PARMENIDE O DEL PENSIERO FORTE
Parmenide o del pensiero forte, abbiamo titolato questo incontro. Dice Dante:
Vie più che ‘ndarno da riva si parte,
perché non torna tal qual È si move,
chi pesca per lo vero e non ha l’arte.
E di ciò sono al mondo aperte prove
Parmenide, Melisso e Brisso e molti
li quali andarono e non sapean dove;
si fé Sabellio e Arrio e quelli stolti
che furon come spade alle Scritture
in render torti li diritti volti.
Dante, Paradiso XIII, 121-129
Dante non aveva una buona opinione di Parmenide, e dei sofisti in generale, ma anche scarsa informazione tutto sommato. “Perché non torna tal qual È si muove, chi pesca per lo vero e non ha l’arte”, non è molto lontano da ciò che si pensa anche oggi, chi insegue il pensiero, chi insegue, ad esempio, il vero o qualunque altra cosa e non ha l’arte, cioè non lo sa fare, non è autorizzato a farlo, si perde e non torna più là da dove era partito, “non torna tal qual È si muove”. Natalino Sapegno, molto devotamente, commenta dicendo che chi fa una cosa del genere torna peggio di com’era prima, però questa è un’opinione di Natalino Sapegno, la prendiamo così com’è, né ci importa più di tanto, però non ha torto Dante a dire che “non torna tal qual È si muove, chi pesca per lo vero e non ha l’arte”. Voi sapete che il pensiero di Parmenide è stato molto commentato, per sapere quanti sono stati i commenti intorno a Parmenide sarebbe grosso modo sufficiente sapere quanti sono stati i filosofi, da Platone a oggi. Chi sa fare una lista completa, sa grosso modo quanti sono stati i commenti a Parmenide, direttamente o indirettamente, quindi dunque non ci occuperemo di commentare Parmenide, d’altra parte non ci è mai interessato commentare alcunché, semmai leggere e cogliere ciò che a noi interessa. E quello che non ci interessa? No, evidentemente. Dunque un percorso che è di parte, assolutamente di parte, che utilizza soltanto ciò che serve per proseguire ma, dunque, dicevamo che Dante non ha torto a dire quello che dice. Chi inizia una ricerca non avendola già stabilita entro binari molto rigidi, non sa effettivamente quello che va ad incontrare, non sa soprattutto se dopo sarà quello di prima. Magari in meglio, perché Sapegno deve dire che deve per forza essere peggio, non è sempre di grande interesse, diciamola così. Ora dunque perché Parmenide è stato così importante, così letto, così commentato, perché dice qualcosa su cui tutto il pensiero occidentale si è soffermato a lungo. Dice una cosa essenzialmente, che posso occuparmi soltanto di ciò che è, di ciò che non è non ne posso fare nulla. Dice Parmenide: “Suvvia, io dirò, tu intanto ascolta e accogli la mia rivelazione cioè quali sole vie di ricerca siano logicamente pensabili e precisamente in quale modo una esista e non è possibile che non esista, è il cammino della persuasione infatti accompagna la verità, e che l’altra non esiste e che è logico non esista. Io ti chiarisco come questo sia un sentiero che non si può scrutare, infatti non potresti conoscere il non essere, che ciò che non è fattibile è esprimerlo. Infatti identico è il pensare e l’esistere. Per me è indifferente il punto di partenza e infatti ritornerò di nuovo là.” E ancora “Necessità segue, che esiste il dire logicamente e l’intuire l’essere, infatti esiste la loro esistenza, invece non esiste il dire e l’intuire il nulla. A queste proposizioni ti comando di riflettere, perciò da questa prima via di ricerca ti tengo lontano, ma poi anche da quella ove uomini che nulla sanno si sbandano, uomini con due teste, infatti la perplessità del loro petto dirige una intuizione sbandata. Costoro sono sbalestrati sordi del pari e ciechi, sgomenti, gente incapaci di giudizio, e in essi essere e non essere sono supposti come una identità e come una non identità e per essi di tutto vi è una strada che si rivolge in senso contrario.” Questa che io ho letta è la traduzione di Untersteiner, come sapete ciascuna traduzione cambia moltissimo e varia profondamente una dall’altra, ma sia come sia. Perché, dicevo, pone i fondamenti del discorso, quindi del pensiero occidentale? Di ciò che non è, non posso dire, non posso pensare né posso occuparmene in alcun modo. Platone come sapete obietterà un po’ di tempo dopo nel Sofista, che invece lo penso e ne dico, dal momento in cui lo penso, dal momento in cui ne dico e dunque in qualche modo è anche il non essere. Ma forse la questione che a noi interessa è più radicale, proviamo