Torino, 10 marzo 2009
Libreria Legolibri
PSICANALISI CLINICA
Eleonora Degasperi
LA NEVROSI OSSESSIVA
La nevrosi ossessiva è un termine che è stato introdotto da Freud per delineare le fissazioni del carattere di una persona ossessiva.
Le fissazioni di un ossessivo si concentrano soprattutto sulle sue paure nel senso che ogni suo comportamento è sempre dettato dal dubbio di fare non fare la cosa giusta.
Come si presenta una persona ossessiva? È una persona che non si espone mai, che non vuole mettersi in mostra, è un carattere remissivo che nella maggior parte delle volte non cerca mai di imporre la sua idea, ma che sembra accondiscendere a quella degli altri. Infatti difficilmente si pone direttamente con il suo interlocutore, teme lo scontro diretto; cerca sempre di sottrarsi dagli sguardi degli altri, non è una persona a cui piace parlare in pubblico e spesso entra in panico quando improvvisamente cade il silenzio, quando inizia a parlare, per esempio durante un dibattito; il silenzio lo mette a disagio; pone lui al centro della scena, ma senza che lui lo voglia. L’idea di essere osservato e giudicato lo spaventa, lo spaventa l’idea di essere sottoposto a giudizio perché immagina sempre che sia negativo. Quindi è sempre tentato di nascondersi, preoccupato di quello che potrebbe succedere, dall’idea di non sapere cosa dire e di dire la cosa sbagliata. Questa paura, poi, si rispecchia anche nei suoi pensieri, nei suoi desideri, infatti è lui stesso che non è convinto di quello che pensa, nel senso che si sente sempre minacciato da qualcosa che potrebbe smontare le sue convinzioni; si vergogna di mettersi troppo in mostra perché sa che non farebbe una bella figura. Infatti, non compiendo mai la prima mossa e non osando mai, nessuno potrebbe giudicarlo o criticarlo. Al massimo reagisce agli eventi esterni, nel senso che segue l’andamento delle cose, non si attiva per cambiarle o determinarle, non è molto coraggioso; questa sua unica certezza lo convince di essere inadatto e non abbastanza capace per dare, per così dire, un tocco personale agli avvenimenti. La sua convinzione più radicale è quella di non essere all’altezza delle aspettative degli altri e questo lo blocca ogni qualvolta vorrebbe agire, ogni volta che vorrebbe mostrarsi ed esporsi. Non mostrando mai molto di sé, per gli altri diventa quindi difficile conoscerlo e capire come e cosa pensa; ed è proprio questo che vuole, tenersi nascosto, vuole evitare che gli altri conoscano i suoi punti deboli. Essendo un carattere soprattutto sottomesso, ha la tendenza a crearsi sempre una maschera essendo sempre socievole, aperto, gentile, estroverso, divertente. Per coprire il suo lato debole, le sue paure, i suoi dubbi.
Perché si comporta così? Dopo avere constatato che è un carattere chiuso e remissivo, si deve capire cosa muove questo tipo atteggiamento. Bisogna prendere in considerazione il discorso dell’ossessivo, non tanto il comportamento, perché quello è solo una conseguenza. Pensiamo a come si modella un discorso, prima di tutto. Il discorso si struttura sulla base di un modello, si sviluppa sulla base di un’immagine o scena modello che diventerà parametro di tutte le costruzioni successive. Ogni tipo di discorso si genera a partire da una verità, che viene identificata in quell’immagine o quella scena che ha rappresentato l’emozione più forte, più travolgente che si sia provata. E questo modello viene creato quando si è piccoli, e lo si accoglie come vero proprio perché non se ne hanno molti con cui confrontarlo. Si deve pensare al lavoro del bambino come un continuo memorizzare e accogliere scene, insegnamenti, concetti, che sono quelli che lo faranno crescere, che gli permetteranno di valutare altri concetti e principi. Il perché del fatto che questa verità venga nascosta dalla persona ossessiva, lo si intende prendendo in esame il primo effetto che è scaturito mentre la si mostrava. È molto probabile che al momento in cui è stata resa pubblica per la prima volta, la persona abbia subito un attacco, come per esempio una derisione, e abbia provato un senso di umiliazione e di inadeguatezza. E come prima emozione forte la si è ricordata e la si è accolta come conseguenza ovvia.
Il fatto stesso che si mantenga nascosta una cosa comporta allo stesso tempo che una cosa deve essere mantenuta segreta. E questo avviene se c’è una cosa di cui ci si vergogna. Ed è per questa vergogna, infatti, che l’ossessivo non si mostra e non si espone mai. Ha paura che gli altri possano venire a conoscenza del suo segreto. Esponendosi in maniera troppo diretta esibirebbe anche il suo lato intimo e segreto.
In questo senso non è mai certo di quello che pensa. Perché ha sempre paura che quello che pensa possa essere messo in ridicolo, che possa essere vergognoso o non condivisibile. La prima emozione forte e che ha funzionato come parametro per la formazione di altre emozioni e pensieri, d’altronde non è stata altro che emozione di imbarazzo, di inadeguatezza, di disagio. E proprio perché è stata la prima o per lo meno la più travolgente, è stata valutata come vera. Vera nel senso che è stata accolta come valida, come necessaria, e quindi da prendere come modello. Infatti, è la stessa scena che si ripete, secondo varianti e con sfumature diverse, nella formazione di tutte le idee e le considerazioni che verranno fatte in seguito. Quello che infatti diventa conclusione di tutti i pensieri, come necessaria conseguenza di tutti i fatti non è l’azione o le idee che si sono esibite, ma l’effetto, quello che ha comportato il metterli in mostra. Ovvero quella sensazione di essere sempre in difetto e di manchevolezza che si prova ogni volta che ci si sente a disagio. Non ci si sente a proprio agio quando si è nella condizione in cui ci si sente sotto giudizio, sotto osservazione. Anche quando si devono prendere delle decisioni, l’ossessivo è sempre pronto a rinviare, fino a quando non ne viene costretto, per esempio da forze esterne a prendere una posizione. Il prendere una posizione comporterebbe l’essere sicuri di non sbagliare, ma l’idea di non piacere e la continua sensazione di vergogna lo blocca. Quindi decide di vivere costantemente tra due poli, costantemente nel dubbio, senza fare mai una scelta decisiva, se non mosso da costrizioni esterne.
