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Torino, 8 aprile 2008

 

Libreria LegoLibri

 

IL BISOGNO DI AMARE

 

Daniela Filippini

 

 

In questo titolo due sono le questioni: il bisogno e l’amore.

Potrei definire il bisogno come ciò che serve, che è condizione di qualcos’altro; il vincolo di qualcos’altro.

E l’amore potrei descriverlo come una condizione positiva del pensiero che si rivolge a qualcuno o qualcosa, il prendersi cura di qualcuno o qualcosa.

Allora il bisogno di amare può essere considerato come l’esigenza di prendersi cura di qualcuno (perché prevalentemente ci si riferisce a qualcuno), di dedicare dei pensieri ad un’altra persona.

Penso all’esigenza, perché è una spinta decisamente più forte di un desiderio, è un movente costrittivo che talvolta induce le persone a reperire il soggetto a cui dedicare queste premure senza prestare attenzione alle sue caratteristiche e spesso senza chiedergli se questi sia interessato a riceverle.

 

Il bisogno di amare è sostanzialmente il bisogno di un destinatario privilegiato dei propri pensieri, colui o colei che si presuppone come ascoltatore ideale dei propri sogni, delle illusioni e delle delusioni.

Il bisogno di amare è il desiderio – ma a volte è una necessità quasi vitale – di individuare una persona speciale, che si distingua dalle altre per sensibilità, capacità di comprensione di tutte le nostre sfumature, intelligenza, umorismo, ecc. ecc.

Cioè qualcuno che impersoni l'ideale di uomo o donna che ciascuno ha costruito nella propria fantasia.

È un ascoltatore perfetto quello che si vorrebbe, una specie di indovino talvolta, e forse questo è un aspetto più femminile delle aspettative nei confronti altrui.

Avevamo detto, il bisogno di amare, ma sembra che la scena ci porti a rappresentare il bisogno di essere amati, che è poi l'altra faccia della stessa questione...o dello stesso bisogno.

Qualcuno da amare, cioè qualcuno di cui prendersi cura, ma forse soprattutto qualcuno al quale rivolgere i propri pensieri più intimi e le immagini del futuro come lo vorremmo. Un protagonista insomma, anzi un co-protagonista del nostro film preferito: quello in cui le cose vanno come vogliamo, i sogni si realizzano e tutto si dispone per il nostro maggior benessere.

La felicità perfetta!

 

Il bisogno di amare ci conduce al bisogno di credere innanzitutto che sia possibile individuare in un'altra persona tutte queste qualità positive da renderla, appunto, ideale. E spesso questa convinzione non è supportata da una reale conoscenza dell'altro. Non c'è affatto bisogno che l'altro effettivamente abbia le virtù cui aspiriamo, anzi molto spesso è ben lontano dall'averle.

Il motore di queste fantasie così travolgenti, come può essere l'innamoramento, È il proprio intenso desiderio di rappresentare QUEL film, con QUELLE scene e QUELLE parole che nella fantasia si sono immaginate già mille volte.

La parte attiva è il proprio desiderio, è quello il motore dell'innamoramento e del senso di inutilità che si avverte come un peso quando non si è innamorati, così come la delusione di scoprire, ad un certo punto del film, che l'altra persona non è come si era pensato che fosse...

“È diverso da come pensavo, è cambiato, mi ha mentito”... sono frasi ricorrenti.

Minimamente si pensa al fatto che, forse, prima si volevano vedere – cioè si immaginavano – cose che poi non si vedono più.

C'è la possibilità, quindi, che non sia l'altro ad essere cambiato, ma io, cioè le mie aspettative, le mie fantasie intorno a quella persona e soprattutto a ciò che rappresenta.

L'ideale crolla e improvvisamente ci si rende conto che il dialogo che prima alimentava il rapporto con lui o lei, si riduce di intensità; mentre prima si parlava, ora si comunica; il piacere di condividere i pensieri si trasforma in isolamento, fino ad avvertire, talvolta, una specie di violazione della propria privacy se dall’altra parte permane la volontà di entrare nei miei pensieri.

 

Prima le fantasie, poi il cercare l'altro nel dialogo, il bisogno di essere ascoltati e compresi in quel modo speciale...

Infine, la disillusione, lo scivolare lentamente nel silenzio che allontana, in cui ciascuno non partecipa più dei sogni dell'altro.

 

Credo che sia evidente come l'oggetto delle nostre riflessioni sia intorno a ciò che costituisce l'essere umano, e cioè l'essere pensante e parlante.

