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LUCIANO FAIONI

 

Il linguaggio, la psicoanalisi

 

 

L’idea era quella di parlarvi di linguaggio, di psicoanalisi soprattutto, di teoria del linguaggio, poi il mio amico Callegari mi ha suggerito invece di parlare dell’ideologia, come dice il titolo “La psicoanalisi e la fine dell’ideologia”. Si potrebbe anche mettere una copula: “La psicoanalisi è la fine dell’ideologia”. Adesso vedremo perché. Ma intanto vi dirò che cosa intendo qui con ideologia: un insieme di credenze, di valori, condivisi da un gruppo di persone, e questa ideologia serve anche per l’azione perché questi gruppi di persone credono e di conseguenza si muoveranno in una certa direzione. Perché una ideologia funzioni è necessario che ciò che l’ideologia afferma sia creduto essere vero, direi che è fondamentale, se no non funzionerebbe, quindi ciò che dice una ideologia è come stanno le cose, mostra come stanno le cose, e il più delle volte fa di tutto perché questo pensiero si imponga anche su altri, anche perché se qualcuno ritiene che ciò che pensa sia vero fa in modo che questa cosa sia condivisa anche da altri, poi ne vedremo le implicazioni. La questione centrale in tutto ciò è che una qualunque ideologia per potere affermare come stanno le cose, deve affidarsi a un qualche cosa che garantisca della verità di quello che sta dicendo: cos’è che garantisce della verità di ciò che si dice in linea di massima? La realtà. Come dire che io vi sto dicendo come stanno le cose perché la realtà è questa. La realtà, direi per definizione, nel discorso occidentale rappresenta il vero, ciò che è necessariamente, assolutamente vero, se qualcosa è reale è anche vero, dunque qualunque ideologia necessita di questo concetto di realtà per potere sostenersi, per potere garantirsi, e cioè per potere dire: “guardate che le cose stanno come io dico perché le cose stanno così, sono così”. Non c’è nulla di più semplice, però può accadere che la realtà possa anche essere messa in discussione e allora occorre trovare una garanzia, ma come? Sono circa tre mila anni che gli umani si sono impegnati a sapere che cos’è la realtà, che cos’è l’oggetto, cosa sono le cose, un percorso che è partito grosso modo da Parmenide ed è proseguito fino a Sartre, intorno a quel qualche cosa che dovrebbe garantire, che dovrebbe dire perché un qualche cosa è quello che è; perché un ente è quello che è in definitiva, qual è l’Essere dell’ente. Pensate a tre mila anni di filosofia per potere stabilire soltanto questa cosa, una volta per tutte, in modo definitivo. A che cosa è approdata questa ricerca? Una ricerca immensa che ha coinvolto anche persone di notevole intelligenza e tempra, dove ha condotto dunque? A nulla. C’era un problema connesso a questa ricerca e di cui adesso parleremo, ma in tutto questo tempo nessuno si è accorto di un fatto importante, salvo Nietzsche. Fu il primo ad accorgersene. Nietzsche ha considerato che questa ricerca intorno alla verità, alla realtà da parte delle filosofia, non è esattamente una ricerca pura, fine a se stessa, nobile, non esattamente, ma è un modo per assicurarsi il potere. Chi conosce la verità ha il potere, e per questo motivo, stando a Nietzsche che mi pare abbia colto bene la questione, per questo motivo dunque gli umani hanno sempre cercato la verità, di conseguenza la realtà, il come stanno veramente le cose, per avere potere: “chi più sa più vale” diceva il nostro amico Dante. Il problema è che non si sia mai riusciti a trovare che cosa siano veramente le cose, ed è stato molto irritante per tutti questi millenni, e molte persone si sono irritate. Uno degli ultimi è Husserl, che invitava le persone, con passione, ad andare “alle cose stesse”, ma anche questo invito, per quanto appassionato, risulta arduo da porre in