a porla in questi termini, ciò che esiste, che io dico che esiste, esiste nella parola che lo fa esistere. Potrebbe esistere qualcosa fuori dalla parola? Al pari di Parmenide posso sconsigliare di seguire questa via. Perché logicamente in effetti, cioè secondo la logica della parola, questa via non è percorribile, la via che segue ciò che è fuori dalla parola non può percorrerla, perché l’unico strumento che ha per farlo è appunto la parola. Allora cosa dice tutto questo? Dice che c’è qualcosa di cui in nessun modo non posso non tenere conto, e di che cosa non posso non tenere conto? Che è così come mi si impone, così come mi si dice, è appunto ciò che si dice. Ciascun elemento che interviene nel mio discorso è quello che è, se fosse stato un altro il discorso sarebbe stato un altro. Dunque è così. Possiamo parlare di identità a sé a questo punto? Sì, possiamo farlo, ma usando questa nozione in una accezione particolare, e cioè quella che mi consente di potere usare questi termini, se invece io cercassi questa identità assoluta non più, come vado dicendo da qualche tempo, una procedura linguistica ma come qualcosa di assoluto, di immediato, di fuori dalla parola, allora cosa cercherei esattamente? Una sorta di identità a sé che deve necessariamente non essere esposta alla parola, dal momento che se lo fosse, allora questa identità dovrebbe essere identica a qualcosa. Ciò che il pensiero di Parmenide ho posto in prima istanza è in effetti qualcosa di molto determinato, di molto deciso, come se dicesse: le cose stanno così e in nessun altro. modo. Il verso a Parmenide l’ha fatto la metafisica, o ciò che comunemente è inteso come tale, cioè il discorso che si svolge intorno alla ricerca dei fondamenti. Dunque il discorso di Parmenide come un discorso molto determinato, senza mezzi termini, le cose stanno così. Si tratta di riprendere questo gesto perché c’è l’eventualità che non abbia tutti i torti, tenendo conto di quanto abbiamo detto fino ad oggi, forse abbiamo degli strumenti per potere affermare che il dire che le cose stanno così, dice “semplicemente” tra virgolette semplicemente, che le cose stanno così come si dicono ciascuna volta, né più né meno, né possono essere sostituite senza che venga detta un’altra cosa, ma se io ho detto una certa cosa, allora è quella e non un’altra. Provate a interpretarla questa cosa, provate, si far per dire, non è che sia difficile, diciamola così, interpretatela, direte un’altra cosa, cioè non più quella, quella è stata detta e in quanto tale potrebbe risultare anche irripetibile, perché ciascuna volta in cui venga ripetuta dovrei avere l’assoluta certezza che venga ripetuta anche esattamente la stessa combinatoria di elementi, di pensieri, di immagini, di questioni che hanno accompagnato quella precedente, cosa che è ardua da stabilirsi, dunque allora si tratta di questo, di un pensiero forte, così come dicevamo nel titolo, perché di fatto senza compromessi, quei compromessi che ha cercato quel pensiero che ha fatto seguito a Parmenide, appoggiandosi alla possibilità dell’interpretazione (mi riferisco più all’ermeneutica che all’esegesi), vale a dire la possibilità di potere sapere qualcosa di un testo andando a cercare elementi che sono fuori dal testo. I Francesi si sono divertiti in questa operazione, soprattutto gli strutturalisti e poi anche Derrida accorgendosi che di fatto ciò che incontravano era un’altra cosa, un altro testo, non più quello, constatazione legittima oltre che inevitabile. Potremmo dire così, che il gesto di Parmenide non interpreta, non interpreta niente, dice soltanto che ciò che si sta dicendo è quello e nient’altro, mettendo effettivamente in difficoltà, perché uno obietta immediatamente: “è quello” quale? Già ponendo questa domanda “il quello” si è dissolto, infatti si dissolve, si dissolve e cosa resta? Resta un altro discorso. Prendete per esempio una frase, una qualunque, anche questa di Parmenide sulla quale si sono cimentati moltissimi, dunque cosa vuole dire Parmenide? Già potremmo chiederci che senso ha questa domanda, e se è una domanda legittima. Heidegger si era accorto perfettamente che questa domanda non ha nessun senso, noi non pensiamo più come i Greci, il loro pensiero è svanito e dunque in nessun modo possiamo sapere con esattezza che cosa intendessero dire, però questo non impedisce di tradurre i loro testi, di leggere. Qui si apre tutto un discorso che vi farò, ma per il