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Sandro Degasperi

 

Clinica psicanalitica

 

10 aprile 2003

 

Libreria LegoLibri – Torino

 

Della nostra associazione fanno parte diverse persone che hanno avuto una formazione come psicanalisti. Nel 1992 abbiamo costituito questa associazione Scienza della Parola non solo come un momento di incontro e di confronto ma anche come occasione per proseguire in un modo differente una elaborazione teorica rispetto alla psicanalisi. Lungo il nostro percorso ci siamo trovati ad un certo punto a elaborare una teoria del linguaggio che è sfociata in alcuni testi del dott. Faioni e che potete trovare pubblicati su Internet. In questo ultimo anno, considerato che questa teoria del linguaggio ci ha offerto nuove premesse da cui partire, il nostro lavoro è stato caratterizzato da una riflessione intorno alla costruzione di una teoria psicanalitica sulla base delle considerazioni alle quali la teoria del linguaggio da noi costruita ci aveva consentito di fare.

Clinica psicanalitica, quindi. Entriamo pertanto nel merito della psicanalisi. Il termine clinica richiama molte cose, può essere la clinica come luogo di contenzione, la clinica psichiatrica, può essere l’ospedale, dove le persone che vi vengono ricoverate vengono, come si dice, tenute in osservazione, in osservazione per controllare per esempio il decorso di una malattia o le reazioni del soggetto a una terapia, ecc.

Il termine clinica psicanalitica interviene in un’accezione molto differente. Si può anche giocare un po’ con l’etimo, clinica viene dal termine greco klinein, piega o letto, a seconda di come lo si vuole intendere. Verdiglione giocava molto con questo termine, intendendo la clinica come la piega del discorso, quindi, il discorso che prende una piega, l’articolazione di ciò che si situa tra le pieghe del discorso. La clinica si occupa, come è noto, della questione del disagio. A mio avviso il termine clinica è abbastanza improprio perché la psicanalisi si occupa sì del disagio ma non è questo ciò che la muove. È il luogo comune intorno alla psicanalisi a pensare che la psicanalisi si occupi esclusivamente del disagio psichico. Se anche dal disagio psichico Freud ha preso le mosse per inventare la psicanalisi, lungo il suo itinerario si era trovato a considerare che la psicanalisi non era solo un modo per curare ma più specificatamente un modo per reinventare un modo di pensare. In effetti, negli ultimi anni della sua vita non riceveva più, non “curava” più, non lo interessava più “curare”, ma si occupava esclusivamente della formazione di analisti. Successivamente, invece, la psicanalisi è stata monopolizzata non tanto dalla medicina in quanto tale ma da un’ideologia medica, con tutte le nefande conseguenze che ci sono state. Già quando era ancora in vita Freud aveva messo in guardia da questo pericolo, soprattutto per via della psicanalisi americana che tendeva a rinchiudere la psicanalisi in una sorta di corporazione. Freud scrisse alcuni saggi molto importanti, tra questi L’analisi condotta da non medici, un saggio che non viene molto letto ma nel quale si trovano tutti i termini per intendere chi è l’analista, cosa fa un analista, cosa occorre che sappia, e lui diceva proprio questo, e cioè che i medici erano le persone meno indicate a praticare come psicanalisti perché troppo preoccupate di trovare un rimedio al cosiddetto disagio al punto che si impediscono di ascoltare ciò che la persona sta dicendo.

Dicevamo della clinica, dell’ospedale, dove qualcuno viene tenuto in osservazione. La clinica psicanalitica non è una clinica dell’osservazione, della visione, ma è una clinica dell’ascolto. Cosa ascolta un analista? Ascolta un discorso, come sapete l’analisi inizia con un racconto, ma questo ascolto non è semplicemente uno stare a sentire, l’analista coglie nel discorso ciò che interroga, ciò che fa questione, ciò che insiste nel discorso. Generalmente una persona, proprio per via di come la psicanalisi è stata in qualche modo vincolata a questa ideologia medica, si rivolge a un analista per lo più quando avverte un disagio. Non è sempre così, ovviamente accade che si possa fare una domanda di analisi per una curiosità intellettuale ma questo è più raro. Nella vulgata la psicanalisi si occupa di questo disagio.