atto. Quali sono le cose stesse? Chi decide che una certa cosa è quello che è? Ci vuole qualcuno che lo decida? O è la cosa stessa che si mostra, per una sorta di emanazione? Il problema in tutto ciò, che è un problema che per altro è noto da circa duemila e cinquecento anni ,cioè almeno dai sofisti in poi, è che in qualunque modo io mi interroghi per sapere che cos’è qualcosa, continuerò a dire, darò delle definizioni, dirò delle proprietà, dirò tutto quello che mi pare ma ciò che continuerò a fare è dire, e tutto ciò che avrò detto non sarà mai quel qualcosa. Questa è l’idea antica, antica non come il mondo ma quasi, c’è sempre uno spostamento: io dico delle cose intorno a questo, ma sempre intorno, posso dire la cosa? No, neppure Aristotele diceva che si poteva dire, eppure ci si è impegnato parecchio. Ora, tenendo conto di questo dettaglio, e cioè che la cosa in sé, come voleva il nostro amico Kant, non si può cogliere, aldilà di questo rimane il fatto che invece io dico delle cose e continuo a dire delle cose, però queste cose sono sempre altro da ciò di cui dicono. Questa sorta di maledizione che è toccata in sorte agli umani, ha creato non pochi problemi anche se ultimamente, per esempio la semiotica e parte della filosofia del linguaggio, hanno preso atto di questo fenomeno: non c’è nessuna possibilità di stabilire che cos’è qualcosa, quindi nessuna possibilità di stabilire che cos’è la realtà. La realtà sarebbe questo aggeggio in sé e per sé, come diceva Sartre. È curioso per altro che Sarte, quando si chiedeva intorno all’Essere, tutto ciò che riuscì a dire è che era una nebulosa, grigia, indefinibile, potrebbe apparire non essere un granché come definizione. Dunque c’è un problema intorno alla realtà, cioè sapere di che cosa sono fatte le cose, che cosa sono queste cose, ma non per una curiosità, perché non gliene importa niente a nessuno di sapere che cosa sono realmente le cose, è importante per un solo motivo, uno e uno soltanto: per il potere. Perché se io posso dire ad altri che le cose stanno così come dico io, allora avrò potere su di loro, è tutto qui. Naturalmente non è facile, non è facile perché come abbiamo visto la questione della realtà offre dei problemi, però si può aggirare facilmente, come? Non ponendosi la questione, semplicemente, e dire che le cose ci sono e tanto basta. Ciascuno nell’arco della sua giornata utilizza il significante “realtà”, oppure dice “questo è questo” continuamente, e non c’è niente di male, è un modo di dire, come dire “l’occhio del ciclone”, “le gambe del tavolo”, “il letto del fiume” e così via, modi di dire. Parlare della realtà quando si dice che “questo è questo” è un modo di dire. Retoricamente questa figura ha un nome, si chiama “catacresi”, cioè letteralmente un abuso; per comodità, si dice “le gambe del tavolo”, ma il tavolo non ha propriamente delle gambe, ha dei supporti, però si usa dire “gambe del tavolo”. È un modo di dire, una figura retorica. Parlare della realtà dire “questo è questo” oppure chiedersi che cos’è una qualche cosa è una figura retorica. In questo caso occorrerebbe un figura più forte della catacresi, l’adynaton. L’adynaton è quella figura retorica che indica l’accadere di un fatto impossibile “s’i fosse foco arderei lo mondo”. Ecco, quando si parla della realtà si fa esattamente la stessa cosa, si parla di un qualche cosa che di fatto “non è possibile” mettiamolo tra virgolette per il momento, si fa un gioco retorico, un gioco linguistico, si usano dei termini per abitudine, per comodità, però questa domanda “che cos’è?” “ti es ti” dicevano gli antichi, non ha una risposta al di fuori di questo gioco in cui è inserita, al di fuori di una retorica. Infatti anche lo stesso “che cos’è?”, qualcuno si domandava che cos’è il “che cos’è?”