Senza fantasie, pensieri, desideri, scene... e senza le parole che li esprimono, non esisterebbe né bisogno, né amore, né illusione, né delusione... e neppure nient’altro.

L’uomo è fatto di pensiero, del suo pensiero. Tutta l’attività umana, 24 ore su 24, è fatta di pensiero, nient’altro che considerazioni, conclusioni, ragionamenti, propositi, sogni, immagini, discorsi…

Se proviamo a riflettere su questo ci rendiamo conto che l’attività del pensare non cessa mai, muta argomento, situazioni, modalità senza mai interrompersi; anche dormendo, il pensiero continua attraverso il sogno.

Ciò che appare fondamentale è l’esigenza di assegnare un obiettivo al proprio pensiero, individuare una destinazione, o meglio un destinatario che sembri degno di ricevere ciò che di più prezioso si ha da offrire.

Dietro gli sms, le e-mail, le lettere, le poesie, le parole dolci o anche le discussioni, ciò che si “invia” a questo soggetto di cui si ha bisogno è il proprio pensiero, cioè il proprio discorso nelle sue istanze fondamentali, l’insieme delle credenze e dei presupposti che si considerano veri.

L’altro – colui che si ama – è il destinatario di questo “nucleo centrale” formato dalle premesse del proprio discorso, il fatto che si abbia un credo religioso o non lo si abbia, i valori che sono stati trasmessi dai genitori, il concetto personale di ciò che è bene e ciò che è male, le speranze per il futuro, il punto di vista personale su come si vedono le cose e il mondo.

 

Tutte le parole che si producono servono soltanto a questo, ad “affermare la propria verità”.

 

Ma a che scopo si comunica la propria verità a qualcun altro? Se si possiede già una verità, per quale motivo la si porta a conoscenza di colui o colei che si è eletto come destinatario privilegiato?

E cosa se ne fa l’altro della mia verità, quando certamente ne possiede già una propria?

Avviene una sorta di confronto, quello che si chiama “conoscenza reciproca” delle questioni che ciascuno ha posto a fondamento del proprio pensiero – e naturalmente del proprio agire, perché è a partire da ciò che penso che scelgo come muovermi, come comportarmi e cosa voglio.

Consegnare la propria verità a questo destinatario privilegiato è come cercare la conferma di essere dalla parte giusta, l’attestazione che ciò che si è individuato come premessa è fondato, e per il fatto che anche qualcun altro lo pensa, diventa un po’ più vero.

L’assenso dell’altro mi rassicura rispetto alla mia verità, ma mi conferma implicitamente che si tratta di una verità effimera, non solida come dovrebbe potersi definire una “verità vera”.

Pensare che il mio pensiero ha bisogno di conferme all’esterno del proprio svolgersi, significa attribuire al pensiero di qualcun altro un grado di importanza (o di verità) maggiore, e ancora, come affermare implicitamente che la mia verità dipende dal collimare con quella di qualcun altro.

Cioè devo necessariamente pensare che qualcun altro conosca meglio di me cosa penso e perché lo penso…

 

E se il potente bisogno di amare e di essere amati degli umani non fosse in realtà che un modo per ricercare la verità? Come potrei definirla, la verità?

Potrei dire che la verità è un punto fermo, una certezza che qualcosa sia e che sia in quel modo per tutti; qualcosa che possa contenere in sé il principio di necessario come ciò che è e non potrebbe non essere. La verità assoluta a cui riferirsi, da cui partire e verso la quale tendere.

Il contenuto di questa certezza potrebbe anche non essere la parte fondamentale della questione, cioè potrebbe essere definita come la FORMA della verità, mentre la SOSTANZA è che esista un punto di riferimento certo;

qualcosa che indichi la direzione;

qualcosa che distingua il bene e il male, ma sarebbe meglio dire il vero e il falso, cioè ciò che è coerente con tale direzione e ciò che diverge.

 

Non è importante definire quale sia la verità, ciascuno ne ha molte e per lo più sono diverse da quelle degli altri; da sempre si combatte proprio per difenderle.

È più interessante chiedersi perché gli umani di ogni parte del mondo vivono tutta la loro esistenza nella ricerca di qualcosa che si avverte come nascosto; come qualcosa oltre il quale sia celato il mistero dell’uomo e il senso dell’esistenza, sia quella dell’individuo, sia quella dell’intero genere umano.

Quindi, tutta la vita dell’uomo – che abbiamo detto essere fatta di pensiero – è una ricerca della verità, di un punto fermo sul quale fondare la propria esistenza.