Che cos’è il disagio? Una persona avverte un disagio quando si trova in una sorta di incapacità o di impossibilità di rispondere a ciò che lo interroga, un’incapacità che può enunciarsi come il non riuscire a trovare delle soluzioni, delle risposte adeguate a ciò che lo interroga.

Definire il disagio in questo modo sovverte quello che è un comune modo di pensare e cioè che il disagio sia una malattia.

Un paio di mesi c’è stato qui a Torino un convegno di psicopatologia, un evento che ha avuto un certo rilievo sui giornali. Tra le varie cose emerse in queste convegno c’era questo, si diceva che il 90% della popolazione è soggetta a depressione. C’è del terrorismo in tutto ciò perché inquadra la questione della depressione nei termini della malattia, del male, del male del secolo, come molti usano definire la depressione. Ora, immaginate una persona che non sappia nulla o ben poco di queste cose, legge questi articoli e spaventato può pensare che da un momento all’altro potrebbe capitare anche a lui, visto e considerato che il 90% della popolazione è soggetta a questo pericolo, di trovarsi improvvisamente depresso, come se si trattasse di un virus, il virus della depressione. Chi non ha molti elementi per articolare la questione può in effetti, di fronte a un modo così terrorista, incontrare un certo smarrimento.

Il ridurre il disagio a una malattia è lo scoglio più importante che la psicanalisi si trova a dover superare, perché questo è il luogo comune più accreditato, nel senso che viene accolto come una verità. Questo ha anche un connotato anche politico, perché questi proclami a persuadere che ciascuno è minacciato, è soggetto al pericolo, per esempio di potersi ammalare di depressione o di qualunque altra cosa. Politico nel senso che se ciascuno è in pericolo allora occorre che ci sia qualcosa o qualcuno che lo possa tutelare, assistere, garantire, per esempio lo stato. Che lo faccia o no questo è un altro discorso, tuttavia funziona come modo perché il cittadino si senta minacciato e quindi senta il bisogno di essere protetto. Si pensi alla questione del terrorismo: “il terrorismo è ovunque e quindi occorre intervenire per il bene dell’umanità, del popolo, del cittadino”. Questa guerra è stata fatta per il bene dell’Iraq. Non è di questa guerra che volevo parlare ma far notare che come si fa una guerra contro l’Iraq così può fare una guerra contro la depressione. E quindi, si fa come in America, dove centinaia di migliaia di ragazzi nelle scuole vengono curati con gli psicofarmaci perché troppo… vivaci. È lo stato che interviene e interviene per il cittadino, per il suo bene.