. È un’altra figura retorica, è un modo del gioco, così come domandarsi, come hanno fatto Ogden e Richards, qual è il significato del significato. Gli umani si sono accorti che cercando il fondamento ultimo delle cose si trovano solo dei rinvii, e la realtà non fa eccezione, dunque l’appello alla realtà è un appello che potremmo anche considerare in male fede: chiunque cerchi di indurre altri a credere che le cose stanno come dice lui, sta mentendo, cioè sta utilizzando un sistema, un metodo per persuadere la persona a fare quello che vuole lui. Certo è complicato tutto ciò, straordinariamente complicato. È complicato non volere avere potere sull’altro, questo è complicato, avere potere in tutte le varie accezioni, avere ragione. Prendete una disputa teorica, religiosa, politica, economica, ci sono parti che si contrappongono, perché si contrappongono? Perché ciascuno suppone che le cose in cui crede siano quelle vere e di conseguenza le difende contro chi le attacca, e la stessa cosa faranno tutti gli altri, ma perché crede alle cose che pensa? Perché ci crede? Potrebbe anche non farlo in teoria, la domanda che verrebbe da porsi sulla scorta di Nietzsche è se non sia per avere ed esercitare il potere su altri. Occorrerebbe a questo punto fare un discorso molto ampio intorno al potere e lo faremo magari in altre circostanze, non voglio trattenervi qui tutta la notte. Dunque imporre la propria ragione, a questo serve la realtà, a questo serve la nozione di verità, intesa nell’accezione antica dell’adeguamento della parola alla cosa, cioè delle parole che dicono le cose, questa è la “verità”, come dicevano i medioevali “adæquatio rei et intellectus”, ma questo adeguamento è un adeguamento delle parole a che cosa esattamente? Alla cosa? Quale cosa? Se non posso sapere che cos’è questa cosa, come posso adeguarmi a questa cosa? È un problema, torno a dirvi non è un problema quotidiano, ciascuno utilizza questi modi di dire, cioè la domanda “che cos’è questo?” “la realtà è questa”. Alla domanda: “sono le sei?”, posso rispondere: “Sì, in realtà sono le sei!”, in questa accezione fa parte, questa locuzione, di un gioco, di un modo di dire, una figura retorica che si usa continuamente. Altro invece è imporre ciò che si sta dicendo come se fosse la realtà delle cose, allora non più un gioco, una figura retorica, ma volere imporre le cose dicendo che sono così. L’ideologia fa questo, non può non farlo, si dissolverebbe in un istante se non facesse questo, così come per governare. Prima Valeria nel suo intervento accennava alla questione politica, al governo, una questione complessa, ci si potrebbe domandare, seguendo Platone: “è possibile governare senza mentire?”, la risposta è no. Per governare è necessario mentire, è necessario cioè che qualcuno faccia credere che le cose stanno in un certo modo, mentendo, che poi sia in buona o mala fede questo è irrilevante, però mente, e non è casuale in tutto ciò a proposito di politica, di governi, di ideologia che, per esempio, tanto la psichiatria quanto la psicologia ascrivano la causa della maggior parte dei disagi e dei disturbi a un cattivo adeguamento alla realtà, che è una follia se usiamo “follia” in una certa accezione, però tanto l’una cosa quanto l’altra, cioè la psichiatria quanto la psicologia, devono mantenere il potere, sono organismi che sono una sorta di protesi del governo, dell’istituzione, e quindi devono mantenere la credenza, la superstizione nella realtà, cioè che le cose stanno così come dico io, e cioè che tu fai questo perché hai questo disturbo, questa è la realtà, stabilita anche dal manuale Dsm, che recita che questa è la realtà, o quantomeno vorrebbe fortissimamente che fosse così, fosse creduto che sia così, che quella sia la verità. Senza questo concetto di realtà, senza questa credenza, questa supposizione che sia possibile