momento facciamo un passo in dietro, dicevamo del pensiero forte, il pensiero forte dice che ciò che si sta dicendo è esattamente ciò che si sta dicendo, né più né meno, e che ciò che si dice non può non dirsi. Da dove muove propriamente? Muove da una considerazione per cui ciò che è, non può non essere, ma badate bene, sta qui l’inghippo, tutte queste sono formulazioni linguistiche che non descrivono nient’altro che procedure linguistiche. Nulla a che fare né con la filosofia né con la logica tutto sommato, così come è comunemente intesa, sicuramente non con la filosofia. Immaginate che tutto ciò non sia altro che procedure linguistiche, regole grammaticali, ma se diventate filosofi allora cercate l’essere, cercate la sostanza, perché no? Certo si può fare, ma si gira in tondo. “Ciò che è non può non essere” questo non descrive uno stato di cose a cui è possibile applicare un ragionamento logico che, a questo punto, direbbe che anche “il non essere è” dal momento che per esempio lo sto dicendo e quindi se lo dico è qualcosa, già dicendo che “il non essere è” questo è qualcosa, ma sto descrivendo un quid, un qualcosa? No. Sto utilizzando procedure linguistiche, regole grammaticali, che mi consentono di fare queste operazioni, che cosa descrivono? Niente, cosa denotano direbbe Gottlob Frege? Nulla, assolutamente nulla. Se invece immagino che debbano descrivere o debbano denotare qualcosa che sia al di là delle regole grammaticali o delle procedure linguistiche, allora allo stesso modo non vado da nessuna parte, però posso darmi un gran da fare, senza accorgermi che sto applicando delle regole o delle procedure a cose che non sono altro se non altre procedure, altri elementi linguistici. Per questo, in tutta questa serie di incontri abbiamo detto e abbiamo in parte anche mostrato che è molto facile provare o confutare qualunque cosa, basta applicare delle procedure, delle regole a qualunque elemento, anche all’essere. Che cos’è l’essere, si chiedono i filosofi? È un significante. Questo, questo possiamo dire indubbiamente, un elemento linguistico, un lessema, un monema, un iposema, come preferite. È qualcosa fuori di questo? Sì, tutto ciò che io invento che sia, che dico che sia, certamente. E ciò che dico posso provarlo? No. Posso confutarlo? No. Oppure sì, a seconda della posizione in cui mi trovo, a seconda, direbbe il nostro amico Wittgenstein che citiamo spesso, del gioco che sto facendo, del gioco che sto giocando. Se gioco un gioco che mi vieta di confutare un’asserzione, allora non posso confutarla. Se gioco un gioco che me lo consente allora posso confutarla. Tutto qui, ma questa cosa che potrebbe sembrare anche banale ha dei risvolti, delle implicazioni di un certo interesse, basta che proviate ad esporre queste considerazioni al discorso che fate, in ciascun momento, in ciascuna circostanza, per qualunque motivo, avete immediatamente di fronte la portata di queste considerazioni. Mi trovo a fare tutto un discorso interessante o elaborato o semplice o banale o quello che volete, che cosa sto facendo o, se volete dirla più semplicemente, quale gioco sto giocando o, più propriamente ancora, quale gioco si sta giocando in ciò che sto dicendo? A questo punto potete sapere qualche cosa di ciò che state facendo. Come dire allora che ciò attorno a cui state pensando o ciò di cui state parlando, di per sé, in quanto tale, non denota nulla, però sta facendo qualcosa. Non denota nulla nel senso che non indica né stabilisce l’esistenza di qualche cosa che sia fuori dal discorso un cui mi trovo e cioè dalla parola, per dirla così. Non denota nulla perché non può farlo, semplicemente. Può il linguaggio, quindi la parola, dire qualcosa che è fuori dalla parola? No. E perché non può farlo, chi glielo proibisce? Queste stesse regole che stiamo utilizzando, anche perché il linguaggio non è un’entità a sé stante, posta da qualche parte, che fa o non fa delle cose, è una struttura fatta di regole, di procedure. È possibile pensare che il discorso che ciascuno fa o si trova a fare, esprima, illustri, descriva cose straordinarie oppure il contrario, lo si può pensare, ma riflettendo meglio queste cose magari straordinarie che penso di avere dette, dal momento che in nessun modo posso affermare che denotino qualche cosa, restano come sospese nel vuoto, non dicono niente, sono niente. Eppure parlando faccio un sacco di cose, ed è vero, produco una quantità sterminata di cose, praticamente