Che cos’è dunque il disagio? Dicevo prima che il disagio è una sorta di incapacità di rispondere a delle domande che interrogano. Per Freud la nevrosi non era niente altro che un modo di rispondere, un modo che poteva risultare inadeguato, ovviamente, ma era comunque un modo per rispondere, una sorta di compromesso, lui lo chiamava un male minore rispetto a un male maggiore. Questo cambia la prospettiva con cui affrontare la questione del disagio. L’ideologia medica che cosa fa? Individua il male, ne cerca il rimedio e attraverso questo elimina il male. Questo, per esempio, è stato il modo con cui la psicanalisi dopo Freud ha affrontato la questione, il modo che voi tutti conoscete, immaginando ciascuna volta di reperire la causa che ha provocato un determinato effetto di malessere. Intorno ai vari metodi di reperire queste cause sono nate le diverse teorie, c’è chi pensa che un certo fenomeno sia causato da una certa cosa, chi da un’altra, ecc. In questi anni le abbiamo vagliate tutte queste teorie e abbiamo reperito una cosa e cioè che non si fondano su nulla, non si fondano assolutamente su nulla perché ciò che ciascuna volta hanno elaborato partiva da alcune premesse che sono assolutamente indimostrabili. Come dire che si accolgono determinate premesse e attraverso dei passaggi, delle argomentazioni, dei ragionamenti, giunge a delle conclusioni che non sono niente altro che la risposta alla domanda “da dove viene quel determinato disagio?”. Ciò che ci siamo trovati a fare è stato questo, interrogare le premesse, vale a dire ci siamo chiesti: ciascuna teoria da dove parte, qual è la premessa, l’assioma? Ci siamo accorti che potevamo fare un’interrogazione dietro l’altra, continuare a domandare all’infinito. Accade questo, in effetti, e se ne era accorto soprattutto Tommaso d’Aquino: se giungo alla conclusione che un determinato fenomeno è causato da una certa cosa, occorre che io dia per scontato tutta una serie di elementi che sono quelli che mi fanno riconoscere che quella causa che io ho individuato sia vera. Ma questi elementi che vengono dati per scontati, a loro volta possono essere messi in discussione, interrogati. Ciascuno di questi elementi, una volta interrogato, rinvierà ad altri elementi che a loro volta apriranno ad altre interrogazioni, ecc. ecc. Ci troviamo di fronte a una sorta di regressio ad infinitum. La questione è forse un’altra: è necessario reperire una causa? In effetti, questo modo di procedere sembra scontato, l’unico praticabile, se questo è un effetto allora esiste una causa che lo determina,  e questo è il modo di pensare occidentale, ma come dicevo prima ciò che viene dato per scontato occorre che sia degno di essere interrogato. La questione causa-effetto noi la accogliamo ma è così? Potrebbe essere, per esempio, che sia semplicemente una procedura grammaticale, come dire che posso parlare di un dopo solo se c’è un prima, quindi una sorta di costruzione linguistica.

