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LA RETORICA NEL LINGUAGGIO

 

I luoghi comuni e l’impossibile uso delle parole

 

Sono i luoghi comuni che ci interessano questa sera. I luoghi comuni sono oggi, almeno in teoria, quei luoghi, quelle proposizioni e quelle affermazioni che sono riconosciute vere dai più e quindi possono essere utilizzate nelle conversazioni come cose acquisite e che ciascuna volta non occorre rimettere in discussione, perché tutti sanno che sono così. Gli antichi retori se ne avvalevano proprio per questo, perché essendo cose credute dai più, sono quelle che sono più facilmente utilizzabili per persuadere. Se io utilizzo, per persuadere qualcuno, le cose che già questa persona crede, la cosa sarà molto più facile e quindi più il discorso è riempito di luoghi comuni più è credibile. Così, almeno nella retorica tradizionale. Tuttavia i luoghi comuni dicono qualche cosa di molto interessante, cioè che gli umani si muovono, parlano, pensano a partire, tenendo conto, fortemente conto, di alcuni elementi che pure non essendo provabili in alcun modo, tuttavia sono ritenuti veri, necessariamente veri: tutti credono questo, allora deve essere così. Infatti quando uno si scontra, scontra la sua opinione particolare contro quella dei più che pensano altrimenti da lui, incomincia a pensare, ma forse sono io che sbaglio. Spesso avviene così. La retorica si avvale in buona parte di luoghi comuni. Aristotele per esempio, nei Topici, descrive il modo più efficace per persuadere un giudice, una giuria, fare in modo che ciò che si dice sia gradito alle orecchie del giudice o della giuria, e che questi sia naturalmente indotto a pensare che queste cose sono così perché sono sempre state e occorre che siano così. Ma c’è un altro aspetto curioso, la contrapposizione, che ciascuno di voi conosce, che esiste da sempre tra la retorica e la logica, oggi si direbbe più propriamente tra ciò che è scientifico e ciò che non lo è, ciò che è dimostrabile o dimostrato e ciò che non lo è, e quindi mentre la logica come è noto segue un percorso che è inferenziale, cioè segue nel modo più rigoroso possibile una serie di passaggi tali per cui la conclusione debba risultare il più possibile necessaria, la retorica no, non se ne occupa minimamente, e dunque la conoscenza che procede dalla logica è certa perché segue un procedimento inferenziale sicuro, affidabile, provabile, mentre la retorica no, non se ne preoccupa minimamente, e dunque la conoscenza che procede dalla logica è certa perché segue un procedimento inferenziale sicuro, affidabile, provabile, mentre la retorica no, la retorica dice che cosa? Descrive le cose, le dipinge, fa degli schizzi delle ipotiposi appunto, utilizza dei modi di dire per indurre alla persuasione. Perelman, che è un filosofo, distingueva e distingue tutt’oggi credo, tra la persuasione e la convinzione. Diceva: un teorema matematico convince, ma può non persuadere, cioè la convinzione punta alla ragione, alla capacità deduttiva, mentre la persuasione mira al cuore, cioè ai sentimenti, a muovere l’altro emotivamente, mentre un teorema matematico no, non si prefigge nemmeno questo. Ecco dunque, la retorica tradizionalmente si occupa della persuasione, la logica della convinzione, convincere attraverso argomentazioni stringate, o almeno apparentemente, però c’è una questione bizzarra che può considerarsi, la logica con tutto il suo apparato, in alcuni casi, molto potente di deduzione da dove trae gli assiomi da cui muove? Perché sapete che muove da assiomi e da questi assiomi procede in modo rigoroso. E questi assiomi sono altrettanto rigorosi oppure sono affermazioni assolutamente opinabili? Un problema che gli umani hanno incontrato da sempre, almeno da Aristotele in poi, che se non altro ha avuto il merito di formalizzare tutto questo. Cioè chi garantisce che gli assiomi siano veri? Perché se noi costruiamo un discorso rigoroso, ineccepibile ecc., ma costruito su nulla, allora avremo fatto tutto un discorso che può mostrarsi passo passo, che però non ci dice nulla di fatto e allora ecco la domanda circa questi assiomi. Inizialmente chi doveva garantire questi assiomi era ovviamente un’entità superiore, superiore agli umani affanni, alle umane cose e quindi dio, tutto sommato. Dio perché per esempio già gli antichi avevano pochissima fiducia nei sensi, nell’esperienza. Ad esempio Platone la tratta malissimo, come empiria, una cosa da praticoni, senza nessun fondamento, senza nessun costrutto, poi più in là invece è diventato il fondamento, al punto tale che a tutt’oggi lo stesso Popper pone i sensi, le sensazioni, quindi l’estetica a fondamento del conoscere, del sapere. Dunque la retorica si occupa propriamente anche di tutto ciò che sfugge alla logica, d’altra parte la logica, se reperisce nella retorica ciò che gli consente di incominciare a parlare e cioè questo primo gesto: io dico qualcosa, ma che cosa? E da questo farò tutta una serie di inferenze, ma intanto occorre che dica qualcosa, se no non posso inferire nulla e cosa dico? Ecco, la retorica si occupa di questo, però d’altra parte non potrebbe nemmeno darsi senza la logica, cioè senza uno strumento che consenta di dedurre una cosa dall’altra, di stabilire che questo è segno di quest’altro, come dire se c’è questo allora c’è quest’altro. La retorica senza logica non potrebbe andare da nessuna parte, non potrebbe giungere non dico a nessuna conclusione, ma neanche considerazione, d’altra parte la logica senza la retorica non sa da che parte cominciare. Comincio da che dunque? Da qualche cosa, ma questo qualche cosa non procede da nessuna inferenza precedente, è lì. Vico fornisce un curioso modo di pensare la retorica reperendo questo etimo, reor, ciò che scorre, panta rei, diceva Eraclito, intendendo così lo scorrere delle parole. Allora la retorica dice che le cose si dicono e ciascuna volta in un certo modo. I manuali di retorica cercano in qualche modo di codificare, di incasellare, di ordinare la retorica nelle cosiddette figure retoriche, ma le figure retoriche non sono un vezzo delle persone più raffinate, le figure retoriche sono soltanto i modi in cui le cose si dicono, né più né meno, e cioè ciascuna volta in un modo particolare. Io mi trovo a dire magari la stessa cosa dieci volte e tutte queste dieci volte in un modo differente, cioè usando figure differenti, usando modi, una disposizione delle parole differente. Possiamo considerare la retorica come una variante, in effetti la retorica è