Il discorso ossessivo, nonostante sembri così gentile e cordiale riserva sempre una rabbia nei confronti dell’altro, sempre una sensazione di fastidio e di insopportabilità. La stessa rabbia che provò nei confronti di chi l’aveva messo in ridicolo o che l’aveva fatto vergognare dopo che manifestò la sua verità. È una rabbia che però non può essere mostrata perché è proprio grazie a questa che continua a mantenere segreto ciò di cui si imbarazza; esporsi troppo, anche mostrando questa sensazione di ostilità, comporterebbe il mostrare il suo lato debole, il suo segreto verrebbe spogliato di ogni tipo di copertura. Per questo l’atteggiamento dell’ossessivo è obliquo e indiretto; perché non può scontrarsi direttamente. Cerca la vendetta in modo trasversale, senza colpire direttamente chi l’ha ferito o deluso, al massimo fa cose che potrebbero recare danno all’altro, per esempio l’umiliazione o la vergogna; è una sorta di riscatto che viene compiuto in maniera velata, senza compiere un attacco diretto per evitare il confronto. In questo modo il suo segreto rimane nascosto e la sua rivincita è stata realizzata. Il comportamento dell’ossessivo, anche per questo, punta alla compagnia, agli amici, tende a ricucire tutti i rapporti, perché non sopporta di non avere tutto sotto controllo, deve per forza riconciliare le separazioni, per lo meno tra le persone che giudica più importanti, deve riportare tutto all’armonia. Perché? Perché in questo modo ha la possibilità di avere sempre sotto controllo tutto, di avere sotto controllo gli altri, per poterli conoscere, per capire i loro modi di pensare, le loro abitudini. E per potere mantenere quella rabbia nei confronti di chi è per lui il suo opposto, magari una persona sicura, che non ha paura di esibirsi, che dice quello che pensa, che si mostra ed è convinta che ciò che sta mostrando è una verità incrollabile. L’ossessivo infatti, non dice mai in modo schietto quello che pensa, ma lo dice sempre girandoci attorno, senza essere troppo diretto. Generalmente tende a stare con questo tipo di persone, perché è come se loro facessero per lui le cose che lui stesso non riuscirebbe a fare; è come se affidasse la sua verità a chi invece non se ne vergognerebbe. E questo comporta un rimanere nascosto dando all’altro la possibilità di apparire, nel senso che la personalità di un ossessivo è tanto chiusa quanto si nasconde dietro a quella di una personalità paranoica, che invece è molto più aperta, più decisa, più visibile, più tenace. Ma allo stesso tempo è anche quella personalità nei cui confronti l’ossessivo prova più ostilità, più rabbia, più senso di vendetta. È quella persona che si distingue di più rispetto a lui e che lo nasconde. Perché nonostante tutto, l’ossessivo, anche se non lo mostra direttamente, vorrebbe le attenzioni degli altri, solo che non riesce a farlo in maniera “spudorata”, ma deve inventare qualche escamotage, deve fare in modo gli altri lo apprezzino e lo stimino attraverso altri mezzi; perché è un modo per acquisire sicurezza, un modo per sentire condivise alcune idee, per sentirsi più adatto. Ma non mostrerà mai il suo vero lato, mostrerà sempre la sua personalità costruita per nascondere quello che lui ritiene il suo difetto più grande.
L’ossessivo è una persona parecchio permalosa, nel senso che basta poco, una mancata attenzione o un comportamento interpretato male, che subito si sente tradito o umiliato, perché riconduce tutto a quella scena originaria. Confronta ogni cosa sulla base di quelle idee che mantiene da sempre. Però, non affronta mai in modo diretto chi gli ha causato queste sensazioni, preferisce agire di traverso, a volte senza neanche essere consapevole che quello che fa o che dice, è un modo per colpire chi l’ha tradito. Per questo è una persona sempre piena di sensi di colpa: spesso si trova a riflettere e pensare mosso da questa rabbia, ma è una rabbia che deve tacere in qualche modo, perché non è morale o non è ragionevole. L’idea di potere fare del male o tradire la fiducia di qualcuno viene subito scartata per lasciare il posto a una presa di controllo delle sue emozioni che mira a quello che, invece, sarebbe accettato da tutti. Non può permettersi di pensare quelle cose; come non può permettersi di fare qualcosa che comporterebbe un litigio o una vendetta nei confronti di qualcuno. E se lo facesse, si autopunirebbe con i sensi di colpa. Da dove nasce questo senso di colpa? Dalla stessa sensazione che prova da sempre. Dall’idea di quella vergogna che prova da quando è stata attaccata la sua verità. Adesso si vergogna di pensare o fare qualcosa perché è considerato immorale o impuro. La stessa considerazione che era stata fatta allora quando era stato deriso e umiliato per avere fatto o detto qualcosa di indecente: si era sentito immorale.
Preferisce crearsi continuamente sensi di colpa piuttosto che accogliere la sua diretta responsabilità nella costruzione dei suoi desideri e nella manifestazione di questo suo comportamento remissivo, che ha allo stesso tempo il desiderio di venire fuori, di mostrarsi, di sciogliersi da tutti quei vincoli che lui stesso ha posti. La questione della responsabilità è una questione delicata, nel senso che difficilmente la persona si sentirà responsabile di quello che gli accade, perché è sempre orientata ad addossare la colpa agli altri, come fece quando subì quegli attacchi e quelle derisioni. Dal quel momento si è sempre sentito vittima delle situazioni. Ma bisogna capire che, se costantemente ripete quella scena, e che soprattutto se usa sempre gli stessi criteri di giudizio per giudicare gli eventi, e gli atteggiamenti degli altri, allora il problema non sono più gli altri in relazione a lui, è lui in relazione ai suoi pensieri e ai suoi desideri. Gli altri diventano solo il mezzo per continuare a riprodurre le stesse emozioni, quelle che si identificano nell’emozione più forte, più travolgente; quella che da più da pensare, quella che mantiene attivo il suo discorso. Ci sono infatti due vantaggi nel mantenere nascosta un’idea o una nostra certezza: il primo è che mantenendola nascosta, la si conosce meglio; nel senso che più ci si pensa e più la si esamina, si arriva a capirla e a capire cosa serve per farla scaturire. La seconda è che mantenendo sempre la stessa scena come parametro di riferimento, i pensieri e le emozioni che scaturiranno saranno continui, forti, travolgenti, ripetuti. Ripetendo continuamente le stesse conclusioni si verifica e si conferma sempre più volte ciò di cui si è convinti, fino a renderlo necessario e vero. E questo è l’unico modo per mantenere vivo e attivo il nostro pensiero, il nostro discorso: fare in modo che non si blocchi mai e che continui a confermare quello di cui si è certi.