sapere come stanno le cose non c’è possibile credenza in alcunché. Ma per sapere come stanno le cose occorre sapere che cosa sono ovviamente, e questo avviene già da piccoli; si addestrano i bambini a obbedire, a obbedire perché ciò che si insegna loro è per il loro bene, e quindi devono obbedire, parafrasando Freud potremmo dire che questo è il prezzo che si paga per la civiltà. Il bambino cresce addestrato a obbedire, a chi? A chiunque in generale, qualunque cosa gli si dica, qualunque cosa e il suo contrario, e quindi e quindi farà come gli si dice, diceva bene Valeria, sì, farà proprio così perché da quando nasce e poi per tutto il periodo delle scuole, ogni cosa lo spingerà in quella direzione, a credere a ciò che le persone importanti, quelle di potere gli dicono, e ubbidirà. L’ideologia è assolutamente irrinunciabile per qualunque forma di potere o di governo, e non è nient’altro che la diffusione di un’idea dominante, l’ideologia è questo. Però l’ideologia può anche essere non necessariamente una serie di pensieri, di valori di un gruppo di persone, potrebbe anche essere di una persona perché, se ci pensate bene, quella cosa che Freud chiamava nevrosi non è così lontana da ciò che comunemente si intende con ideologia, e cioè una serie di credenze, di valori intorno a qualche cosa; credenze e pensieri che pilotano l’azione e questo naturalmente apre a una serie di questioni che mano a mano stiamo affrontando, questioni di portata notevole. Ciò che sta facendo ultimamente Lunipsi, cioè questa associazione di associazioni, è in buona parte questo: rilanciare il pensiero, la teoria della psicoanalisi, perché la psicoanalisi è stata forse la prima e sicuramente la più importante teoria, chiamiamola teoria, diremo che cos’è la teoria, la più importante, dicevo, o la prima che abbia messo radicalmente in discussione ciò che le persone credono, pensano o sanno o suppongono di sapere. È stata in effetti una spina nel fianco di tutti i governi, di tutti i poteri, osteggiata come sapete benissimo dalla sinistra, dalla destra, dal centro, da sopra, da sotto. Dunque una teoria, vale a dire un pensiero che interroga altri discorsi, altri pensieri, trovando, reperendo in questi discorsi, in questi pensieri altre aperture, altri rilanci, altri rinvii, altra ricchezza. Per fare tutto questo ovviamente non può attenersi a una ideologia che costringe invece il pensiero entro certi limiti; il gesto di Freud è stato fondamentale. Alcuni hanno accostato a Freud anche Nietzsche e Marx, come Paul Ricoeur, per esempio, indicando in questi tre personaggi “la scuola del sospetto”. Si è incominciato a sospettare che le cose non fossero proprio così come veniva detto che fossero, magari c’era qualche altra cosa, e da lì è incominciato tutto quanto. È pericolosissimo naturalmente seguire questa linea di pensiero, si rischia di non avere riferimenti, ancore, boe di salvezza, è una possibilità, ma ciò che si ha in cambio è immenso, una ricchezza senza limiti. Dicevo della psicoanalisi e del gesto di reintrodurre la psicoanalisi nel pensiero, reintrodurre questo discorso straordinario che è la psicoanalisi, è il progetto di Lunipsi, un progetto e una scommessa anche. Un progetto tutt’altro che semplice, perché come abbiamo visto la psicoanalisi, tranne un momento tra gli anni 70/ 80, è stata sempre criticata, biasimata, osteggiata, cancellata là dove era possibile, perché è un discorso, un pensiero che non è funzionale ad alcun governo, a nessuna istituzione, quindi a nessuna ideologia, e se qualcuno mette in discussione l’ideologia dominante deve essere eliminato, in un modo o nell’altro, a seconda degli stili di governo. Ci sono vari sistemi per eliminare le persone e il loro pensiero, e oggi è in atto una cosa del genere. Non che gli psicanalisti siano eliminati