una variante, varia rispetto ad un uso immaginato non retorico, un’isotopia direbbe Greimas, Barthes aveva immaginato un grado zero che è quello che consente di passare il messaggio senza dire assolutamente nulla più di quanto non sia assolutamente necessario per la conservazione del messaggio, tutto ciò che è in più è retorico, è una variante. È da verificare se è proprio così, e cioè se si possa dare un grado zero, cioè il minimo messaggio che mantiene ciò che io intendo inviare all’altro, perché c’è l’eventualità che anche in questo minimo messaggio comunque ci sia una variante. Per esempio le polisemie, le ambiguità, la stessa inflessione cioè la prosodia che utilizzo per dire qualcosa è già una variante. Questione estremamente complicata questa della comunicazione, le idee correnti intorno alla comunicazione immaginano la possibilità della trasmissione di messaggi senza retorica. Potrebbe essere vano tutto ciò, qualcuno tempo fa mi parlava della comunicazione globale, quella che oggi si ama chiamare "villaggio globale" dove l’idea è quella che ciascuno possa essere in qualunque istante a conoscenza, attraverso una rete informatica ben organizzata, di tutte le informazioni possibili che possono reperirsi, naturalmente questo prevede che dall’altra parte ci sia l’intenzione di fornire questa informazione ma supponiamo anche che ci sia, ci sia questa intenzione di fornire tutte le informazioni possibili, qualunque esse siano, a questo punto mi trovo a disposizione una quantità sterminata di informazioni, ma queste informazioni senza di me che le ascolto non sono nulla, occorre che ci sia io che prenda queste informazioni e le faccia diventare qualcosa, le faccia diventare informazioni per esempio. Leggendo un dato, un fatto, come rispondo a questa informazione? Questione non indifferente. Ciascuno potrebbe dire che di fatto qualcosa del genere è già in atto, anzi con i media, la quantità di informazioni che sono a disposizione oggi sono sicuramente superiori di quanto fossero a disposizione cento anni fa, cento anni fa per sapere cosa stesse accadendo in quel momento a Bangkok era un problema, che se dobbiamo mandarci qualcuno a vedere, prima che arrivi...Esisteva il telefono cento anni fa? Era già un mezzo abbastanza rapido, diciamo centocinquanta. Dunque tutta questa massa di informazioni che si immagina che di per sé debba dire qualcosa, perché sta qui l’intoppo, questa è l’idea, che se uno ha le informazioni allora necessariamente fa in un certo modo, ma non è così automatico. Il fatto che oggi la rapidità e la possibilità di acquisire informazioni sia di gran lunga superiore a quanto lo fosse centocinquanta anni fa non ha comportato, né potrebbe farlo, un cambiamento così radicale del modo di pensare. Perché se io penso in un certo modo uno può darmi tutte le informazioni che vuole, io continuerò a pensare in quel modo e quindi a tradurre tutte le informazioni che ricevo in quel modo. Vi faccio un esempio molto semplice, prendete un malinconico o un depresso, questa persona penserà di sé di essere la persona peggiore di questo mondo e che non vi sia al mondo disgrazia sufficiente a purificarlo, per cui continuerà a pensare che qualunque cosa faccia sarà sempre una cosa stupida, inutile, senza senso. Diamogli delle informazioni, diciamo no, non è vero, perché hai fatto questa cosa, questa, questa, questa, e quell’altra, le persone mediamente fanno queste cose, quindi sei nella media, quindi le cose che hai fatte sono pregevoli, ne hai fatte altre spregevoli, come ciascun altro, dunque non c’è motivo per cui tu sia depresso, quindi cessa di esserlo. Abbiamo fornito le informazioni sufficienti. Non soltanto, possono fornirsi anche informazioni più potenti, cioè altre persone, più persone che gli confermano che non è affatto così, che non è affatto vero che è una persona indegna, inadeguata, inaffidabile, abominevole, abbietta, aberrante ecc. ecc., non è affatto vero, eppure continuerà a pensare di sé di essere tutte queste cose. Perché? Abbiamo fornito tutte le informazioni, non dovrebbe più pensare così e come accade invece che continui a pensare di essere la persona peggiore di questo mondo? È una bella questione, tutt’altro che semplice da affrontare. Intanto perché pensa in quel modo? Nessuno glielo ha ordinato, né lo ha tratto da chissà quale considerazione anzi, abbiamo visto che le considerazioni più logiche dovrebbero indurlo a pensare il contrario. Allora? E allora è un po’ come la retorica, che non punta affatto a convincere. Il buon oratore, il buon retore, il trascinatore di folle non punta mai a convincere, assolutamente mai, anzi è una cosa che cerca in tutti i modi di evitare, lui vuole persuadere. Sa benissimo che se persuade qualcuno, contro ogni evidenza, questo diventerà un fedele, un credente fortissimamente credente e anzi più ciò in cui crede è assurdo e più ci crederà fortemente. Tertulliano diceva: credo qui absurdum. Credo perché è assurdo. Il fatto di credere una cosa assurda che cosa dice? Dice della forza della fede. Credo che due più due faccia quattro, credere una cosa del genere non è che comporti uno sforzo immane. Prova a credere una cosa assurda, lì si misura la fede e una volta acquisita questa fede si stenta a mollarla. Eppure curiosamente gli umani si affannano l’uno con l’altro per convincersi, per mostrare delle argomentazioni logiche, ritenute tali, che una volta riconosciute debbano necessariamente indurre l’altro alla ragione, perché si fa appello alla ragione. Ma all’altro della ragione non gliene importa assolutamente niente, crede perché è assurdo, dobbiamo andare lì a convincerlo con la ragione? Non gliene importa nulla della ragione, mi risponderà: tieniti tutte le tue ragioni, io continuerò a credere le cose a cui credo. D’altra parte sul pianeta, grosso modo i quattro quinti della popolazione se non di più, credono in qualche cosa, qualunque cosa sia non importa, questa cosa in cui credono non è provabile né dimostrabile in alcun modo, allora come avviene che la quasi totalità degli abitanti del pianeta si trovi a credere più o meno fortemente e saldamente a qualcosa che in nessun modo è provabile. Basterebbe una considerazione come questa, talmente banale, a far riflettere su questo, il ragionamento cosiddetto logico non ha nessuna forza persuasiva, non persuade nessuno. Prendiamo un fatto banalissimo: dio esiste. Posso provarlo? Quindi non ci credo. Ma non avviene proprio esattamente così. Voi provate con un fervente cattolico a fargli