La responsabilità che si trova in un percorso analitico è la consapevolezza dei pensieri, di come agiscano, di come si verifichino, da cosa nascano; il perché alcuni nostri desideri vengono nascosti o il perché alcuni nostri pensieri cercano di essere respinti e il perché, nonostante tutto questo, comunque, funzionino per mantenere le stesse idee di cui vorremmo sbarazzarci, viene ricondotto alla questione di questa responsabilità. La consapevolezza di avere scelta come vera e necessaria quella scena originaria piuttosto che un’altra, di avere accolta un’emozione così forte da ripetere per tutta la vita, di avere deciso quali fossero i criteri di giudizio attraverso i quali si siano effettuate delle valutazioni, porta alla presa di coscienza della nostra responsabilità di tutte queste scelte. Basta solo essere un minimo critici di quello che si pensa, e un minimo interessati a capire ciò che si pensa, che man mano che si va avanti con l’analisi si potranno capire e cogliere quei passaggi, che giornalmente, nelle nostre riflessioni ci sfuggono.
Intervento di Luciano Faioni
Per quanto riguarda l’aspetto più folcloristico, chiamiamolo così, del discorso ossessivo Eleonora è stata più che esauriente, ne ha mostrati i tratti i tic tutto ciò che è utile per riconoscere in un certo senso il discorso ossessivo. Come sapete Freud non parlava di discorso ossessivo ma di nevrosi ossessiva, fu intorno agli anni 50 che uno psicanalista francese, Lacan, si accorse che il lavoro di Freud era improntato in buona parte a una riflessione intorno al linguaggio, basti a pensare ai suoi scritti intorno al Motto di Spirito o all’atto mancato, la stessa Interpretazione dei sogni e moltissimi altri passi dove pone l’attenzione al modo in cui le parole si connettono fra loro, si combinano fra loro. Lacan prese alla lettera questo messaggio di Freud iniziando a occuparsi del linguaggio avendo come linea guida anche gli scritti di De Saussure, prendendoli sul serio; prendere sul serio la questione del linguaggio valeva per Lacan incominciare a riflettere sul fatto che le fantasie sono costruite dai pensieri, dalle parole. Lacan si fermò ad un certo punto come sapete, almeno quelli che studiano psicologia, inventò un modo per descrivere tre aspetti psichici e cioè il reale, il simbolico, l’immaginario, situando ciascuno di questi nel famoso nodo borromeo, nodo fatto da tre cerchi in modo tale per cui se se ne spezza uno si liberano anche gli altri. Ma aldilà di queste amenità rimane il fatto che il messaggio di Lacan e di coloro che si sono formati con lui direttamente o indirettamente ha posto sempre più l’attenzione intorno al linguaggio, come dire che qualcuno incominciava ad accorgersi che le fantasie di fatto sono dei discorsi, sono delle sequenze argomentative, finché ci accorgemmo, un certo numero di anni fa, che effettivamente tutto ciò che gli umani pensano, costruiscono, immaginano, temono, desiderano ecc. non viene dal nulla né da cose più o meno misteriose o enigmatiche, ma viene dal discorso, viene cioè da discorsi che la persona costruisce mano a mano e di questi discorsi una parte vengono accolti se ritenuti veri, se no vengono abbandonati al loro destino. Questi discorsi che la persona ritiene veri per qualunque ragione adesso non ci interessa costituiscono una sorta di premessa e si costruirà sopra questi discorsi altri discorsi e a lungo andare la persona si trova ad avere costruite una serie di catene e di argomentazioni che decideranno di ciò che pensa, di ciò che teme, di ciò che desidera. Per esempio per desiderare qualcosa occorre che questo qualcosa abbia un valore e questo valore non è che venga dal nulla, viene da una serie di considerazioni o da cose che la persona ha ascoltate e ritenute attendibili. In base a che cosa ritiene qualche cosa vero oppure no? In base ad altre cose che ha apprese, che gli sono state insegnate per esempio da persone nei confronti delle quali aveva una certa fiducia, a partire da questi elementi dunque costruisce queste sequenze argomentative che stabiliscono che una certa cosa ha un valore e dal quel momento può desiderarla. La stessa nevrosi di cui parla Freud, una fobia per esempio, è letteralmente costruita da idee, pensieri, per avere una paura qualunque essa sia, per esempio la paura di abbandono per dirne una fra le più comuni, occorre che ci sia un discorso che rende questo abbandono possibile se non addirittura probabile, e come si giunge a questa conclusione che l’abbandono sarà certo e inevitabile? Attraverso una serie di considerazioni, e queste considerazioni di cosa sono fatte? Possiamo anche aggiungere che queste considerazioni portano a costruire delle sequenze che affermano, per esempio “io sarò sicuramente abbandonato”, costituiscono cioè una catena, che può anche essere riprodotta volendo, ma non è tanto questa la questione importante quanto intendere che cosa costruisce queste catene. Certo Freud ha posto l’accento sul linguaggio, Lacan l’ha accentuato ancora di più ma non abbastanza, perché lì, nel linguaggio, vale a dire in questa struttura che costruisce i pensieri, le idee, lì c’è la chiave di accesso a qualunque cosa, perché qualunque cosa procede da pensieri, idee e dunque timori, paure, emozioni. Si tende generalmente a considerare l’emozione qualcosa che sorge così, ex nihilo, dal nulla, però così come avviene rispetto a una paura, a una fobia, perché qualcosa emozioni occorre che questa cosa abbia un valore per la persona, se non ha nessun valore è difficile che si emozioni e perché abbia un valore occorre che