fisicamente, almeno che io sappia ancora non avviene, però la psicoanalisi è considerata una minaccia, è considerata un pensiero sovversivo e quindi si incomincia a fare nelle università la stessa operazione che è stata fatta negli anni cinquanta e sessanta rispetto all’Economia: si incomincia a invadere le università di testi che dicono che la psicoanalisi non è rilevante, che importante è il cognitivismo, che importante è attaccarsi alla realtà, attaccati con le unghie e con i denti, che la psichiatria deve avere il controllo. Se queste cose infarciscono tutti i testi universitari di psicologia, di sociologia, di scienze della comunicazione, a un certo punto si crea una classe di persone che credono fermamente che le cose stiano così. La stessa cosa è stata fatta per l’Economia rispetto ad alcune invenzioni come l’inflazione e il debito pubblico, che non esistevano fino a un po’ di anni fa, sono state inventate, e così anche la psicologia si inventa dei disturbi, dei disagi, continuamente, anzi, direi che è il suo compito principale inventarsi delle malattie e fare in modo che le persone si sentano sempre peggio e quindi abbiano bisogno di loro. Dunque ecco la realtà, la realtà serve a questo: a dominare, a controllare. È vero che questo pensiero che è noto come ontologia, cioè intorno all’Essere riguarda la filosofia, per esempio alcuni hanno considerato che la scienza non si occupa di sapere che cos’è questo aggeggio, anzi la tecnica oggi non se ne cura minimamente, si cura soltanto di tre cose: conoscenza, manipolazione, elaborazione dell’ente, cioè della cosa. Ma attraverso quali cose compie queste operazioni? Se non attraverso “cose” che ha appreso, che hanno un fondamento ben radicato nella realtà, proprio quella di cui parlavano gli antichi. È una questione sottilissima quella della realtà, ci vuole niente per farsene irretire, di fatti in tutta la filosofia l’equivoco fondamentale è stato quello di considerare che la “è”, copula, coincida con l’Essere e cioè con un’istanza, e da qui una serie di grossissimi problemi. Dicevo rilanciare il pensiero, la possibilità di pensare, e diceva bene Valeria, occorre sbarazzarsi dell’ideologia, ma per potersene sbarazzare occorre prima incominciare a riconoscere che qualcosa è un’ideologia, intanto in ciò che si ascolta, che viene detto, che viene propinato continuamente ma non solo; le stesse cose che io credo essere vere devono essere messe in discussione, devono essere interrogate, non posso mettere in discussione le idee altrui e attenermi alle mie come se fossero la realtà assoluta, sarebbe intellettualmente disonesto, non che non si pratichi, lo si fa ininterrottamente, ma questo è un altro discorso. Ciò che mi pareva di intendere nel messaggio di Valeria invece è un’altra cosa, e cioè portare il pensiero, la domanda, l’interrogazione, spingere ogni discorso alle estreme conseguenze. Estreme conseguenze sono quelle che vanno aldilà della ideologia, che invece vuole limitare entro dei confini. Allora ecco la teoria, la teoria possiamo anche chiamarla un arte, perché no? L’arte di continuare a portare il discorso, il pensiero, a interrogare per aprire altre questioni, accorgersi di altre aperture, altre vie percorribili, altre cose da incontrare. La teoria in questo senso è fondamentale, e ciascuno occorrerebbe che fosse un teorico, che desiderasse diventarlo, che fosse comunque attratto dalla teoria, cioè dal pensiero che interroga qualunque cosa, compreso, dicevo, se stesso, ciò che potremmo chiamare onestà intellettuale. Adesso devo chiudere, così lasciamo spazio per il dibattito che è sempre interessante, chiudere parafrasando l’ultima frase di Marx, che non va più tanto di moda però qualcosa di interessante l’ha detto, è la chiusa del Manifesto: Teorici di tutto il mondo unitevi! Grazie a tutti.