questo discorso... Ed è curioso questo fenomeno. Alcuni hanno immaginato che gli umani abbiano una naturale tendenza a credere, ma non soltanto, che vogliano anche esattamente questo e trovano sempre qualcuno che gli offre qualcosa in cui credere. Considerazione che non ci porta molto lontani in quanto dovremmo credere anche a questa. Tuttavia la retorica ci dice una cosa di un certo interesse, se io devo persuadere qualcuno a fare qualcosa, e chiaramente devo farlo contro la sua volontà oppure contro la sua pigrizia o contro la sua ignavia, perché se lo fa già di sua volontà non c’è bisogno di fare niente, allora in quel caso dovrò trovare dei modi per persuaderlo, abbiamo detto che utilizzare la ragione serve molto poco, perché l’altro conosce già perfettamente tutti questi argomenti, se li è già detti mille volte, non gli importa nulla, e allora usare la persuasione. E cioè che cosa esattamente? Proposizioni che confermando le cose in cui crede gli mostrino le stesse cose in cui crede in un modo leggermente differente. In modo tale che nulla urti la sua fede, perché se urta la sua fede si blocca immediatamente. Già Aristotele suggeriva questo nei processi, dire cose morbide, che non urtino mai, che non vadano mai contro un’opinione, se l’altro si irrigidisce e incomincia a dire di no non se ne viene più fuori quindi, si, tutto quello che credi è assolutamente vero e comporta tutto quello che dici, ma in più comporta anche questo, l’altro dice: già è vero. E dice che è vero per ragionamento logico, un’inferenza, un’implicazione. Perché noi diciamo: se questo più questo, più quest’altro danno questo...(dice si è vero, però dando questo allora questo dà anche quest’altro) dice si è vero anche quest’altro. Bene a questo punto ha un elemento in più a cui credere, che non soltanto si aggiunge ma conferma anche i precedenti. Quindi la sua fede risulta rinforzata, cioè farà ciò che noi vogliamo che faccia. Lo farà convinto di fare qualcosa che non può non fare, perché è esattamente quello che lui vuole fare, questo è l’obiettivo ideale di tutta la retorica, persuadere facendo in modo che l’altro sia lui stesso convinto di volere fare ciò che gli si impone di fare. Perché posso convincerlo anche con la forza, ma magari poi si ribella, se invece è lui che è convinto non si ribellerà mai anzi, lui stesso eliminerà tutti quelli che non ci credono. Una meraviglia. In effetti funziona esattamente così, da tremila anni, perfettamente, come un orologio svizzero. Allora considerando questo, che tutto sommato è molto poco quello che abbiamo detto fino a questo punto, possiamo fare un’altra considerazione, che la stessa retorica ci invita a fare. Sapete, le figure retoriche servono anche ad abbellire il discorso, allora più che retorica tendenzialmente si usa chiamarla stilistica, però è un confine sempre molto labile. La stilistica rende il discorso più bello, cioè più gradevole, più accattivante, cioè più credibile. Sta qui la questione bizzarra, che una cosa detta molto bene risulta molto più credibile di un’altra assolutamente vera, o ritenuta tale, ma detta malissimo. Questo è un altro fenomeno bizzarro, perché una cosa molto ben detta risulta più credibile, più verosimile. Se ci riflette la questione è molto semplice e che gli antichi oratori conoscevano molto bene. L’oratore parla e sa che chi lo ascolta è preso dalle parole, cioè segue il discorso, se queste parole producono immagini, queste immagini che si vanno producendo attraverso artifici retorici riconosciuti, queste immagini dunque che si producono rendono reale, concreta la cosa, come se fosse lì presente. Esiste una figura retorica che ha questa funzione in modo particolarissimo, l’ipotiposi di cui dicevo prima, che letteralmente è uno schizzo, come fare uno schizzo, come fare uno schizzo su un foglio di carta. Com’è quella casa che hai vista l’altro giorno? Uno prova a descrivere e dice: ti faccio uno schizzo, così la vedi meglio, e in effetti la vede meglio, è lì, proprio fatta. Ecco questa è una figura retorica, di fronte a una cosa del genere chi ascolta non ha più, o pensa di non avere più delle parole ma, effettivamente, "la cosa", che gli si produce lì davanti. Allo stesso modo avviene quando legge un bel romanzo o una bella poesia, produce delle immagini che sono reali, sono concrete, certe volte più concrete di ciò che si incontra quotidianamente per strada. Talmente evidenti che non può non essere vero e quindi deve essere così, perché io mi sono configurato la cosa in questo modo: se l’ho pensata così esiste ed è reale, così come è reale questo bicchiere, allo stesso modo e quindi crederò. Ma la retorica fornisce anche un altro strumento, non meno potente del primo e cioè quello stesso che io ho indicato, che mi fornisce il sapere che questa persona sta utilizzando, nel parlarmi, delle figure retoriche che conosco e che posso utilizzare allo stesso modo e forse anche meglio, a questo punto la persuasione diventa più ardua, non mi si produce nulla che io creda reale, mi si producono delle immagini, indubbiamente, se l’oratore è sufficientemente abile, ma io so perfettamente che queste immagini che mi si producono sono un effetto delle parole, nulla più di questo. Questo né mi persuade, né non mi persuade. Posso essere compiaciuto della abilità o della bellezza del romanzo o della poesia, ma questo non mi costringerà a credere che sia vero tutto ciò che mi si dice, anche se detto in un modo straordinariamente elegante, accattivante ecc. Sto dicendo questo, che la retorica in quanto tale fornisce simultaneamente degli strumenti per persuadere e allo stesso tempo degli strumenti per non essere persuasi. Questione antichissima questa, diceva una vecchia barzelletta che due sciamani quando si incontrano si mettono a ridere perché ciascuno sa della menzogna dell’altro. Non è tanto questo che ci interessa, quanto riflettere su una questione molto più importante, e cioè non tanto di ciò che ciascuno può acquisire, di cui può essere persuaso da parte di altri, ma di ciò che è persuaso da ciò che lui stesso dice. E qui inizia una questione tutt’altro che semplice e cioè come ciascuno parlando si persuada. Cioè possa letteralmente costruire, quasi dal nulla una credenza, una religione, una superstizione, prendendo frammenti qua e là, mettendoli insieme e costruendo una cosa a cui crede fortissimamente. Qui sta la questione interessante della retorica, che non dice soltanto quali strumenti utilizzare per persuadere il prossimo, cosa che tutto