questo elemento sia stato inserito all’interno di una catena, di una combinatoria che conclude che questo oggetto ha valore, per una serie di motivi che possono essere i più disparati e che adesso non ci interessano, ma ciò che ci interessa è che l’emozione, quella cosa che gli umani provano e chiamano emozione di fatto coincide e corrisponde con la conclusione di una sequenza più o meno avvertita come tale, ma se non ci fosse questa sequenza, questa combinatoria, non ci sarebbe neanche l’emozione, tanto è vero che qualche cosa emoziona qualcuno e lascia totalmente indifferente qualcun altro, perché? Perché ciò che emoziona questo qualcuno ha valore per lui ovviamente e non è detto che ce l’abbia per un altro. Senza il linguaggio sarebbe possibile per esempio la nevrosi? Questa è una domanda interessante. Se non fosse possibile pensare, e senza linguaggio non è possibile pensare perché il pensiero non è nient’altro che la messa in atto del linguaggio, se non fosse possibile pensare allora non sarebbe possibile costruire una paura, un’ansia, un’angoscia, un disagio, un desiderio, una attesa e se non ci fosse nessuna attesa non ci sarebbe neanche disattesa, non ci sarebbe niente. A questo punto potremmo dire: niente linguaggio, niente nevrosi. Da qui alcune riflessioni intorno alla struttura e al funzionamento del linguaggio perché è apparso essere di straordinaria importanza, molto di più di quanto Freud stesso avesse intuito o lo stesso Lacan, anche perché queste loro teorie erano anch’esse costruite e fatte dal linguaggio. Ora appare che il linguaggio sia la “causa” tra virgolette o più propriamente la condizione per il formarsi di una qualunque nevrosi, ma c’è la possibilità che così come la costruisce allo stesso modo e con gli stessi strumenti la possa dissolvere, in fondo una nevrosi ossessiva, visto che è di questo che ha parlato Eleonora, è costruita come diceva lei giustamente da una sequenza di credenze, di superstizioni, di cose che per la persona sono assolutamente vere. Per esempio il fatto, come diceva in modo molto preciso prima, che se si espone in pubblico pensa che sicuramente verrà giudicata una nullità, questo per il discorso ossessivo funziona come una certezza. Occorre interrogarla, come accade che diventi una certezza? È una costruzione, o più propriamente ancora la conclusione di una serie di considerazioni che la persona ha fatte, considerazioni che l’hanno portata a questa conclusione che a lei appare assolutamente certa, così come qualunque conclusione appare certa a chiunque la metta in atto, non la metterebbe in atto se non la ritenesse certa, e naturalmente una volta stabilito questo si comporta di conseguenza, e cioè se l’ossessivo cosiddetto è talmente certo che esponendosi sarà mal considerato e deriso dal pubblico circostante è ovvio che farà di tutto per evitare di parlare, quindi di esporsi. Dicevo che una fobia come questa, una paura come questa è stata costruita col tempo certo, ma la cosa più importante è che per l’ossessivo questo timore che ha di essere mal considerato non è un ipotesi ma è una certezza, e come qualunque certezza si costruisce a partire da una serie di argomenti “se questo allora quest’altro”. Se crede così fermamente a questa cosa è perché la crede vera ovviamente, ma se avesse l’opportunità di accorgersi che tutto ciò che ha costruito non è necessario o non è vero o è assolutamente arbitrario ecco che potrebbe anche abbandonare questa serie di certezze, esattamente così come accade a una persona che abbandona una qualunque cosa che credeva essere vera e si accorge essere falsa, la abbandona, la abbandona perché non è più utilizzabile. Dunque mettere una persona nelle condizioni di sapere come funziona il suo discorso è metterla nelle condizioni di verificare da sé se ciò che pensa merita di essere considerata una verità assoluta e necessaria oppure no, oppure se può tranquillamente sbarazzarsene. In questo modo non soltanto si sbarazzerà di pensieri cosiddetti ossessivi ma, e questa è la cosa più importante, non avrà più la necessità di costruire altri pensieri e di crederli veri e di comportarsi di conseguenza. Una psicanalisi che muova dalla struttura, dal funzionamento del linguaggio si muove con una certezza assoluta. La psicanalisi è sempre stata considerata come qualcosa di assolutamente incerto, opinabile, ipotetico, e non a torto, si è sempre fondata su cose piuttosto instabili e sicuramente opinabili, ciò che abbiamo compiuto in questi anni è stato fondarla su qualcosa di assolutamente certo, per questo vi dicevo che è possibile porre la psicanalisi come una scienza esatta, anche se vi può apparire bizzarro. Quando una scienza si considera esatta? Quando muove da un fondamento che è considerato altrettanto esatto ovviamente e attraverso deduzioni coerenti giunge a conclusioni assolutamente certe, che è esattamente ciò che noi facciamo muovendo da una certezza assoluta che è quella che riguarda ciò stesso che consente di costruire qualunque cosa, anche la certezza assoluta, e cioè quella struttura che prima indicavo con linguaggio, e senza il quale linguaggio, come dicevo, non solo non c’è più nessuna nevrosi, ma non c’è più nessuna gioia, entusiasmo, affanno, piacere, dispiacere, dubbio, non c’è più niente. Ecco perché ci è parso interessante, importante soffermarci sul linguaggio che certo è sempre stato lì a portata di chiunque avesse voglia di considerarlo però tranne qualche sporadico caso nessuno si è mai avventurato a considerarlo per quello che è e cioè la condizione del pensiero e in seguito