Dico questo perché la questione della psicanalisi è quella di porre in termini molto radicali la questione del disagio non più nei termini di una malattia ma in termini di costruzione linguistica. Mi spiego. Abbiamo detto che cos’è un disagio, abbiamo detto che è un’incapacità di rispondere, un’incapacità di trovare delle soluzioni a dei problemi, e dicevamo insieme a Freud che è un compromesso. Freud chiamava il sintomo una formazione di compromesso, un modo anche se inadeguato di rispondere a delle domande. Ci troviamo di fronte a una struttura che è quella del linguaggio. Stiamo in effetti parlando di domande, di risposte, di strutture linguistiche, stiamo parlando di quello che gli umani fanno continuamente, si fanno domande e trovano risposte, si creano problemi e trovano soluzioni. Perché fanno questo? È il linguaggio che li costringe a fare questo, è il linguaggio che costringe, laddove interviene una domanda, a reperire una risposta. La questione si sposta allora sulla domanda. Il linguaggio è una struttura inferenziale, l’inferenza è una procedura del linguaggio, il “se A allora B”. Pensate al disagio, cosa dice il disagio? Se una certa cosa allora soffro, se la persona che amo mi lascia soffrirò, se vengo licenziato allora sarà la fine, ecc. Vale a dire, parte da un antecedente, se A, e giunge a un conseguente, allora B. Quando parlavamo di curare la malattia, di togliere il male, ci si riferiva a questo, a togliere B, l’allora soffro, l’allora mi va tutto male, l’allora è una catastrofe, ecc. Invece no, non si tratta di togliere B ma si tratta di interrogare A. L’attenzione è tutta rivolta a B, alla sofferenza, al disagio, in quanto A è dato come scontato, è assunto come il dato reale, come il dato di fatto, come se esistesse di per sé, mentre invece il disagio non è altro che la conclusione di un’inferenza. Quello che fa uno psicanalista non è altro che interrogare A, l’antecedente, l’apodosi. Questo elemento il più delle volte non si enuncia, non si dice, ma perché non si dice? Non si dice proprio perché è talmente ovvio, scontato, naturale, che non ha bisogno di essere ripetuto ciascuna volta. Lungo un’analisi si reperiscono questi elementi, queste premesse, le può dire anche la persona che sta parlando, come quando racconta la sua storia, inizia da qualcosa, da un fatto, da un evento, da un pensiero, la sua storia inizia sempre da qualcosa. La questione è che questo punto di partenza è un elemento che è considerato reale, assolutamente indiscutibile. L’analista invece rimette in gioco questo elemento incominciando a interrogarlo e costringendo in questo modo la persona che sta parlando a far intervenire altre cose, altri elementi, dettagli, per cui quell’elemento, considerato certo, assolutamente inamovibile perché preso come un dato di fatto, incomincia a mostrare aspetti di cui prima per esempio non si teneva conto, che magari erano stati dimenticati o addirittura evitati, per cui questo dato di fatto incomincia a essere percepito come non più isolato da tutto il resto ma incomincia a giocarsi. Questo comporta che questo elemento può entrare nel discorso di chi sta parlando, può essere rimesso nel gioco linguistico e in questo modo può giocare un ruolo differente nella storia. È un po’ come se questo elemento fosse stato caricato di un significato ma solo di “quel” significato, come se avesse un unico significato. Ora, se quell’elemento aveva quell’unico significato è evidente che ciò che ne conseguiva poteva tenere conto solo di questo significato. Metterlo in gioco comporta invece che possa avere all’interno del discorso un altro utilizzo. Quando si parla di significato si intende proprio questo, come entra nel discorso,  che ruolo ha nel discorso, quale funzione ha rispetto al contesto, al gioco. Variato l’utilizzo si modifica il gioco, il gioco non è più lo stesso, non è più quello di prima. Utilizzando un termine, un elemento, comporta che il discorso proceda lungo un senso, lungo una direzione, e nel momento in cui varia l’utilizzo di un elemento varia la direzione, per cui l‘effetto non sarà più il medesimo. Si può dire, certo, se A allora B, ma allo stesso tempo si può dire “se A allora C, allora D, ecc.”. Come dire che l’implicazione che questo elemento comporta nel momento in cui è caricato di un unico significato può essere solo quest’altro elemento B, nel caso in cui posso variare il suo utilizzo le implicazioni possono invece essere infinite. È su questo che punta l’intervento dell’analista, nel porre le condizioni perché si possa modificare il gioco, in prima istanza modificando le premesse, per esempio mostrando che un qualunque elemento è stato assunto con un determinato significato credendolo vero ma che vero non era. Non perché anziché vero fosse falso, non si tratta di questo, in effetti è senz’altro vero all’interno del suo discorso, vero in base alle regole del gioco linguistico in cui si trova, ma la persona che parla non lo ritiene vero rispetto al suo gioco ma lo ritiene vero in senso assoluto, lo ritiene assolutamente necessario. Nel momento in cui si accorge che questo elemento è semplicemente creduto vero e che non è assolutamente necessario, ecco che a questo punto le cose possono modificarsi, modificarsi anche nei termini di una responsabilità. Se qualcosa è ritenuto vero, se viene assunto come vero, come reale, nel senso che è così e tanto basta, io sto in qualche modo dichiarandomi non responsabile di quello che penso, come dire, “se le cose sono così io posso pensarle solo così e non altrimenti”. Differente invece se questo elemento è stato assunto come vero per via di una decisione, perché mi andava bene così, perché mi piaceva o perché magari sono stato addestrato a pensare in quel modo. A questo punto posso accogliere una responsabilità incominciando a pensare che tutto ciò che mi trovo a dire, a pensare, a immaginare, qualunque cosa faccia, posso considerare tutto questo come qualcosa di cui sono assolutamente responsabile. Responsabile non in senso morale ma nel senso che posso incominciare a pensare che questa storia che sto raccontando non è qualcosa fuori dal mio discorso e che mi si impone ma che è qualcosa che io ho costruito e che se ho costruito avevo dei buoni motivi per averlo fatto. Ovviamente, un’analisi indagherà anche intorno a questi motivi, indagherà cercando di intendere i vantaggi, il tornaconto di tutto ciò. Freud parlava del tornaconto secondario, del bisogno della malattia, come dire che il disagio ha una sua funzione, cioè serve a qualcosa. A cosa serve essenzialmente? In prima istanza, serve ad evitare alcuni pensieri, pensieri che sono intollerabili e di cui non si vuole assolutamente sapere. Il disagio ha un grande vantaggio perché occupa la persona in altre cose, è una sorta di distrazione, la persona si distrae perché ha qualche cosa da risolvere, di cui preoccuparsi, a cui pensare. Si trova in questo modo lontano dalla possibilità di pensare ad alcune cose che ritiene inammissibili, intollerabili. Il più delle volte crearsi dei problemi ha questa funzione, vale a dire l’avere qualcosa a cui pensare, di cui occuparsi, come il trovarsi nella necessità, proprio per evitare qualche scomodo pensiero di cui non si vuole sapere. L’analisi è invece il momento in cui c’è l’occasione di confrontarsi con ciò di cui non si vuole sapere.