 

Intervento: lascerei l’apertura del discorso fino a dimenticarsi dell’ideologia…

 

Dipende da cosa intende con “dimenticarsi”. Un bambino è addestrato a obbedire, quindi a sapere che se ubbidisce è bene, se disubbidisce è male, e se è male qualche contraccolpo può anche produrlo, ma tutto ciò che ho raccontato qui in quaranta minuti, tutto questo, non è una definizione di come stanno le cose, non vi ho detto come stanno le cose, ma allora che cosa ho fatto? Perché una cosa del genere talvolta può disorientare, uno pone una critica, un’obiezione a un certo modo di pensare inserendone più o meno proditoriamente un altro, questa è la tecnica che si usa sempre. Ma se non vi ho detto come stanno le cose, che cosa ho detto? Ho soltanto costruito un discorso retorico che illustra un modo possibile di pensare le cose, certo, ce ne sono infiniti, altri ma il fatto di non potere stabilire come stanno le cose indica soltanto la possibilità di poterle rilanciare, di potere interrogarle, sempre però tenendo conto che ciò che si afferma non definisce una realtà. È probabile che questa sia una delle cose più difficili da praticare, sempre, quando qualcuno dice qualche cosa si aspetta che chi lo ascolta pensi che le cose che sta dicendo siano vere, anziché un sacco di sciocchezze per esempio, verrebbe da dire che è “umano”, mettiamolo tra virgolette, forse troppo umano. Questa è la difficoltà nel condurre anche una questione politica, sociale, a partire dalla psicoanalisi come per altro ha fatto Freud con gli ultimi scritti, i suoi ultimi saggi come “Mosé” e il saggio sulla Civiltà e la Psicologia della masse eccetera, testi che possono essere considerati politici, dove cioè si intende quanto la psicoanalisi abbia da dire intorno alla ideologia, cioè al modo di pensare comune, al modo di pensare di qualunque istituzione, di qualunque governo, che poi ciascuna istituzione, ciascun governo, diffonde l’ideologia al popolo perché obbedisca ovviamente, non ci sono altri motivi, non importa niente al governo fare capire come stanno le cose. Vuole soltanto che le persone obbediscano. Ecco, dicevo la cosa più difficile è proprio questa, e anche per questo motivo Lunipsi si è impegnata in una impresa ardua ma irrinunciabile, tanto più oggi, assolutamente irrinunciabile. Potremmo, parafrasando Freud, portare la “peste”. Il problema è che ogni stato, ogni governo ha degli antidoti potentissimi contro la peste psicanalitica, il migliore antidoto è la psicologia, ma sentiamo altri.

 

Intervento: Può la psicanalisi mettere fine all’ideologia se non costruendo un’altra ideologia?

 

L’ideologia deve fare credere che ci sia qualche cosa fuori dal linguaggio, cioè che non tutto sia linguaggio. Spesso si parla dei sentimenti come di un qualche cosa che non è linguistico. Ma badate di non porre una qualunque cosa fuori dal linguaggio, nell’istante in cui la ponete fuori dal linguaggio è, e rimarrà necessariamente nella vostra idea quella che è, e cioè quella cosa che si chiama “sentimento” è una “cosa”, da quel momento sarà sempre esattamente quella “cosa”, ed essendo quella “cosa” dovrà essere riconosciuta e dovrà essere ciò per cui io possa essere riconosciuto, ed è un qualche cosa che non può essere messo in discussione, non può essere messo in discussione ciò che io provo. A partire da questo ovviamente è possibile costruire un’ideologia: “io provo una certa cosa, questa cosa è grande, tutti devono provarla, provatela anche voi e sarete felici per sempre, o morirete”. E allora è preferibile andarci cauti con certe affermazioni che inducono immediatamente, senza accorgersene, a stabilire un quid, a stabilire di nuovo il che cos’è un qualcosa, che è quello che è perché “quello che io sento è quello che è”. Aldilà del fatto che non posso provarlo, ma questa è un'altra questione. Lo diceva già Wittgenstein, ma è un dettaglio che non importa niente a nessuno che io non lo possa in nessun modo provare che quello che sento è quello che è, che è una figura retorica anche quella. Quello che voi chiamate “sentimento” è una figura retorica. Giusto per togliere questo “sentimento” dalle pastoie della ideologia, della certezza, della credenza, della superstizione e del terrorismo anche. Il terrorismo muove dall’idea che ci sia qualche cosa che è proprio così come io la “sento”, e quindi se è così devo muovermi di conseguenza eliminando tutti coloro che sono una minaccia ai miei buoni sentimenti, o al buon corretto andamento delle cose, ma questo lo sapevano già i Sofisti, molto prima di Freud.