sommato è marginale, ma per quale via, per quale motivo accade che qualcuno sia persuaso oppure no, e allora dunque che cosa esattamente persuade e a quali condizioni è possibile che questo avvenga, cioè che io mi persuada di qualche cosa, questo è molto più interessante. Perché mette in gioco di fatto tutto ciò di cui io sono fatto, e sono le cose che dico, le cose che penso, che faccio e tutte queste cose posso farle in vari modi secondo le cose di cui sono persuaso, in definitiva delle cose che credo. Dicevamo prima che un discorso ben costruito ha un forte potere persuasivo. Quando io mi faccio tra me e me tutto un bel discorsetto e arrivo ad una bella conclusione attraverso dei bellissimi passaggi logici, allora è proprio così, perché tutto fila e non fa una grinza e quindi necessariamente è così e quindi credo necessariamente questo...Può essere una stupidaggine colossale evidentemente, però segue a qualche cosa in un modo ineccepibile o che ritengo tale, magari altri invece possono eccepire moltissimo, però per quanto mi risulta è ineccepibile, mi sono fatto tutto il ragionamento, che fila perfettamente, liscio come l’olio e quindi non può essere falso, perché una cosa falsa non fila così liscia. Certe volte si fanno dei ragionamenti che sembra che procedano quasi da soli, quasi si incastrano l’uno con l’altro, come in un mosaico, ecco se metto insieme tutte queste cose allora è evidente quest’altro. Un modo di pensare del genere è, se voi ci pensate bene, una follia perché ciò che ho costruito in modo che mi immagino essere assolutamente ineccepibile è assolutamente nulla se non una superstizione che muove da altre superstizioni, evidentemente. Un ragionamento che fila liscio che cosa mi dice? Nulla salvo che immagino che da ciascun elemento che considero debba necessariamente seguire quell’altro, ma lo penso io. Come so che è esattamente così? Chi me l’ha detto? Perché immagino una cosa del genere? È come se infilassi una superstizione dietro l’altra come se fossero perle. Ci sono occasioni in cui questo infilzare le perle segue così bene che sembra vero. Cioè sembra vero nel senso che sono portato a immaginare che sia vera una cosa che tutto sommato, kantianamente non è altro che non contraddittoria. Prendete un discorso di questo genere, di fronte a un bicchiere bianco come questo dico: tutti i bicchieri sono neri, questo è un bicchiere quindi è nero. Perché no, dice non è nero, come no, lo è. Sembra un discorso folle, potrebbe anche esserlo e forse lo è, ma non meno di qualunque altro che si ritiene invece molto più fondato. Il fatto è che mi trovo a credere le cose che a mio parere, a mio insindacabile giudizio sono concludenti, cioè giungono a una conclusione che non è autocontraddittoria, il che potrebbe anche accogliersi tutto sommato, esistono procedure linguistiche che costringono a una cosa del genere, nel senso che non posso affermare e negare simultaneamente una stessa cosa se non muovessi dal sapere che è la stessa e cioè che c’è un’identità, non posso stabilire una variante se non c’è qualcosa che non varia, se no è una variante rispetto a che? Già questa semplicissima inferenza che ho fatta è un’inferenza logica, segue necessariamente, cioè non potrebbe essere altrimenti. Ma se io dico: tutti i bicchieri neri quindi questo è nero quindi questo è nero, come inferenza funziona, è corretta, la questione è che il bicchiere non è nero, un dettaglio, e cioè l’assioma da cui sono partito lo potremmo considerare "falso" fra virgolette, ma la deduzione è corretta, e allora che cosa dobbiamo dire con questo? Esattamente, come dicevo prima, la deduzione è corretta quindi è vero. Si ma l’assioma da cui sei partito è falso. Quale assioma? Chi lo sa qual è l’assioma di un discorso, da che cosa muovo esattamente, poi una volta stabilito o reperito questo elemento da cui parto che ne faccio, che ne ho? Nulla, soltanto un’asserzione che io credo vera ma, potrebbe dire qualcuno: allora se devi essere coerente perché credi soltanto alle cose che non sono autocontraddittorie, questo nel caso del ragionamento, per la fede è un altro discorso, allora anche l’assioma dovrebbe essere esposto allo stesso criterio, e questo non può farsi, e allora, molto razionalmente, costruisce un discorso logicamente perfetto che non dice assolutamente nulla, niente, perché l’assioma da cui parto non è né vero, né falso non è niente, stabilisce una cosa, potrebbe stabilirne qualunque altra. Però a questo punto mi troverei in difficoltà perché non potrei più non domandarmi, parlando, che cosa faccio, che cosa sto facendo esattamente. È una cosa bizzarra il linguaggio, abbiamo detto varie volte, consente di fare una quantità sterminata si cose, altre no. Altra questione banalissima, che può avere delle implicazioni notevoli, poco che ci si rifletta: se non c’è uscita da linguaggio allora, quando io considero una cosa, come questo aggeggio qui, questo aggeggio qui io so che esiste, ecco lo vedo, se uno me lo da sulla testa mi fa male, insomma tutta una serie di elementi ho a disposizione, questi elementi di cui dispongo sono nella parola o sono fuori dalla parola? Se mi dico che sono fuori dalla parola allora come lo so? Perché per potere accedere a un qualche cosa, per poter dire che questo è qualche cosa, occorre che ci sia una struttura che mi consenta di fare questa operazione, se non c’è non c’è nessun mezzo che mi consenta di mettermi in contatto con questa cosa e quindi non potrebbe porsi nemmeno la domanda che cosa sia questo, non potrei chiedermi nemmeno se esiste, non potrei chiedermi nulla, non potrei domandare niente né considerare niente. E se è nella parola? Se è nella parola allora si, posso dire che è un aggeggio, un registratore, che sta girando, che è fatto di plastica suppongo e tante altre cose. Ma con questo che cosa dico? Dico, definisco o descrivo una realtà, quale? Una realtà che a questo punto dovrebbe essere fuori dalla parola, se no siamo da capo. E come accedo a questa realtà? I padri della chiesa sono andati fuori di matto per risolvere questo problema, un problema gravissimo, perché se dio ha dato tutto a piene mani, a profusione ecc., come avviene che gli umani ricevano o possano ricevere qualche cosa da dio? Attraverso che cosa? Qual è il mezzo attraverso cui avviene questo passaggio, questioni complicate. Ecco allora la dottrina dell’emanazione su cui si fonda tuttora in buona parte il discorso scientifico, cioè gli oggetti emanano qualcosa ma...e perché emanano? Di per sé, già i