Ma il pensiero come funziona? Abbiamo riconosciuto come nucleo centrale del pensiero le credenze, l’insieme dei valori, i principi di base; da questi derivano tutte le considerazioni successive; ponendo come premessa vera A, si concluderà che tutte le proposizioni che non negano A, siano vere a loro volta.

In un tentativo di astrazione possiamo immaginare la verità come una freccia, un segno che indica la direzione in cui il pensiero può procedere: se il discorso procede in una proposizione coerente, allora questa proposizione viene definita vera; se la proposizione non è coerente – ossia non conferma la premessa dalla quale è scaturita – allora questa proposizione viene definita falsa.

La verità definisce un percorso, dunque. Ed è il percorso del pensiero, perché è così che si pensa, non c’è un altro modo.

Un elemento viene posto come premessa, in quanto ritenuto vero.

Se dalla premessa procedono proposizioni coerenti, anch’esse vengono ritenute vere e il pensiero prosegue verso altre proposizioni.

Se dalla premessa procedono proposizioni che la negano, queste vengono scartate in quanto false, e il pensiero va in un’altra direzione.

 

La struttura è la stessa, è come una regola di funzionamento che agisce indipendentemente dal contenuto.

Sapere che il proprio pensiero – così come quello di chiunque altro – funziona in un certo modo, può essere una via per “alleggerire” certe convinzioni.

Infatti considerare che le proprie decisioni rispondono a precisi criteri di coerenza con credenze spesso non consapevoli, può significare l’abbandono di certi atteggiamenti vittimistici nei confronti della sorte o di quant’altro.

C’è l’opportunità di considerare che anche le proprie paure potrebbero essere abbandonate, come effetto dell’assumersi la piena responsabilità di ciò che si pensa.

Svincolarsi dalla verità assoluta personale (che è già una contraddizione di termini), rappresenta l’opportunità di dare libertà al proprio pensiero, nel senso che la consapevolezza di come questo funziona e perché per me funziona con quel contenuto e non un altro, mi dà la possibilità di scegliere se continuare in quella direzione o modificare le cose che penso.

Ma non si modificano per una sorta di forzatura, come talvolta nel luogo comune si contesta alla psicanalisi, bensì come effetto del continuo chiedere conto a ciò che si pensa dei motivi e delle connessioni con le proprie convinzioni fondamentali.

Chiedersi perché si è venuti a pensare certe cose piuttosto che altre, e procedere a ritroso fino ad interrogare le premesse, ha come effetto conseguente l’accorgersi che la propria vita (e la propria verità) è costruita su superstizioni, su teorie non dimostrabili, su pregiudizi acquisiti senza elaborazione critica.

Ciò che viene tramandato da secoli viene dato per vero, senza aver voglia di chiedersi se le cose stiano proprio così come ci è stato insegnato e per quale motivo.

 

Tutto questo per affermare che l’essere umano è per definizione l’essere pensante, fatto di pensiero e costruttore di pensiero: conoscere come questo funziona, la sua struttura e le regole che ne determinano il procedere, significa in fondo conoscere se stessi.

 

Intervento di Luciano Faioni

 