a questo di qualunque altra cosa, perché gli umani sono tali proprio perché pensano, è questo che li distingue da un foglietto di carta per esempio, non è tanto la forma, quella è variabile, ma il fatto di essere pensanti e per pensare occorre una struttura, senza una struttura non si pensa, anche le macchine hanno bisogno di una struttura per potere pensare in un certo senso cioè qualcosa che consenta di mettere insieme delle sequenze in un certo modo, di avere gli strumenti per trarre da queste sequenze delle conclusioni e quindi dei giudizi o delle scelte o delle decisioni. È la cosa più semplice del mondo, era l’uovo di Colombo, ciò che gli umani hanno cercato da sempre. Parlavamo tempo fa con gli amici del fondamento, pensate a cosa gli umani hanno scritto, detto, pensato, elaborato, riflettuto, considerato intorno al fondamento senza mai trovarlo, ogni volta è sempre stato spostato da qualche altra parte, quale è stato il colpo di genio? Mettere a fondamento ciò stesso che consente di pensare l’idea stessa di fondamento e senza la quale cosa non è possibile pensare né il fondamento né nient’altro, era semplice, a questo punto non c’era nient’altro da fare che intendere come funziona questa struttura nota come linguaggio, solo questo, mossi dalla certezza che essendo il linguaggio a costruire qualunque pensiero quindi di conseguenza qualunque timore, tremore, affanno, desiderio, gioia, entusiasmo, allo stesso modo come li costruisce può demolirli, con la stessa facilità. Naturalmente sto parlando del linguaggio non come verbalizzazione di qualche cosa ovviamente. Il linguaggio è stato considerato quasi sempre una sorta di strumento: esistono le cose e il linguaggio le descrive, è una superstizione al pari di qualunque altra, ma ciò che a noi interessa, interessava e continua a interessare è porre o meglio costruire una psicanalisi che per la prima volta non fosse costruita su un atto di fede, non solo la psicanalisi naturalmente però a noi interessava quella, l’atto di fede, cioè credo che sia così, non posso provarlo in nessun modo però “credo quia absurdum”, a noi non è bastato, non è bastato credere qualche cosa perché lo dice Pinco Pallino, e quindi abbiamo dovuto incominciare a riflettere sulle cose. Freud dice che c’è l’inconscio, va bene, e allora? Questo ci esime dal continuare a domandarci non soltanto sul che cosa sia, ammesso che sia qualcosa, ma sul perché Freud ha stabilito che esiste una certa cosa che ha chiamato inconscio, e se non fosse così? C’è sempre questa possibilità, come dice Dante: “considerate la vostra semenza, fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”, è esattamente quello che abbiamo fatto, non perché ce lo dicesse Dante ma perché ci pareva opportuno fare così. Qualsiasi teoria psicanalitica, voi che studiate psicologia ne conoscerete molte, ma ce ne sono più di quante voi ne conosciate, è fondata su un atto di fede, generalmente sull’osservazione, uno dei criteri più instabili, più evanescenti e improbabili: l’osservazione. Io osservo una certa cosa e da quella mia osservazione traggo delle mie conseguenze, quell’altro invece osserva a modo suo e trae le conseguenze che a lui appaiono più opportune e così via, e così sono sorte tutte le scuole di psicanalisi, per questo non ci è parso interessante proseguire lungo questa via che non porta da nessuna parte, porta a costruire altre teorie fondate appunto su atti di fede, ma quale fede? Che la mia osservazione sia quella giusta, e ciascuno pensa esattamente la stessa cosa e per questo, torno a dirvi, molte persone tra cui i filosofi della scienza o i filosofi del linguaggio hanno poste parecchie obiezioni alla psicologia o alla psicanalisi. Potete leggere, mi rivolgo agli studenti di psicologia in particolare, le osservazioni di Wittgenstein sulla psicologia che sono di qualche interesse, dove cerca di mostrare che l’osservazione di fatto è un atto linguistico, e come tale va considerato …
Intervento: scusi ha detto che il linguaggio cui si riferisce non è quello parlato …
No. Quella è la verbalizzazione, parlo del linguaggio come struttura …
Intervento: come è strutturato un pensiero …
Sì, abbiamo dovuto considerare che cosa sia linguaggio intanto: cosa si intende con linguaggio? Questione ardua perché molti prima di noi si sono cimentati su questo, ma per considerare il linguaggio occorre considerare le cose più semplici, più banali e cioè che cosa lo fa funzionare e allora andammo per esclusione e cioè considerare: se una parola significasse tutte le altre simultaneamente, sarebbe possibile parlare? No, perché non ci sarebbero più termini utilizzabili quindi ecco, perché il linguaggio funzioni occorre intanto che ciascuna parola sia distinguibile da ciascun altra, differente da ciascun altra se no non funziona, poi di cosa ha bisogno per funzionare? Di un sistema inferenziale cioè di una struttura che consenta da un antecedente di passare a un conseguente, senza questo non è possibile trarre nessuna conclusione, non c’è nessun “se … allora”. Il pensiero funziona così, qualunque decisione, scelta, qualunque pensiero funziona a questa maniera, se si leva questo si leva la possibilità stessa di pensare e quindi abbiamo considerato che cosa è necessario ci sia perché il linguaggio possa funzionare, nel modo più semplice, abbandonando provvisoriamente tutto ciò che invece non è necessario al suo funzionamento, per esempio il fatto che io decida per una certa cosa o per un'altra non è necessario al funzionamento del linguaggio perché lui continua a funzionare indipendentemente