padri della chiesa, che erano fini, si erano accorti che è poco sostenibile questa cosa, allora occorre dio, lui fa emanare dall’oggetto qualche cosa, perché se non lui, che cosa emana? Il problema di trovare qualche cosa che consenta il sapere, in definitiva. La fatidica domanda che si poneva Wittgenstein: come so di sapere? Che non ha nessuna risposta, assolutamente nessuna. Per quanto ci si possa sbizzarrire a cercarne, potete farlo se volete, non ne troverete nessuna, nessuna che possa porsi a fondamento, poi uno può pensare quello che gli pare, ma che possa razionalmente essere posta a fondamento di qualche cosa. E se in nessun modo posso stabilire come so di sapere allora l’affermare che so qualcosa che cosa dice esattamente? Cosa dovremmo intendere dicendo questo, che so qualcosa? Ecco, la retorica di cui stiamo parlando si occupa di tutte queste cose, dicendo che cosa? Che sono produzioni linguistiche, che sono figure. E se dicessimo che la realtà, così come è intesa tradizionalmente è una figura retorica? Cosa diremmo con questo? Potremmo sostenerlo facilmente o difficilmente? Molto facilmente, molto difficilmente potremmo sostenere il contrario. Ci troveremmo immediatamente di fronte ad aporie, a regressi all’infinito, a petizioni di principio, cioè tutta una serie di cose che ci sbarrano il passo. Se invece affermiamo che è una figura retorica non c’è nessun problema, però c’è qualche implicazione non da poco. Se un bravo oratore mi descrive, un oratore o un bravo scrittore, ce ne sono a bizzeffe di ottimi scrittori, mi descrive le cose in modo meraviglioso, che mi sembra di essere lì, proprio nel luogo che lui descrive, io sono preso da questa descrizione, da queste parole, da queste figure, che per me sono reali. Ma finché si tratta di leggere un romanzo, la mia religiosità non è ancora messa in atto, si scatena invece di fronte al cosiddetto mondo esterno, poi c’è quello interno che sarebbe quello qui dentro, che non abbiamo mai visto, anche le radiografie sono molto insoddisfacenti. Ecco di fronte al mondo esterno allora si scatena tutta la religiosità e cioè la necessità di stabilire che cosa è vero, che cosa è reale e che cosa no. Utilizzando criteri di volta in volta molto bizzarri, molto singolari, sempre molto evanescenti. Dicendo che la realtà cosiddetta, è una figura retorica, potremmo dire anche questo, che questo significante, questo termine "realtà" ha un uso che indica che cosa? Semplicemente le cose che incontro, ma non mi dice affatto che queste cose siano fuori dalla parola, ad esempio, posso pensarlo religiosamente ma di per sé un significante come realtà, un termine, di per sé non è che dica un granché, un suono, sta a chi lo ascolta, ritorniamo alla questione della comunicazione, decidere che cos’è esattamente per lui in quel momento. Allora io so che cos’è la realtà, anche se non so come lo so, tuttavia lo so, dicendo che lo so utilizzo un significante e quindi una procedura linguistica in definitiva, senza nessun riferimento a nulla al di là di questo, semplicemente indico, che cosa? Che questo elemento si dà nella parola e viene utilizzato in questo modo, solo questo. Qualunque altra cosa non è sostenibile, ma questo sarebbe il meno, la questione è che se la realtà si pone come figura retorica, allora so che è la realtà, ma non ci credo, io posso sapere una cosa ma senza crederci, ed è una questione che può sembrare marginale ma potrebbe risultare centrale in tutto quello che stiamo facendo. Wittgenstein sosteneva che ciò che so è ciò che credo, non c’è nessuna differenza, potrebbe non essere esattamente così, perché nel modo in cui lo utilizza lui, il sapere ha ancora un aggancio a qualcosa di extralinguistico, mentre io so, cioè constato che sto utilizzando una procedura e che è questo, una procedura linguistica, ma non credo, cioè non attribuisco alla procedura linguistica nulla al di fuori dalla parola, nulla cioè che mi costringa a credere, a credere cioè dare il mio assenso incondizionato. Posso darlo il mio assenso ma molto condizionato, così come do il mio assenso quando qualcuno mi dice, giocando a scacchi, che questo pupazzetto è un re, io non faccio nessuna obiezione, (il re un pupazzetto di legno di avorio quello che è, non è un re), non faccio queste storie, perché? Perché accolgo un gioco, un gioco linguistico in cui questo pupazzetto ha questo uso. E se considerassi anche la realtà come un pupazzetto che ha questo uso? Il pupazzetto qui non ha nessuna connotazione negativa, è soltanto un altro modo per indicare una figura retorica. Il famoso Don Abbondio non aveva certo un cuor di leone, tutti i manuali di retorica lo riportano come esempio della litote, la litote è una figura retorica che consiste propriamente nella negazione di un’iperbole. Faccio un’iperbole, questa persona è straordinaria, è intelligentissima, poi la nego dicendo: questa persona non è intelligentissima. Perché faccio un’iperbole per poi negarla? Sarebbe bastata una negazione, allora faccio una cosa in più, che aggiunge qualcosa e dice un’altra cosa effettivamente, cioè mi consente di usare un termine in modi differenti e dice tutto sommato che non c’è un grado zero. Però è tardissimo, mi piacerebbe che ci fossero anche delle questioni da voi, poi magari riprendiamo. Chi vuole dire qualche cosa, così, giusto per proseguire in forma dialogica? Chiaro che quando dico: so ma non credo, utilizzo il significante sapere in un’accezione particolare, che non attribuisce nulla di metafisico e ontologico al sapere, è un sapere che non dice come stanno le cose, proprio per nulla, dice anzi che le cose stanno così come ciò che sto dicendo impone e che non ho nessun altro mezzo per dire altro fuori di questo, questo dice il sapere posto in questi termini. È una procedura. Come so che dicendo "prima" implico l’esistenza di un "dopo"? Non è che esiste ontologicamente da qualche parte, è una regola grammaticale, una procedura. Da qui tutta la filosofia si è arrovellata: se c’è l’essere allora c’è il non essere, ma se è il non essere è pure qualcosa, ecc...quindi è. Parmenide, duemilacinquecento anni fa, già si dava un gran d’affare intorno a questo, evidentemente ponendo ciascun elemento linguistico come un elemento fuori dalla parola e che quindi necessariamente deve essere identico a sé, e non mutevole, non mutabile dalla parola. Qualunque cosa io dica immaginando che sia fuori dalla parola immediatamente mi trovo di fronte a un paradosso, immediatamente e sopra tutto inevitabilmente.

