struttura tale per cui, in base alle tavole di verità elaborate da Wittgenstein, risulti una tautologia, cioè, qualunque sia il valore di verità che si attribuisce alle variabili, è sempre vero. Questo poi lo si utilizza lungo le inferenze. Chiaramente, occorre che queste inferenze sia fatte in un certo modo, i criteri li dà il calcolo proposizionale. Però gli assiomi possono inventarsi, quanti se ne vuole, finché sono tautologie. Non dicono nulla propriamente, ma consentono soltanto di giocare con delle composizioni e delle scomposizioni.

Assioma e postulato sono spesso usati come sinonimi. Tuttavia, non lo sono propriamente.

Assioma è, con Vico, la dignità, la degnità come diceva lui. Ciò che è degno.

Il postulato è ciò che è posto con una decisione, con un gesto arbitrario.

Negli Scritti giuridici Vico parla degli assiomi come degnità, vale a dire, come le cose più degne di essere accolte, più degne di essere dette, più degne di essere considerate.

Il postulato è qualcosa che viene dato, immobile, identico a sé, qualcosa che deve essere creduto di per sé, richiede un atto di fede o di evidenza.

L’assioma è, invece, qualcosa che si ritiene degno, che si pone come base, come fondamento di un proprio discorso e, in alcuni casi, anche della propria esistenza. Ma, laddove questo elemento viene posto come base immutabile e identica a sé della propria esistenza, potremmo parlare di postulato. Uno può avere postulati senza saperlo però ci si attiene con uno scrupolo straordinario. Occorre che questi postulati giungano a essere delle degnità, degli assiomi, cioè, delle affermazioni degne di essere dette e quindi di essere esposte al discorso.

Prima facevo un esempio, a proposito di Popper e del concetto di verità che lui introduce a un certo punto. Dicevo che questa nozione di verità che lui dà come possibile ma che, tuttavia, è un criterio universale, è una questione su cui scivola via, su cui taglia corto. Potremmo dire che qui è un postulato. Come potrebbe diventare un assioma, una dignità? Immaginiamo che questo postulato possa essere per qualcuno una sua superstizione, una credenza, una qualunque cosa, su cui costruisce la propria esistenza e che, quindi, non deve mai essere messo in discussione, mai essere toccato, mai essere messo in gioco. Anzi, combatterà contro chiunque avrà l’ardire di mettere in gioco, di mettere in discussione questo postulato. Perché mettere in gioco questo postulato varrebbe a mettere in gioco la sua stessa esistenza che è, appunto, costruita su questo postulato. Invece, lungo l’itinerario analitico questo postulato viene messo in discussione, cioè, se ne può parlare e si può, soprattutto, ascoltare ciò che dice perché, invece, tacendolo, mantenendolo come postulato, come ineffabile, non si dice mai, non dice nulla, resta lì. È chiaro che, perché una qualunque cosa possa pensarsi immutabile, eterna, identica a sé sempre, occorre che non si dica mai. Se si dice si mette già in discussione, entra già in un gioco linguistico.

Ci sono delle occasioni in cui ciascuno di voi ha l’opportunità di incontrare questi postulati. Parlate con qualcuno e magari dite “Di questo non voglio neanche sentire parlare!”. C’è qualcosa in questo che funziona come postulato, che deve rimanere, che non deve muoversi per nessun motivo, che non deve toccarsi, deve rimanere intoccabile e ineffabile.

L’itinerario analitico, invece, incomincia a metterlo in gioco. Mette in discussione il tabù da contatto per cui non si può toccare nulla. Le cose non si toccano certamente, ma non perché non si possa, non perché c’è un divieto. Le cose non si toccano perché si dicono e dicendosi si alterano. Risultano inafferrabili, imprendibili, non sono toccabili. Ma, come dicevo, non per un divieto, come può pensarsi.

Allora, volgere il postulato in assioma, potremmo dire è ciò che, a modo suo, ha incominciato a fare Freud. Già dai primi scritti intorno all’isteria, dove rileva che c’è un certo sintomo che una fanciulla, per esempio, esibisce e che è tale e si ripete perché deve fare salvo un postulato. Freud qua e là reperisce questi postulati e li volge in assiomi, cioè in elementi degni di essere detti e ascoltati e, quindi, elaborati, dunque, intesi. Il postulato non può essere elaborato, non può essere inteso. È dato come la forma più terroristica, cioè, quella della evidenza dei fatti.

Che è poi l’aspetto giudiziario, anche se per il diritto il “fatto” in quanto tale viene costruito nel tribunale. L’evidenza dei fatti è la realtà uguale per tutti, come la legge uguale per tutti, cioè, la legge che inaugura il suddito, che è sottoposto a questa legge.