tutto ciò che esiste ma se, come dicevamo prima, “ciò che è non può non essere” io non descrivo uno stato di cose, facendo questo né dico o affermo chissà quale verità ontologica, filosofica o qualunque altra cosa vi paia opportuno pensare, semplicemente descrivo una procedura che impedisce di affermare o meglio di negare ciò che sto affermando. Perché me lo impedisce? Per potere proseguire, dicevamo tempo fa, non posso in questo momento negare di parlare. Con che cosa nego di parlare? Con la parola. Mi troverei allora in una posizione molto curiosa. Ma è soltanto un divieto formale, se io nego di fare ciò che sto facendo non faccio niente, non vado da nessuna parte, resto fermo, esattamente come se chiedessi una indicazione, dicevo tempo fa a degli amici: per andare a Milano da che parte vado? Di là! (Con le braccia indica le due direzioni opposte. n.d.c. ) Non è una grandissima informazione, né saprei cosa fare di una indicazione del genere, e quindi non ha nessun utilizzo. Non so cosa farmene, non serve a niente, dire che l’essere non è o il non essere è, come più vi piace, è consentito dalla retorica propriamente, perché di fatto non significa nulla a meno che io abbia già dato per acquisito che l’essere è e non può non essere e cioè, più propriamente ancora, che quello che dico è quello e non altro, perché badate bene, io dicendo che l’essere è utilizzo quei significanti che uso, e cioè un articolo, un verbo, un sostantivo ecc., ma se ne usassi altri voi non capireste più quello che vi voglio dire, cioè che l’essere è; se dicessi: la panna ingrassa, Voi non capireste che l’essere è, oppure che il non essere è. Perché? Perché ho usato altre parole evidentemente. Potevo usarne altre? Per indicare quella cosa no, e quindi necessariamente occorreva che la dicessi in quella maniera, e cioè che l’essere é. E neanche: il tram è fatto di burro. Perché non è esattamente la stessa cosa? Una domanda che può sembrare stupida ma è curiosa. E dunque perché questa formulazione possa affermarsi, cioè che l’essere è, occorre che ciascuno degli elementi di cui è fatta questa affermazione sia esattamente quello che è. Se no, questa affermazione sarebbe nulla. Allora, come vedete, il pensiero forte, così lo chiamiamo, muove esattamente da questa constatazione molto semplice, che dice che perché qualunque affermazione possa farsi, qualunque affermazione o la sua contraria, occorre che qualcosa necessariamente sia e sia quello che è, ma qualche cosa e cioè un elemento linguistico, perché se non fosse quello che è, se fosse simultaneamente altri, infiniti altri, il linguaggio non avrebbe la struttura che ha, sarebbe un’altra cosa, non sarebbe il linguaggio. Cosa sarebbe? Non lo so. Posso soltanto dirvi che non sarebbe il linguaggio che noi utilizziamo e che ci consente di pensare e dire queste cose che facciamo, compresa anche quella che sarebbe un’altra cosa. Forte, dicevo, perché non ha compromessi o mezzi termini, l’affermazione è fatta degli elementi di cui è fatta, né più né meno, e ciascuno di questi elementi è esattamente quello che è ed è necessario che sia perché la proposizione, n questo caso l’affermazione, possa farsi, compresa quella che afferma che ciascun elemento occorre che sia quello che sia. Così come dicevamo leggendo Dietro lo specchio di Lewis Carroll a proposito di una battuta di Humpty Dumpty, che il significato, diceva Humpty Dumpty lo dava lui ciascuna volta a seconda del momento, abbiamo obiettato che per formulare questa affermazione occorreva che ciascuno degli elementi linguistici di cui è composta questa proposizione fosse assolutamente quello che è, in caso contrario non avrebbe mai potuto affermare una cosa del genere né qualunque altra, e quindi non sarebbe esistito né lui, né Lewis Carroll, né altri. Ma allora affermare tutto questo è dire che, molto banalmente tutto sommato, che non può non dirsi. Se io sto dicendo, se penso anche di esistere o di essere o di non essere, qualunque cosa mi piaccia pensare a seconda di come mi sveglio alla mattina, qualunque cosa dunque per potere dirsi occorre che si dica, altra considerazione banalissima, e dunque ciò che non posso non dire è che le cose dicendosi si dicono. Ora dunque, da che cosa muovere per fare una qualunque considerazione se non da ciò che strutturalmente non può non dirsi. Non può non dirsi per il semplice fatto che sto facendo una considerazione. Vi accorgete che sto dicendo cose