Si tratta di giungere alla possibilità di non avere più paura dei propri pensieri.

Si può giungere perfino a uccidersi pur di evitare alcuni pensieri, o con una rivoltella o con una malattia, non è molto differente.

Intervento: può fare qualche esempio rispetto a questi pensieri insopportabili…

Ci sono possibilità, varianti infinite. Le posso raccontare brevemente il caso di una persona che si è rivolta a me. Questa persona si trovava da diversi anni a dover affrontare tutta una serie di guai economici e la cosa era diventata ormai per lui insopportabile, la situazione era complicata, sempre più difficile. Ovviamente, l’analisi è iniziata con la richiesta di rimediare a questa situazione. È evidente che un’analisi di per sé non rimedia ai guai economici, tuttavia sono state elaborate moltissime questioni perché i cosiddetti guai economici erano solo il pretesto per avviare un’elaborazione. Dopo diverso tempo, un paio d’anni, le cose erano notevolmente migliorate. Lui era contento di questo, diceva che le cose adesso sì che vanno bene, sono felice, ecc. A un certo punto, ha iniziato a non dormire più la notte, ad accusare disturbi vari, e spaventato da questi disturbi si sottopone a visite mediche, analisi, i medici non trovavano assolutamente nulla. Potrei dilungarmi con altri dettagli ma non è necessario. In una qualunque psicoterapia, nel momento in cui la persona diceva di sé di stare bene, che era contento di aver risolto molte difficoltà, lo psicoterapeuta lo avrebbe licenziato pensando di aver raggiunto il risultato che la psicoterapia si era prefissata e si sarebbero salutati. Perché? Perché lo scopo di questa psicoterapia era semplicemente quello di eliminare il problema, vale a dire i guai economici e tutto ciò che ne conseguiva. L’analista invece sa che quei guai economici erano un rimedio, che erano ciò che faceva “star bene” questa persona. Infatti, nel momento stesso in cui questi problemi economici vengono meno, questa persona ha trovato altro per stare male. È stata un’occasione fortunata che questa persona non abbia interrotto l’analisi perché questo le ha consentito di accorgersi di come questi malanni, malesseri, ecc., erano in qualche modo pilotati. Tutta questa seconda fase ruotava intorno alla questione della morte, era spaventato dall’idea di poter morire, e l’analisi era iniziata proprio con il racconto intorno alla morte del padre. Questa questione della morte, che in qualche modo lo interrogava, era stata accantonata, evitata, taciuta dai suoi guai perché, come dicevamo prima, erano l’occasione per avere altro a cui pensare. Eliminati questi guai la questione è ritornata e ovviamente è stato costretto a doversi confrontare con questa al punto che potremmo dire che l’analisi iniziò proprio lì, perché prima l’analisi, come direbbe Freud, aveva eliminato solo alcune resistenze.