Il criterio che sostiene Popper, dicendo che la verità è irraggiungibile ma esiste, pone questa come ineffabile, come indicibile, come dio, che deve essere uguale per tutti. Solo su questo può fondarsi. Infatti, ci sono qua e là dei richiami al fatto che una persona sana di mente, ben raziocinante, deve concludere così. Cioè, conclude così chiunque accoglie la nozione di verità che lui immagina, una verità e una realtà uguale per tutti. È un criterio terroristico perché chiaramente obbliga chiunque all’osservanza: tutti possono osservare e occorre che si attengano a ciò che osservano. Chi osserva male è punibile. Non è del tutto azzardato dire che la nozione di punibilità procede da questo, cioè, da un concetto di realtà uguale per tutti.

L’agnosticismo dice che non si può localizzare dio, non si può descriverlo, non si può sapere di lui. Questo dicevamo gli agnostici, da cui è partita poi una buona parte della teologia negativa, da Dionigi Aeropagita in poi, tutto ciò che dio non è. Poi, soprattutto con la scolastica si è cercato di definire che cosa fosse, anche perché qualcuno cominciava a chiederlo: non è questo, non è quest’altro, ma allora che cos’è? Ecco, allora, questi sforzi immensi, si pensi alla Summa di Tommaso, per dimostrare la verità del postulato, che era dio.

Muovere dalla verità come causa è muovere da un elemento che deve essere identico a sé, necessariamente. Deve essere immobile e, quindi, deve partire da una nozione di eternità che, come ci illustrava Plotino, è partire dal concetto di dio.

A proposito della mala fede a cui accennavo citando un passo di Popper, Feyerabend ne dice delle belle. Lui ha avuto delle testimonianze nella sua vicenda e si riferiva ai dati statistici che veniva fatti con criteri scientifici o meglio venivano forniti come se fossero dei criteri scientifici. Beh, lui sapeva perfettamente, anche perché aveva a che fare con questi personaggi, che, nella migliore delle ipotesi, i risultati di questi tests o di queste statistiche erano falsati. Nella migliore delle ipotesi, nella peggiore erano inventati di sana pianta. Ma questa è una prassi che si fa con una certa frequenza. Una persona che conosco mi raccontava come vengono fatte delle pubblicazioni scientifiche e mediche, delle statistiche, ecc.

Si fa così. Cos’è che mi serve dire in questo momento? Questo, per vari motivi che possono essere esigenze di business farmacologico o mille altri motivi. Allora, faccio fare delle ricerche che generalmente sono gli studenti a fare. Le ricerche sono magari attente, precise, scrupolose, ma solitamente si prendono solo quelle che interessano oppure si distorcono i risultati e gli si fa dire quello che si vuole. Questa è una prassi abbastanza diffusa.

Ecco perché fa sorridere quando si legge che qualcosa è “provato scientificamente”. In alcuni casi è quasi comico.

Ma immaginiamo che ci sia questo scienziato che sia assolutamente rigoroso. Cosa fa lui? Fa una ricerca, evidentemente. E seguirà un criterio nel modo più preciso possibile e, allora, o questo criterio lo inventa mano a mano oppure ne adotta uno inventato da lui o da altri. Sia come sia, se lo inventa lui questo criterio, non è esente dalla sua storia, non è esente da una serie di questioni che lo riguardano e che lo condurranno a un risultato che forse era già previsto da lui in qualche modo. Se, invece, questo criterio è stato inventato da altri, sta sempre a lui il modo con cui mette in atto questo criterio.

Ciò su cui è possibile discutere è il criterio, è qualunque criterio, qualunque metodo, qualunque via che si percorra.

Il metodo come sintomo. Non il sintomatico, cioè la rappresentazione del sintomo, con i vari tic e i vari acciacchi. Il sintomo, cioè, come strutturale, l’impossibilità di dire le cose. Il sintomo come l’impossibilità di dire le cose perché le cose si dicono parlando. Non c’è una facoltà tale per cui io possa dire ciò che voglio dire. Ecco, dunque, il sintomo è la via che inaugura questa impossibilità che si incontra in ciascun istante, in ciascuna parola. Ecco il metodo, perché abbiamo visto che ciascun criterio, ciascun metodo che si avvale di una verità come causa deve necessariamente postulare dio. Però, noi non siamo tenuti a postularlo necessariamente. Possiamo non farlo. Pertanto, seguire un altro metodo, che cioè non c’è una verità come causa.

La mala fede, generalmente, è la supposizione di mentire sapendo di mentire. Ora, qui c’è già una supposizione, che è quella di mentire, cioè, una menzogna sulla menzogna. La menzogna è del significante.

La mala fede è un’idea di padronanza sulla parola, cioè, l’idea di poter mentire, o di poter dire la verità, che sono la stessa cosa, e quindi di controllare la parola.