molto semplici, talmente ovvie da risultare talvolta impensabili. Da qualunque altra cosa io muova o decida di muovere, sarà assolutamente arbitraria, gratuita, ma questa no, perché negarla è vietato da quelle stesse procedure che mi consentono di fare queste riflessioni, o di pensare e anche di negare questa cosa. Per questo, vi dicevo l’incontro scorso, che costituisce un modo di pensare straordinariamente potente, contrariamente a Vattimo che Lei citava l’altra volta, Gian Teresio detto Gianni, ma potente non perché dimostrato, non è dimostrabile né non dimostrabile, né confutabile nei termini in cui dicevamo prima, semplicemente non è negabile, solo questo. Quando Parmenide dice: Essere e pensare è il medesimo, o sono uno solo, a seconda delle traduzioni, dice qualcosa che può far riflettere intorno alla nozione di essere. Che l’essere di fatto è qualcosa che io penso e quindi che dico, cioè, come dicevo prima, in prima istanza un significante, un elemento linguistico, e risulta a questo punto assolutamente ridondante la formulazione famosissima di Cartesio: penso dunque sono. Parlo e quindi parlando posso dire di essere o di non essere, perché no? Posso anche dimostrare di non essere, sempre utilizzando dei sistemi, a volte dei veri e propri sistemi di dimostrazione, di confutazione, ce ne sono alcuni anche molto sofisticati di fronte ai quali non reggerebbe nessuna prova, e dunque penso o meglio parlo quindi sono o non sono o qualunque altra cosa, indifferentemente. Con questo ci introduciamo, potremmo dire, a una seconda parte di questa serie di incontri, più politica. Già la volta prossima sarà introdotta da un argomento decisivo, sapete il titolo? “S. J. e la tecnica di governo”, S. J. sono le iniziali di Societas Jesus, sono i Gesuiti, conoscete i Gesuiti? I Gesuiti e la tecnica di governo dunque, che introduciamo questa sera perché ciò che ho detto fino a questo punto, dalla conferenza intorno alla televisione fino ad adesso, è andato in questa direzione, cioè nel mostrare l’eventualità che sia possibile non credere, mettiamola così, l’eventualità, non ho detto che ci si riesca necessariamente (non dico che ci si riesca perché è la cosa più difficile), di non credere, cioè porre le condizioni perché la struttura che consente di credere cessi di funzionare, per così dire. Ora qual è la struttura che consente di credere? Quella che suppone che le cose che si dicono abbiano o denotino qualcosa che è fuori dalla parola, solo questo, nient’altro che questo, perché se questo fosse impedito allora non ci sarebbe nessun modo per potere credere alcunché, cioè di dare il proprio assenso incondizionato a qualunque cosa che sia ritenuta vera, dal momento che ciascuno saprebbe perfettamente che vero o falso sono, come dicevo prima, elementi grammaticali, non denotano nulla, assolutamente nulla. Attengono ad un gioco, ciascuna cosa può essere vera o falsa o entrambe le cose a seconda del gioco che si sta giocando. Sapere il gioco che si sta giocando, svolgendo in ciò che si dice, può essere di un certo interesse. Perché mi consente di sapere che cosa sto facendo esattamente, mi consente anche di non essere travolto da questo gioco, cioè pensare che si stia svolgendo qualche cosa che è così, che è fuori dalla parola, quindi inaccessibile. Però dicevo, non è facile non credere, cessare di credere, può accadere, se accade ecco che allora può accadere di trovarsi a pensare in un modo molto più forte, più potente, dal momento che si considera soltanto ciò che non può non considerarsi e cioè che dicendo, affermando, dubitando o sognando ecc. io pongo in atto regole grammaticali, procedure linguistiche e che non ho nessun modo per provare che non sia così, e non ho assolutamente nulla che mi supporti nel pensare che le cose che io penso o sogno o immagino, dico, disfo ecc. abbiano qualche referente da qualche parte, cioè siano qualche cosa che è al di là di ciò che dico. Lo si può pensare, anzi, per lo più lo si pensa, si può pensare qualunque cosa e il suo contrario, oppure quello che penso deve essere vero? Quale criterio utilizzerò, cioè quale gioco giocherò? D’altra parte ciascuno parlando mette in atto un gioco, quello condiviso dai più, che utilizza cioè una quantità di luoghi comuni, che sono importantissimi. I luoghi comuni consentono di potere parlare con le persone, di potere scambiare un’opinione, raccontare delle cose, i luoghi comuni cioè quelle serie di proposizioni