dalla scelta che opero. Ma come funziona il linguaggio? Per dirla nel modo più stringato possibile non è nient’altro che una stringa, una sequenza di istruzioni che servono a costruire proposizioni, dicendo che servono a costruire proposizioni è implicito il fatto che ci siano delle istruzioni che consentono di costruirle in un certo modo ovviamente, alcune di queste regole sono per esempio quelle sintattiche, grammaticali ma non soltanto: il linguaggio non è nient’altro che quella struttura che consente di costruire una proposizione con una premessa, dei passaggi e una conclusione e che contiene in sé anche delle istruzioni che consentono di riconoscere per esempio una stringa come vera oppure se mi pongo una domanda che mi consentono di riconoscere qualche cosa come risposta a quella domanda. Una struttura, per altro molto semplice, non ha bisogno di un granché per funzionare, è qualcosa di molto prossimo ai tre principi aristotelici che poi sono riconducibili al principio di identità, e un sistema inferenziale, non occorre altro, con questi semplici mattoni è possibile costruire tutto ciò che gli umani hanno costruito in questi ultimi tre mila anni. Quindi nulla a che fare con la verbalizzazione, la verbalizzazione è solo un modo di manifestare delle sequenze che il linguaggio ha costruite, possono essere manifestate attraverso la verbalizzazione ma anche sotto altre forme, con codici binari per esempio, perché no? Non è facile pensare il linguaggio in questo modo anche perché nessuno è mai stato addestrato a farlo, la difficoltà non è intendere il suo funzionamento ma accorgersi della sua portata e della priorità che ha su qualunque cosa, e che qualunque cosa deve la sua esistenza a questa struttura, compreso il concetto stesso di esistenza: tutto ciò che muove da una premessa e giunge a una conclusione, questo è linguaggio. Giungemmo a questa conclusione inevitabile cioè la priorità del linguaggio su qualunque altra cosa proprio per esclusione, ci si rese conto mano a mano che si procedeva che il linguaggio era la condizione per qualunque cosa, qualunque cosa fosse pensabile, o come direbbero i logici qualunque mondo possibile, se lo definisco possibile è già perché ho compiuto un ragionamento, per esempio. Potete immaginare questo: provate a immaginare che di colpo scompaia in ciascuno di voi il linguaggio, cioè la possibilità di pensare, che succede? Scompare il passato, scompare il futuro, scompare il presente, scompare tutto, non c’è più nessuna possibilità di provare alcunché perché non c’è più nessuna possibilità di trarre una conclusione, di fare il benché minimo ragionamento, neppure di stabilire di essere umani, nemmeno quello, niente. A questo punto qualcuno, forse, portando la cosa alle estreme conseguenze potrebbe affermare che a quel punto gli umani cesserebbero di esistere anzi, non sarebbero mai esistiti, certo portando le cose alle estreme conseguenze, riflettendo cioè sul fatto che l’esistenza comunque è esistenza per qualcuno, per qualcuno che sia in condizioni di valutarla, se nessuno è in condizione di pensare l’esistenza allora non c’è il concetto di esistenza, esisterebbe ancora l’esistenza? Questo qualcuno potrebbe, sempre se lo volesse, andare oltre e accorgersi che questa domanda che si chiede se in assenza di linguaggio esisterebbe ancora qualcosa, considererebbe che questa domanda non ha nessun senso perché non ha nessuna risposta e quindi cesserebbe di farsela …
Intervento: anche perché in assenza di linguaggio con che cosa potrebbe porsela?
Senza i vostri pensieri non c’è più niente, nulla, cosa rimane? Niente, ecco questo è il linguaggio, ciò che vi fa esistere e anche ciò per cui ciascuno esiste di fatto, ho risposto alla sua domanda?
Intervento: sì … cioè è difficile da capire … potrebbe essere equivalente alla coscienza il linguaggio?
È qualcosa che è molto al di qua della coscienza, è la condizione perché ci sia la coscienza, la coscienza non è altro che una riflessione su di sé e per riflettere su di sé occorre uno strumento per riflettere …
Intervento: se la coscienza ha come fondamento il linguaggio allora andiamo all’anima?
L’anima? A quale anima si riferisce? Non mi occupo di anime. Ma considero che qualunque discorso intorno all’anima o a qualunque altra cosa comunque viene fatto dal linguaggio. Lei cita l’anima, si può anche dimostrare l’esistenza di dio volendo, utilizzando Anselmo, si ricorda di Anselmo d’Aosta? Muovendo in questo modo: è possibile pensare all’assoluto? Sì, se mi pongo la questione evidentemente ci sto pensando quindi è possibile ma se è assoluto per definizione non ha limiti, assoluto: senza soluzione, lo dice la parola stessa, quindi esiste necessariamente perché lo penso ma non è delimitabile, non è racchiudibile da nessuna parte, è infinito e smisurato che è comunemente la definizione che si attribuisce a dio, e quindi necessariamente esiste. Il problema è che dicendo questo non ho fatto nient’altro che costruire una sequenza di proposizioni, questo e nient’altro che questo, poi naturalmente ciascuno può credere ciò che ritiene più opportuno, nessuno lo proibisce, però la ricerca teorica generalmente non muove da credenze o superstizioni, muove da ciò che è necessario, muovendo anche da una definizione di necessario che risulti necessaria e cioè che si autodefinisca, vale a dire come ciò che è e che non può non essere perché se non fosse allora non sarebbe né questa né nessuna altra cosa. Le piace questa definizione Sara? Intanto qualcun altro vuole intervenire così allarghiamo il dibattito?