Interv: Quando uso il linguaggio per descrivere una realtà esterna, quale collegamento logico posso fare per intendere, fra il linguaggio che uso per descrivere quello che sto descrivendo e la realtà stessa.

La questione è che la realtà che descrivo in quel caso è già di per sé un’altra descrizione, sto descrivendo un’altra descrizione. Freud aveva inteso una cosa del genere a proposito dei sogni, quando uno racconta il sogno, che cosa racconta esattamente? Perché il sogno non c’è più che a frammenti, ma anche questi frammenti non sappiamo se sono accaduti oppure no, in quel momento oppure se sono stati ricostruiti in seguito, uno non sa mai se ciò che ha sognato è avvenuto nel sogno o se è stato costruito immediatamente dopo, non ha nessun modo per potere stabilire una cosa del genere, e quindi il sogno propriamente è il racconto del sogno, giungeva a dire una cosa del genere. Cioè che non c’è altro, c’è il racconto del sogno, quello. E così la descrizione della realtà esterna, questa realtà esterna cosiddetta è già una descrizione in quanto perché noi possiamo dire che è una realtà esterna, già compiamo una descrizione, già diciamo qualche cosa che è una serie di proposizioni. La descrizione è possibile all’interno di una struttura, se no, non si può porre neanche il problema di descrivere oppure no. Che se no, come spesso avviene, si immagina che la descrizione descriva qualche cosa che è fuori dalla descrizione. E se fosse la descrizione a costruire ciò che la descrizione descrive? Questione molto prossima a ciò che affermava Derrida. Anche perché è straordinariamente difficile affermare il contrario. Se ci immettiamo lungo quella via effettivamente, come dicono i padri della chiesa, solo dio può soccorrerci, se no, se no il discorso comincia a girare in tondo, su sé stesso e non viene più fuori da nessuna parte, aporie e ritorni all’infinito, cioè gira letteralmente su sé stesso. Così come quando la parola vuole inseguire se stessa fuori dalla parola, con che cosa si insegue? Evidentemente con sé stessa.