che sono accreditate dai più. Ma il fatto che siano accreditate dai più significa che sono necessariamente vere, o soltanto che in quella situazione si gioca quel gioco? Cambia moltissimo la posizione in una cosa o l’altra, perché se sono soltanto delle proposizioni accreditate, accreditate soltanto per giocare, allora non mi verrà mai in mente che a queste cose debba corrispondere chissà quale altra cosa, da qualche altra parte. Si è sempre cercata quest’altra cosa, da qualche altra parte, da Platone che ha pensato all’Iperuranio, a dio o a una legge universale che regola l’andamento delle cose. Una delle ultime trovate, dicevo tempo fa agli amici, è stata l’inconscio, nell’accezione così della vulgata, una sorta di entità da cui si dovrebbe essere come manovrati; come idea non è poi un granché tutto sommato, è poi molto antica, cioè l’idea che ciò che dico sia mosso da qualche cosa che mi trascende e di cui non so. O ci credo oppure no, in questa serie di incontri abbiamo adottato un criterio, che abbiamo già esposto in altre circostanze, e cioè quello di non accogliere nulla che necessiti, per essere accolto, di un atto di fede, e siamo stati costretti a scartare la quasi totalità delle cose che ci si ponevano innanzi, tranne appunto quella che vi indicavo prima e che abbiamo utilizzato per incominciare a riflettere, e cioè quella che dice soltanto quello che non può non dirsi per il fatto stesso che si sta dicendo. Detto questo certo non abbiamo detto un granché, non è che questo sia un criterio migliore o peggiore di qualunque altro, è semplicemente quello che abbiamo adottato, quello con cui giochiamo, per dirla così. Non ha nessun altra virtù, tranne forse questa, l’unica, che non comporta nessun atto di fede, ma semplicemente constatare che sto parlando e quindi se lo faccio esiste una struttura che me lo consente, nient’altro che questo. È già un primo avvio, un passo, incominciare a mettere in discussione quella struttura che sembra costringere a credere. Credere o non credere, forse si tratta di porre le condizioni perché la questione non possa più porsi, in nessun modo, cioè che non abbia più nessun senso, tranne quello che gli attribuisce il gioco lungo cui mi sto facendo questa domanda, ma allora so qual è il gioco che si sta giocando, ne conosco le regole esattamente come quando gioco a briscola o a tressette, ho fatto un pessimo esempio perché non conosco le regole né dell’uno né dell’altro, comunque sia potrei conoscerle. Se io per esempio mi agito e mi do un gran da fare per dimostrare o per convincere o per ottenere una qualunque cosa, non è che avendo migliori informazioni circa ciò che sto facendo io smetta di fare questo, posso benissimo continuare a farlo, ma ho un elemento in più a disposizione e cioè so che sto giocando quel gioco, e sapendolo posso conoscere anche le regole e non sono più travolto in modo tale da non sapere più cosa stia accadendo, non più di quanto lo sia giocando a scacchi o a qualunque altro gioco. Il linguaggio utilizza regole e procedure sicuramente molto più complicate del gioco degli scacchi, ma nulla al mondo mi impedisce di pensare che si tratti di un gioco anzi, ciascuna cosa mi porta a considerare questo, invece qualunque altra cosa mi impedisce di pensare il contrario, nel senso che non mi fornisce nulla né per provarlo né per supportarlo con una qualunque cosa, dal momento che questo “qualunque cosa” che dovrebbe servirmi per supportarlo è fornito dallo stesso gioco linguistico. Pensate dunque all’eventualità di non essere, di non potere essere in nessun modo travolti dalle cose. Cosa intendo con essere travolti dalle cose? Non potere più non tenere conto del gioco che si sta facendo. Posso anche essere travolto dalle passioni, da qualunque cosa, ma so di che cosa si tratta, nel senso che so perfettamente qual è il gioco che si sta giocando e non posso non saperlo. Sta qui la questione, il non potere non saperlo, e non potere non saperlo equivale esattamente a ciò che indicavo prima come il non potere credere, è esattamente questo. Come so che faccio qualcosa mentre parlo? Lo so perché tutti i pensieri, le immagini, le scene, le storie, le sensazioni, tutto quello che volete si produce dalle cose che dico, e cioè quindi dalle cose che vedo, che incontro, che mi vengono incontro, ciò che avviene, l’avventura, sarebbe più corretto dire le avventura, le cose che vengono incontro.
- Intervento:.. sull’etimo...