Intervento di Luciano Faioni

Questa questione della funzionalità del sintomo è interessante perché solo con un’analisi può mostrarsi in qualche modo. La questione della causa, hai indicato la causa come una procedura grammaticale, noi parliamo del prima che non può esistere senza il dopo, non è una questione metafisica per cui si elucubrano  le cose più strane. Comunque, il disagio che si costruisce è funzionale alle premesse e alle regole di un discorso. Questo è importantissimo per intendere come le persone, che non possono elaborare il proprio discorso, a cacciarsi continuamente nei guai, perché non è tanto l’intendere come si è costruito qualche cosa ma intendere come si continua a costruire, a portare avanti un certo discorso e a costruire delle proposizioni che vengono utilizzate in un solo senso. Se queste proposizioni potessero essere immesse nel gioco linguistico, come avviene in un’analisi, ci si accorgerebbe di quanti altri sensi, cioè di quante altre direzioni possono intervenire, di come potrebbe mutare il discorso, per cui ci si potrebbe rendere conto che sono io l’artefice del mio discorso.

In effetti, il caso clinico non è altro che l’analisi di un discorso, non è altro, non è una rassegna di patologie, è il modo con cui ci si accorge del funzionamento di un discorso, quali regole utilizza, quali sono le premesse da cui parte, perché quelle premesse, assunte come vere, come certe, producono determinate conclusioni, che in alcuni casi possono non essere piacevoli. Modificare il proprio modo di pensare comporta il modificare le premesse, non ritenerle più necessarie, solo questo. È esattamente ciò che ciascuno evita accuratamente di fare, di solito ci si scanna nello spazio semantico delle conclusioni, come se ciò che importa fossero le conclusioni. Non è questo il punto, il punto è rispetto a un discorso il reperire le condizioni, i fondamenti di un discorso, vale a dire le cose che vengono assunte come vere e da cui si parte per costruire qualunque cosa. Ciascuno “è” in funzione delle cose che per lui sono vere, vale a dire le cose che sa, che dice di sapere proprio perché le ritiene vere.

Intervento di Luciano Faioni

La portata della psicanalisi è qualcosa che è totalmente differente da qualunque altra teoria in generale. Sandro giustamente poneva l’accento sul linguaggio, ciò che fa questo modo di pensare, questa psicanalisi di cui stiamo parlando, è insegnare a giocare con il linguaggio, vale a dire conoscere, sapere e non potere non sapere come funziona. Questione non marginale dal momento che tutte le storie che una persona costruisce, tra le quali il malessere, la sofferenza, il disagio, sono costruite dal linguaggio. Naturalmente, intendiamo qui con linguaggio non il dire qualche cosa ma come una struttura, quella struttura che per esempio consente agli umani di dirsi tali, come dire che questa struttura consente la costruzione di proposizioni, quindi consente la costruzione di storie, queste storie possono brutte storie per esempio. Ma resta il fatto che conoscendo, sapendo come funziona il linguaggio, e sapendo giocare questo gioco, in effetti è possibile sapere giocare quella cosa che è la condizione per qualunque altra. Qui sta la differenza tra la psicanalisi, come l’ha proposta Sandro, e qualunque altra, insegnando a giocare con il linguaggio esclude la possibilità di essere giocati dal linguaggio, cioè continuare a raccontare storie, a costruire scene, sensazioni, senza sapere assolutamente nulla di ciò che le sta producendo e che ne è invece la condizione, senza la quale condizione tutto ciò non sarebbe mai esistito. Questa è una questione importante per cui o si sa giocare con il linguaggio oppure se ne è giocati e continuare a pensare in modo ingenuo, vale a dire a cercare le cause là dove non sarà mai possibile trovarle, in nessun modo. È da tremila anni che gli umani le cercano ma cercandole fuori da questa struttura che ne è la condizione non potranno mai essere trovate, con questo intendo l’essere giocati dal linguaggio, per saperlo giocare occorre sapere come funziona.

Bene, si è fatto molto tardi e quindi vi ringrazio, buona notte.