Daniela ha fatto un’osservazione interessante, e cioè che gli umani sono esseri parlanti, sono definiti dal fatto che parlino e di conseguenza pensino, poi fra le righe ha posto un’altra questione di notevole interesse e cioè se sono soltanto questo, degli esseri parlanti, oppure sono qualche altra cosa, perché se fossero soltanto esseri parlanti tutta la loro esistenza, la loro vita da quando esistono non sarebbe nient’altro che una sequenza di discorsi e tutto ciò che hanno fatto, pensato, immaginato, sognato in questi ultimi tre mila anni non sarebbero di fatto nient’altro anche questi che sequenze di discorsi e nient’altro che questo, è una domanda complessa questa, e cioè se sono soltanto questo gli umani, complessa perché rispondere a questa domanda di fatto pone già in essere uno dei due corni del dilemma, vale a dire che rispondendo a questa domanda ci troviamo a parlare quindi a costruire un discorso ma tant’è… che altro potrebbero essere gli umani oltre a essere parlanti? Perché se sono soltanto esseri parlanti questo ha delle implicazioni notevoli che dopo vedremo magari, dunque che altro potrebbero essere? Qualunque cosa io decida che siano ciò che avrò deciso che siano costituirà comunque un’affermazione sempre arbitraria, intendo dire questo: che sono qualunque cosa e il suo contrario indifferentemente, la quale cosa non ci porta molto lontani, se invece consideriamo l’eventualità che siano esseri parlanti allora ci troviamo presi in una questione che merita di essere considerata attentamente, tant’è che gli umani non hanno altri strumenti per comunicare, per trasmettere qualunque cosa pensino, qualunque cosa sentano, decidano, indipendentemente dal fatto che verbalizzino quello che hanno in mente oppure non lo facciano e cioè utilizzino altri sistemi gesti, per esempio, segni, qualunque segno per essere tale occorre che sia riconosciuto come segno da qualcun altro e cioè che sia preso all’interno di un sistema di codici cioè di linguaggio, cosa che non è senza implicazioni poiché essere presi nel linguaggio comporta che qualunque cosa accada, qualunque cosa si pensi, anche l’idea di essere fuori dal linguaggio o che ci sia qualcosa fuori dal linguaggio ebbene tutto questo rientra all’interno di questa struttura, cosa che come ho appena detto non va senza implicazioni; faccio un’ipotesi per assurdo, supponete che gli umani siano senza linguaggio sarebbe un problema, sarebbe un problema perché a questo punto anche il pensiero scomparirebbe insieme al linguaggio il pensiero quindi la possibilità di decidere, di scegliere, di amare, di odiare tutto questo scomparirebbe, scomparirebbe perché non ci sarebbe più nulla che costruisce una cosa del genere, nulla che costruisce un pensiero, naturalmente a questo punto gli umani non potrebbero neppure dirsi di essere tali perché non potrebbero avere nessuno strumento per poterlo fare, sarebbero ancora esseri umani? Forse è una domanda che non ha nessun senso, ché non potrebbe porsi la questione né ci sarebbe qualcuno per cui questa questione avrebbe un senso, potremmo definirla un non senso a questo punto, potremmo, volendo andare anche oltre, domandare: esisterebbero comunque gli umani? Ovviamente dipende che cosa si intende con esistenza ma qualunque cosa avrò deciso di intendere con esistenza cioè qualunque definizione mi sarà piaciuta fornire comunque l’avrò fatta attraverso il linguaggio e cioè quella struttura che consente a ciascuno di pensare. Ci sono molti equivoci intorno al linguaggio, equivoci che forse è il caso di dissolvere, il linguaggio è costituito da una sequenza di istruzioni, nient’altro che questo, quelle istruzioni che consentono di costruire proposizioni che sono riconosciute come tali cioè come proposizioni da qualcuno, non è nient’altro che ciò che consente di costruire queste proposizioni, costruite le proposizioni si costruiscono discorsi e insieme con i discorsi, nel momento in cui un qualunque discorso all’interno del gioco che lo ha costruito viene pensato essere vero allora avviene un fenomeno particolare: ci si comporta di conseguenza; la condotta di ciascuno è determinata come sottolineava prima Daniela dalle cose in cui crede, dalle cose che pensa né d’altra parte potrebbe essere altrimenti, tutto ciò che una persona fa, decide di fare o di non fare segue a tutto ciò che crede essere vero, ecco perché Daniela sottolineava che gli umani sono esseri parlanti per via di tutte le implicazioni di una cosa del genere, come dire che gli umani sono fatti di discorsi, non c’è altro, questi discorsi di volta in volta concludono in un certo modo, concludono che una certa cosa è bene un’altra è male, che questo è giusto, che questo è sbagliato  che devo fare così anziché cosà, quella persona è simpatica oppure antipatica. Il bisogno d’amore di cui parlava Daniela, al pari di qualunque altra cosa sorge da una sequenza, una sequenza di proposizioni quindi da un discorso, togliete il linguaggio cioè la possibilità di pensare e togliete anche la possibilità stessa di innamorarsi di qualcuno, cessa come per incanto, cessa anche la possibilità di divertirsi naturalmente così come di annoiarsi, senza linguaggio non c’è la possibilità di annoiarsi in nessun modo perché non può porsi la domanda: “adesso cosa faccio?” per esempio, non c’è, non si pone la questione e quindi non faccio assolutamente niente solo gli umani hanno la prerogativa di annoiarsi, è una cosa che appartiene loro proprio perché sono provvisti di linguaggio, cioè parlano e parlando costruiscono discorsi e questi discorsi hanno un’altra prerogativa notevole, oltre a costituire gli umani, ciascuna volta è necessario che concludano con un’azione, con qualcosa che sia ritenuto vero. Vi siete mai chiesti come mai alle persone secchi così tanto avere torto oppure essere sconfitti in un agone dialettico? È una delle cose peggiori dovere ammettere il proprio torto, perché? Potrebbe essere totalmente indifferente e invece no, è una delle cose che irritano di più gli umani anzi forse quella che irrita di più in assoluto, si può scatenare una guerra pur di non avere torto, eliminare chi non la pensa come me, per esempio, e che minaccia di darmi torto, se io ho ragione allora chiunque pensi in modo differente da me inevitabilmente avrà torto, non ci sono santi, e di conseguenza il fatto che qualcuno pensi in modo diverso da me in alcuni casi può essere una minaccia, nella più parte dei casi viene tollerato ma in altri no, pensate alle guerre di religione per esempio, quanti ne hanno fatti a pezzi solo per potere affermare che io ho ragione o la verità è quella che dico io, ebbene da dove viene questa necessità? Da ciò stesso di cui sono fatti gli umani, dal loro discorso e il discorso, il linguaggio, ha la necessità per proseguire di giungere, per potere costruire su questo altre cose, ad una conclusione vera, che sia riconosciuta vera all’interno di quel gioco così come per vincere una partita a carte occorre che ad un certo punto accada all’interno di una sequenza di mosse determinate quella che è chiamata la vittoria, un gioco certo, ma anche il linguaggio è una sequenza di giochi linguistici, gioco nel senso che è vincolato da regole naturalmente, quali sono le regole del discorso di ciascuno? Tutte le cose che quella persona dà per vere a queste si attiene e si atterrà sempre e tutte queste cose costituiscono le regole del suo discorso e cioè tutti quegli elementi che lo piloteranno, lo indirizzeranno in un verso anziché in un altro, ecco che cosa accade agli umani in quanto esseri parlanti, accade di parlare, parlando di costruire discorsi e costruendo discorsi  di credere in ciò che pensano e cioè di credere che ciò che hanno pensato sia vero quindi muoversi di conseguenza, perché per una questione grammaticale nessuno può credere vero ciò che sa essere falso, è impossibile, ciascuno è mosso soltanto da questi elementi, questa sorta di pilastri che lungo la sua vita ha costruito cioè tutte le cose vere, tutte le cose in cui crede, un po’ come talvolta si suole dire i valori per quella persona, le cose che valgono cioè le cose che hanno una priorità rispetto alle altre, e perché ce l’hanno? Perché sono credute vere ovviamente, se fossero credute false non ce l’avrebbero, c’è qualche questione intanto prima che io prosegua? Qualche domanda?