-Intervento: La parola non può dire dove nasce, non può spiegarsi...

Può fare questo e molto altro, per esempio posso dire che la parola nasce da Venere, e così ho detto dove nasce la parola. Ma come Lei avverte immediatamente c’è un inghippo in tutto ciò, perché avrei potuto dire qualunque altra cosa e quindi si pretende che ciò che dice la parola possa essere provato oppure creduto, allora in quel caso la parola nasce da Venere va bene, uno crede che nasca da Venere, nessuna obiezione, uno può credere quello che vuole, ma se invece questa affermazione deve essere provata allora ecco che succede un fatto strano e cioè che io posso si, inseguire la nascita della parola, qualcuno lo ha anche fatto, seguendo le lingue, latino, il greco, l’aramaico, l’ittita fino all’indoeuropeo di cui non c’è certezza che neanche sia mai stato parlato, una costruzione teorica, un gioco divertente. Benveniste per esempio si è divertito molto, ha fatto anche un Dizionario delle lingue indoeuropee, indicando qual è l’etimo di un certo numero di parole, fra le più interessanti, qual è l’etimo indoeuropeo cioè da che cosa viene una parola. Che sia così o che non lo sia non lo sapremo mai, però può essere divertente. Allora la parola che cerca la sua origine che strumenti utilizzerà per compiere questa operazione, utilizzerà sé stessa. Cioè facendo che cosa esattamente? Nel cercare la sua origine continuerà a dirsi, né può fare altrimenti, per cui una domanda come questa, da dove viene la parola, al pari di quell’altra che chiede se è possibile uscire dalla parola non ha nessuna risposta possibile, cioè ha molte risposte ma nessuna che non sia negabile con estrema facilità, allora a questo punto interviene la fede, cioè io credo che sia così, e allora va bene, però posso credere questo o qualunque altra cosa indifferentemente, ed è anche questo che dice la retorica tutto sommato, ciascuno può credere quello che vuole, non c’è nessun problema, qualunque cosa e il suo contrario, hanno esattamente lo stesso valore, però intervengono altri elementi che si aggiungono a questi, che però c’è l’eventualità che possano subire la stessa sorte...