Intervento: sto pensando una perplessità verso me stesso e una estremizzazione, sto pensando e questo lo uso come provocazione a un’unione tra lingua e linguaggio e sto pensando questo, io sono nato in questo paese e quindi sono italiano che ha certe caratteristiche comunque un codice che evidenzia un linguaggio, il linguaggio ora se qualcuno mi parlasse improvvisamente in usbeco e mi dicesse delle verità profonde io non lo sentirei perfettamente vibrante dentro di me come una cosa vera perché non capisco quella lingua e questa è una provocazione, torniamo indietro se io invece sento in italiano toccare la profondità del cielo quando fa dei ragionamenti non è forse che l’italiano e quindi la lingua, il linguaggio è una traduzione di qualcosa di più interiore che va ben prima, più in profondità del linguaggio? Una cosa più originale del linguaggio il linguaggio mi serve per riconoscere una sintonia vibrante per cui si riconosce la cosa plausibile e vera, esistente e quindi credibile. E allora che cosa c’è prima del linguaggio? Premetto che non ne so niente sono solo uno scrittore di fantasia. Ora se noi non avessimo più il linguaggio saremmo animali ma sapendo distinguere le grandezze differenziali, il codice forse dell’uno/zero dell’informatica … sto solo cercando di capire se c’è una verità più profonda che il linguaggio mi svela questa verità sia semplicemente una differenziale di valori …
È una questione che gli umani si pongono da migliaia di anni, quando si pongono queste questioni generalmente considerano innanzi tutto che cosa debba intendersi con verità, prima di parlarne occorre sapere che cosa sia, almeno per sapere di cosa stiamo parlando, che è importante, e che cosa si deve intendere con verità? E soprattutto perché accoglieremo una definizione anziché un’altra? E poi ancora, quando l’avremo definita che cosa avremo fatto esattamente? Si può anche considerare che qualunque ricerca intorno alla verità sia potenzialmente autocontraddittoria, come faccio a definire la verità se ancora non so che cos’è il vero? Come farò a sapere che quella definizione è vera se ancora non ho stabilito che cosa sia la verità? È una delle questioni che si possono incontrare in questo ambito, in ambito teorico qualunque termine si introduce deve potere mostrare di sé di essere almeno attendibile, se non proprio necessario almeno vero, e come fare? Come fare una cosa del genere? O si abbandona ogni speranza come è accaduto nell’ultimo secolo: non c’è nessuna speranza di stabilire che cosa sia il vero quindi ne facciamo a meno, non accorgendosi comunque che qualcosa sta funzionando perché anche in questa decisione in ogni caso qualcosa di vero c’è, se io stabilisco che non è possibile stabilire la verità, questa affermazione all’interno del mio discorso funziona come vera perché se fosse falsa non l’accoglierei e quindi c’è già una possibilità di intendere il vero, ma non a partire da qualcosa che si osserva, per esempio, o che si congettura ma a partire dal modo in cui io penso: se io accolgo una certa proposizione anche se magari posso considerare che non sia una verità assoluta ma sia una cosa provvisoria, tuttavia all’interno del gioco che sto facendo questa si pone come vera, questo vuole dire che in ogni caso qualche cosa, perché il mio discorso, i miei pensieri possano continuare a costruire altre cose, qualche cosa dunque deve essere stabilito, stabilito come vero, e da qui posso proseguire a costruire altre sequenze. Infatti su qualcosa che si ritiene falsa non si costruisce niente. Detto questo a questo punto si tratta di intendere che cosa sia verità, intanto la intendiamo, come i greci? Come alètheia, come l’ha ripresa Heidegger, come disvelamento, o come i latini, come veritas, qualcosa che si impone sugli altri? O come i medioevali, come adæquatio rei et intellectus? Nessuno costringe a considerarla in un modo oppure in un altro, ma in ogni caso se io opterò per una oppure per l’altra per me comunque una sarà vera e l’altra no. A questo punto possiamo addirittura concludere che vero e falso, proprio partendo dalla struttura del linguaggio, non sono delle ipostasi, che esistono da qualche parte, ma semplicemente è il linguaggio che dice che cosa è vero e che cosa è falso: se il linguaggio prosegue in una direzione chiama quella direzione vera, se non può proseguire chiama quella direzione falsa, e quando è che non può proseguire? Quando la sua conclusione contraddice la premessa da cui è partito, e allora la chiama falsa, non è che esista il falso o il vero da qualche parte. È qui che tutti i filosofi si sono inceppati, se la si cerca fuori dalla struttura che è la condizione stessa per potere valutare il vero e il falso non la si troverà mai, e infatti non è mai stata trovata perché può sorgere sempre qualche obiezione. Se invece si muove dalla struttura del linguaggio così come abbiamo fatto con la psicanalisi e cioè ponendo il linguaggio come il fondamento, allora tutto diventa semplice, chiaro, non ci sono più problemi di sorta. L’insorgenza dei problemi, ed è questo che accade quando la persona si è accorta del funzionamento del linguaggio, nel momento in cui il problema sorge, nel momento stesso si dissolve perché non ha più nessun motivo di esistere, è come se avesse la possibilità continuamente, ventiquattrore su ventiquattro, di verificare se ciò che pensa è vero oppure no, è necessario oppure no perché se non lo è allora è arbitrario, e essendo arbitrario non necessita del fatto che io mi ci adegui. Ma necessario è risultato soltanto il linguaggio, cioè questa struttura che è la condizione o, per usare un termine caro ai linguisti, una sorta di metagioco, cioè quel gioco linguistico che consente la costruzione di qualunque altro gioco e senza il quale gioco nessun altro gioco sarebbe possibile, neanche pensabile, non sarebbe neanche possibile pensare l’anima, per esempio, non più di quanto ci pensi questo orologio. Queste cose che sto dicendo possono apparire complesse, ho cercato di renderle più semplici possibile però le stiamo discutendo, valutando da tempo in una riunione che teniamo qui a Torino il mercoledì sera in via Grassi 10, chiunque sia interessato a seguire questi incontri è il benvenuto, l’ingresso è libero, chiunque può intervenire e riflettere insieme con noi. È un invito che rivolgo a ciascuno di voi e a Sara in particolare, che siccome si sta formando come psicologa, aggiungere a questo una formazione psicanalitica potrebbe essere di grandissimo aiuto per potere ascoltare ciò che le persone dicono in tutt’altro modo molto, più interessante. Elisa cosa sta considerando, così assorta?