Si certo, per questo sarebbe più appropriato dire le avventura. Ora ciò che stiamo inseguendo da qualche tempo a questa parte, insieme con voi e altrove con gli amici, ha qualcosa di sorprendente, di sorprendente effettivamente, perché conduce al punto in cui non è più possibile non tenere conto di ciò che sta accadendo mentre parlo, cioè del gioco che si sta facendo in ciò che dico, come se, in altri termini ancora, ciascuna volta il discorso in cui mi trovo fosse lì, proprio per quello che è, senza la certezza o la supposizione (anche se poi non si formula in questi termini, nessuno pensa mai parlando a una cosa del genere), che le cose che dice abbiano qualche referente fuori dalla parola. Dico né lo pensa, né lo può pensare, se lo pensasse, forse già parlerebbe differentemente, né potremmo dire che sono soltanto parole, che non c’è altro, cioè “soltanto” rispetto a che?
- Intervento:...il problema della collocazione. Se le cose vengono dette da una donzelletta o da una scrittrice geniale...
La retorica le chiamava le auctoritates, e cioè per il solo fatto che alcune cose fossero dette da persone autorevoli, le cose diventavano autorevoli e importanti. È quasi un luogo comune dire che una persona nota, notissima per qualunque cosa, dice una banalità e sembra che abbia detta una cosa importantissima...
- Intervento:...
Perché un’affermazione come questa che afferma che l’essere é, in quanto tale non produce niente, uno può prendere atto di questa affermazione, importa in quale discorso questa è inserita, quali i risvolti, cosa viene articolato in seguito a questo, e cioè che cosa ce ne facciamo di questa affermazione “l’essere è”. Dice l’essere è, va bene, e allora? Si certo è un aspetto che può considerarsi, però una formulazione inserita in un discorso non è più la stessa in un altro discorso, cambia, diventa un’altra cosa.
- Intervento:...se un genio...
Si? Per quale via? È arduo arrivare. A meno che non vi sia un contratto preliminare, fatto di un infinita quantità di cose e allora questo che la Ginzburg chiamava il lessico familiare, cioè l’usare termini attraverso i quali ci si intende, diventa una sorta di lessico appunto, dove si coniano dei significati particolari a dei termini che usualmente hanno un altro significato, ma questo può farsi perché questi significanti hanno già un significato e allora è possibile inserire una variante, che è proprio esattamente il fondamento di qualunque artificio retorico, tutti i linguaggi in codice, per esempio, i linguaggi cifrati che si usano in guerra funzionano esattamente allo stesso modo: la gatta ha partorito quindici piccoli. Cosa vuol dire? Che le navi da guerra partano immediatamente e bombardino la costa sud ovest. Però perché l’altro intenda che debbono partire immediatamente le navi a fare quell’operazione, dicendo che la gatta ha partorito 15 piccoli, occorre che ci sia un accordo preliminare, di per sé non è così automatico...
- Intervento:...
Si certamente, diventa automatico quando si conosce molto bene, cioè quando si sa qual è il significato in quel particolare momento, che quella particolare persona attribuisce quella particolare formulazione. Così quando la mamma dice al bambino: se non la smetti ti rompo la testa, non gliela romperà realmente, sta dicendo di smetterla...
- Intervento:...
Di questo si occupa la retorica, noi adesso siamo ancora molto al di qua della retorica. E cioè ci occupiamo soltanto di alcuni aspetti che abbiamo detti essere strutturali e cioè non potersi non ammettere, non accogliere. Che cosa si faccia con tutti questi elementi, questi strumenti, riguarda un altro aspetto che è sterminato e che abbiamo indicato con la retorica. Stiamo ponendo la condizione perché la retorica esista, la retorica è una variante, stiamo cercando di riflettere su ciò che non varia. La retorica è una variante perché qualcosa non varia, se no, non sarebbe una variante, occorre un’invariante perché qualcosa vari, se no, non potremmo mai affermare che sia una variante, né dunque potrebbe darsi alcuna figura retorica. Questo non significa che di fatto esista un grado zero, come vuole Roland Barthes, abbiamo parlato un po’ di tempo fa di lui.
- Intervento: Vorrei parlare dell’inconscio che lei ha eliminato...
No, in una certa accezione, in una certa accezione non ha un grande interesse, però possiamo ridefinirlo...
- Intervento:...non c’è referente, vari linguisti...
Sa che qualcuno potrebbe obiettarle che se non esistesse il referente, lei non potrebbe fare questa affermazione? È solo così per giocare con il linguaggio...
- Intervento: Le regole del linguaggio non riescono a dire tutto...