-Intervento: Lei parlava del grado zero di Barthes, me lo può ripetere?

Ecco Lei immagini un discorso, un discorso che suppone di volere trasmettere qualche cosa, cioè un’informazione, prendiamo tutto questo discorso e togliamo tutto ciò che non è necessario alla trasmissione del messaggio, ecco, quello che rimane è il grado zero, cioè quello che rimane è quello a cui non può togliersi nulla senza che il messaggio vada perduto.

-Intervento: ...e quindi una informazione potrebbe passare al di là della retorica...

Si, tutta la filosofia del linguaggio anche la semiotica negli ultimi anni si è data molto da fare intorno a questo e potremmo anche dire che un messaggio passa sempre, inevitabilmente. Il problema che sorge è quale messaggio? Che cosa passa esattamente, passa un messaggio: chi lo recepisce, dall’emittente al ricevente qualcosa accade. Chi riceve, riceve che cosa esattamente? Paul Grice ha fatto delle cose interessanti, in fondo molte cose sono riprese anche da Austin, Wittgenstein tutta questa corrente di pensiero ha detto delle cose notevoli D. Davidson e altri. La questione tuttavia rimane, forse quella che ha aperta Wittgenstein e che per qualche verso lo stesso Austin ha ripreso, cioè dell’intenzione, cioè che cosa voglio fare esattamente facendo questo...si, viene recepito in alcuni casi e effettivamente è così. Ma se qualcuno mi chiede un bicchiere d’acqua io glielo do, se ce l’ho a portata di mano, quindi il messaggio si è trasmesso perfettamente. Ma la questione non è questa in effetti e cioè la risposta a un messaggio che viene inviato, risposta anche adeguata, se uno mi chiede un bicchiere d’acqua io glielo do, quindi ho recepito perfettamente. Ciò che interessa è un aspetto che sorge nell’invio del messaggio e che riguarda tutto ciò che viene fatto dicendo questo, per esempio la richiesta di un bicchiere d’acqua può essere fatta anche senza avere nessuna sete, soltanto per chiedermi qualcosa, per attirare la mia attenzione, o per fare altro, e allora interviene un altro elemento in questo caso. La questione che ci si può porre è questa, cioè se in ciascun caso ciò che si fa esattamente parlando vada molto oltre ciò che si dice, ciò che il messaggio che invia, il messaggio nudo e crudo, non è mai il unicamente un’emissione di un’informazione. Ciascuna volta che parlo produco una quantità notevole di elementi, per esempio il fatto che io vi racconti tutte queste cose. Perché? Perché voglio che le sappiate, perché mi diverte dirle, perché non avevo di meglio da fare questa sera, perché dicendo queste cose mi trovo a trovare altre cose in ciò che sto dicendo? Diciamo che l’intenzione non è del tutto marginale. Questo non toglie nulla al fatto che dicendo delle cose voi intendiate ciò che si dice, ma che cosa intendo esattamente? Questione che pure è molto antica, di straordinario interesse, perché il messaggio che viene inviato, supponendo che sia un messaggio, produce nel ricevente un effetto. Questo effetto, o meglio, di questo effetto che cosa so? Posso sapere soltanto ciò che posso trarre dal fatto che l’altro ha utilizzato una procedura linguistica, niente più di questo, ma che cosa sia avvenuto esattamente in tutta questa operazione non posso saperlo. C’è un accordo sulle procedure linguistiche come se giocando a scacchi io faccio una certa mossa e l’altro risponde facendo un’altra mossa. È esattamente la stessa cosa? Semplicemente stiamo ponendo in atto una serie di procedure, cioè una struttura che è il linguaggio. La difficoltà sta nel dire se avviene qualcosa di più di questo e se no, cosa questo implichi. Lì in effetti il problema che si pone è notevole, perché l’idea è sempre quella che, dicendo delle cose, passando un messaggio si porti appresso anche la cosa, la cosa in sé. Cioè il fatto che descriva, come si diceva prima, qualche cosa oppure abbia un referente da qualche parte, cosa che fornirebbe a tutta questa operazione un senso che va al di là dell’operazione stessa, l’operazione sarebbe soltanto un mezzo, un tramite. Ma se non fosse così? Cosa ci dice che potrebbe non essere così? Il fatto che sia così non è provabile in nessun modo, cioè che le cose che io dico abbiano un referente da qualche parte. In definitiva cosa potrebbe comportare una considerazione tale per cui io mi trovi costretto a considerare che ciò che dico non esiste fuori dalla parola? In questo caso anche l’implicazione è soltanto una procedura linguistica che non riflette nulla: se questo allora quest’altro, è soltanto una regola.

-Intervento: Non è una regola che appartiene alla realtà?

No. È una regola che consente di parlare della realtà, senza queste regole non posso parlare né della realtà né di altro, e neanche pormi la questione.

-Intervento: Però per esempio, l’implicatura, l’implicazione logica e la logica verofunzionale, comunque sono applicabili all’universo mondo al di là del linguaggio...

Questo è un escamotage che fanno i logici, in effetti tutti i mondi possibili sono tutti mondi costruibili logicamente, logicamente cioè dalle proposizioni che sono le proposizioni che li costruiscono altrimenti non potrebbe neanche porsi la questione.

-Intervento: Non tutto il linguaggio è rappresentabile attraverso proposizioni. Da un lato Austin, Searle, pongono il performativo cioè che con il linguaggio si fanno le cose, quando io battezzo compio un atto, che non può essere controllato dal vero e dal falso ma se mai di felicità o infelicità. Dall’altro Lei parlava di referente, la parola ha un referente quando parliamo di metalinguaggio, il problema che si pongono i logici, il problema della verità del linguaggio, come possiamo noi parlare veridicamente, dell’universo mondo del linguaggio anche quando questo presenta delle ambiguità?

Si certamente. Infatti è proprio di questo che parleremo nel prossimo incontro, La logica nel linguaggio, cioè esattamente cosa fanno le parole.

 

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