Intervento: stavo considerando il commento che ha fatto che facendo un percorso psicanalitico si ascolta meglio l’altro per evitare anche disastri, cosa di cui parlavamo appunto oggi ascoltare meglio quindi si possono ascoltare sfumature che nell’ascolto normale anche quello che insegna la psicologia. La psicologia è applicare, io ascolto e applico, invece con il discorso psicanalitico si arriva proprio alle sfumature importanti, notevoli non solo nel discorso clinico ma nel discorso di relazione quotidiana … si fa un macello e invece così …
In effetti la psicanalisi, per seguire questa via che lei ha aperta, va molto aldilà della retorica, sì perché ha strumenti molto più potenti perché oltre chiaramente alla retorica conosce anche le strutture di discorso e cioè sa per esempio perché un ossessivo si comporta in un certo modo, cosa farà un’isterica, come si muoverà un paranoico. Se conosce il modo di pensare delle persone e sa quali sono le cose in cui crede, non è difficile sapere cosa penserà. Le faccio un esempio molto banale, se io sapessi che Eleonora è una fervente cattolica, intransigente, fondamentalista, non mi sarebbe difficile presumere che ogni domenica andrà a messa per esempio, è ovvio, è ovvio ma a partire da che cosa? Dal fatto che so ciò in cui lei crede e so il modo in cui pensa. Ho fatto un esempio molto banale per rendere le cose più semplici, ma può diventare altrettanto semplice anche in casi più complessi, per cui può accadere che molte condotte appaiano prevedibili anche se poi non è così determinate. A lei interessava invece che fossero prevedibili quelle altrui …
Intervento: mi viene in mente che qualche mercoledì fa al corso lei diceva che se fra ventiquattromila anni nessuno si fosse accorto della struttura che supporta tutto ciò che il pensiero produce, fra ventiquattromila anni ci sarà per esempio l’ossessivo quello che torna in casa trenta volte per vedere se il gas è aperto oppure no, per godere per trenta volte di quella scena in cui tutti saltano in aria … e quindi fra ventiquattromila anni ci saranno i soliti tic, le solite storie forse con nomi diversi, se si cominciasse a tenere conto di ciò che fa esistere qualsiasi cosa perché sembra di essere nella stratosfera quando si parla di linguaggio, di questa struttura, si cominciasse a tenerne conto per esempio, per la fobia, per esempio, per la paura, per esempio per i grandi sentimenti, ideali … se si cominciasse a porre l’attenzione alla struttura forse fra ventiquattromila anni potremmo godere dell’intelligenza degli umani i quali non si aspettano la risoluzione dei problemi dalla magia, per esempio, dicevo dell’ossessivo che ritorna avanti e indietro per godere di quella scena in cui salta in aria il palazzo …
Qualche volta anche ci riesce …
Intervento: appunto, mentre se ci fosse la possibilità di soffermarsi a riflettere sul linguaggio, sul pensiero delle persone, sul proprio pensiero come funziona ecco che ci sarebbero delle implicazioni nel pensiero e delle possibilità differenti di pensiero in modo da togliere la noia per le solite cose, solite storie che continuamente vengono riprodotte …
Sì questo è importante, è uno degli effetti collaterali, quello che mentovava prima Elisa, provate a immaginare quante morti, per esempio, di fatto siano dei lapsus, accadano per un lapsus, per un atto mancato, incidenti di ogni sorta, anche questo può essere di qualche utilità …
Intervento: sì anche intendere la questione del sintomo, per uno psicologo il sintomo è qualcosa che la persona non vuole, non può sopportare è qualcosa che gli capita fra capo e collo e invece ciò che noi affermiamo, ciò che afferma la psicanalisi è che invece è effettivamente quello che la persona desidera, e se lo desidera avrà i suoi buoni motivi e questo è completamente differente, è differente il modo di approcciare e quindi di svolgere la questione, come si fa a togliere a una persona quello che la persona vuole ?… non si può fare …
È totalmente differente, abbiamo inteso sì certo la questione del sintomo, il fatto che una persona si costruisca delle storie incredibili al solo scopo di potersele godere, e sappiamo anche perché dice e continua a ripetere al mondo intero che invece non le vuole, perché se ammettesse di volerle perderebbe la possibilità di potersele giocare …
Intervento: anche questa cosa non ho capito … non sono ancora d’accordo sulla parola che utilizzano di desiderare di fare …
Può cambiare la parola se vuole, però è sempre comunque la costruzione della persona, i suoi pensieri hanno costruito questo, e perché l’hanno costruito?
Intervento: adesso ci siamo!
Sì, incominciare a pensare che i miei pensieri non vengono da niente, da agenti o eventi esterni o chissà che cosa ma sono costruiti da me, o più propriamente dal mio discorso, e se il mio discorso lo fa ha dei buoni motivi per farlo se no non lo farebbe …
Intervento: io faccio il quarto anno di psicologia … nel percorso di analisi quello che si fa con un ossessivo è proprio quello di scardinare man mano le sue conoscenze?
Esattamente …
Intervento: ma come si fa?
Allora, prendete l’ossessivo e mettetelo lì, incominciate a farlo parlare, parlando incomincerà a raccontare le sue paure, angosce, vi dirà quanto le persone che lo circondano siano scellerate, squinternate e scriteriate. Poi, quando incomincerà a terminare quelle cose che lui ritiene importanti da dire a quel punto c’è la possibilità per l’analista di incominciare a farlo riflettere su quello che sta dicendo e fare in modo che le sue affermazioni incomincino a riflettersi. Allora succede che ciò che ritiene, per esempio, essere il frutto della malvagità altrui incomincia a essere considerato come qualche cosa che viene dal suo discorso, come una sua costruzione, se non altro come possibilità inizialmente, dopodiché si pongono le condizioni perché incominci a essere responsabile di quello che dice e di quello che pensa, cioè accorgersi che è il suo pensiero che costruisce letteralmente tutte quelle cose. A questo punto, se si arriva a questo punto, è facile fare il passo successivo e cioè indurlo a considerare che cosa costruisce questi pensieri, su che cosa sono costruiti, quali principi, quali verità devono esserci perché lui possa pensare una cosa del genere. Da qui è già avviato alla struttura del linguaggio e una volta che si rende conto di come funziona il linguaggio non ha più bisogno di credere vero ciò che a quel punto sa essere falso: non si può credere vero ciò che si sa essere falso, è una questione grammaticale, il linguaggio lo impedisce. Ecco come si fa. Pensava che non rispondessi?
Domani sera mercoledì alle 21 presso la sede dell’associazione Scienza della Parola in via Grassi 10 Torino, via Grassi 10 saremo felici di continuare a parlare con voi di queste cose, di cosa avviene in una psicanalisi, perché la psicanalisi ha bisogno del linguaggio come fondamento di tutte queste belle cose. Grazie a ciascuno di voi e buona notte.