Una certa accezione di inconscio, in effetti è un termine che anche se poco felice può essere utilizzato. Lei diceva, forse, ci sono altre cose a fianco alle cose che dico, forse, certo. Giustamente la poneva come una eventualità, come se ci fosse qualcosa che le fa pensare questo, cioè che lei non dice tutto, per così dire, che a fianco ci sono altre cose, certo, ma ciò su cui stiamo riflettendo è ancora molto al di qua, anche se poi riflettendo molto bene su queste cose risulta sempre più arduo andare al di là, ma sia come sia, che esistano cose a fianco, di sotto o di sopra alle cose che dico io posso pensarlo, lo posso dire. Posso dire che non è vero? Si posso negarlo e magari con argomenti non meno forti, anzi, sicuramente, e allora perché io dovrei dire una cosa del genere? Cioè perché, per esempio, esiste l’inconscio? Soltanto perché non so spiegarmi qualcosa? Non mi sembra un motivo sufficiente, e so spiegarmi la spiegazione? No, non per questo ricorro a qualche cosa che mi muova, badi bene io non sto né negando l’esistenza dell’inconscio, né affermandone l’esistenza, sto solo ponendo delle questioni. La lettura di Freud rimane di grande interesse, ed è anche molto suggestiva per molti aspetti, ma le cose che dice non ci esimono dal continuare a riflettere. Dice: esiste l’inconscio, cioè un’altra logica per esempio, che è al di là di quella che io constato. E perché? Perché, lui dice, esistono in ciò che faccio degli effetti che vanno al di là delle mie intenzioni, per esempio l’atto mancato, ma io posso darmi questa spiegazione dell’inconscio al pari di qualunque altra e al pari di qualunque altra non potrò provarla. Se io dicessi che è dio che mi ha mosso la mano quando ho rovesciato il bicchiere, evidentemente non posso provare una cosa del genere (nell’accezione di prova che viene fornita generalmente) né il contrario, e allora noi abbiamo incominciato a chiederci: dicendo che esiste l’inconscio, che cosa diciamo esattamente? E intanto, diciamo qualcosa oppure no? Come direbbe il nostro amico Frege, denotiamo qualcosa oppure no? Oppure enunciamo semplicemente una cosa che crediamo, così come possiamo crederne una qualunque altra, oppure diciamo qualcosa di più? Se si, che cosa? Sono queste le domande da cui siamo partiti, domande come vede molto semplici, chiaramente dopo avere letto Freud molte volte e con attenzione, occorre conoscerlo molto bene, proprio per questo abbiamo incominciato a porlo in discussione, ma a questo punto, ponendo in discussione l’affermare stesso, che sia di Freud o di altri, cioè che cosa faccio esattamente affermando una cosa del genere? In tutta la sua opera Freud, che è di grandissimo interesse per esempio per quanto riguarda l’esplorazione delle fantasie, ha cominciato a dire che ciascuno, muovendosi. parlando è preso da pensieri, da fantasie, da questioni continuamente, questo non è poco e ha anche fatto una lista molto precisa delle nevrosi o dei luoghi comuni, cioè delle risposte che le persone perlopiù si danno di fronte a certi problemi. Ne ha listato un numero notevole, dicendo anche come si connettono, si intersecano, si combinano tra loro, ma il problema sorge quando a tutto questo si cerca di dare un fondamento, e cioè dire che è così o che è necessariamente così, oppure ci si arresta alla considerazione che una persona afferma queste cose ma non tanto perché affermando queste cose afferma qualcosa di errato o di vero, per un certo aspetto ci è indifferente, ma perché le affermo, e che cosa mi muove ad affermare queste cose? E che cosa comporta che affermi questo? Cosa comporta nel suo discorso e quindi nella sua vita in definitiva, e se mai la sua vita, la sua esistenza, sia costruita a partire da qualche cosa a cui crede, così, apparentemente senza motivo. Perché quando uno dice delle cose, può accadere anche che ci creda a queste cose e cioè cominci a pensare all’inconscio, e allora crede che esista qualche cosa da qualche parte che funziona a quella maniera e in quei termini. C’è questa eventualità, e allora credendo una cosa del genere, questa o una qualunque altra, tutto il suo discorso, potremmo dire la sua esistenza, terrà conto di questa sua credenza, di questa cosa in cui crede e ne terrà conto per fondare altre credenze e così via, e cioè ciò che la volta scorsa indicavamo con discorso religioso, che è fatto di questo appunto. Tutto ciò che andiamo facendo non è altro che un’obiezione alla struttura del discorso religioso, il quale impone l’atto di fede.
Tutto qui per questa sera, grazie, ci vediamo venerdì quindici marzo con i Gesuiti.