 

Intervento: collegandomi alle espressioni ci sarà pure una verità se ognuno ha diritto…

 

Si riferisce al diritto di opinione? È sancito dalla costituzione… se esiste una verità in assoluto?

 

Intervento: deve pur esistere, no?

 

Perché dovrebbe? Ma dipende naturalmente da che cosa si intende con verità ovviamente, sono state date varie definizioni, certo definire la verità comporta un intoppo e cioè per poterla definire devo avere un criterio tale per cui quando l’avrò definita saprò che quella definizione corrisponde al vero e come farò a saperlo se ancora non so che cos’è? Questo potrebbe essere un problema, potrebbe ma in realtà non lo è se considera ciò che ho appena detto, in effetti gli umani essendo esseri parlanti tutto ciò che pensano, costruiscono, immaginano, decidono è costruito dal linguaggio e dunque anche la nozione di verità è costruita dal linguaggio, è soltanto il linguaggio che può costruire una definizione di verità, e pertanto potremmo anche formularne una, una definizioni che naturalmente occorre abbia alcuni requisiti cioè occorre che sia necessaria e cioè non possa non essere in alcun modo perché se non fosse non sarebbe né questa né nessun altra cosa, è una definizione di necessità abbastanza forte e allora la verità può essere definita in questa modo: qualsiasi cosa è un elemento linguistico. Questa asserzione che io ho indicata come la verità ha una virtù particolare che non ha nessun altra definizione, e cioè per negarla o confutarla devo comunque utilizzare ciò stesso che voglio confutare, non solo, ma terrà anche conto del fatto che qualunque criterio per affermarla o per negarla o per confutarla sarà in ogni caso costruito dalla stessa struttura comunque e sempre, e questo ha dei vantaggi per cui potremmo anche definire in questo modo la verità: qualsiasi cosa è un elemento linguistico, e posso anche sottolineare “qualsiasi cosa”, naturalmente posso anche pensare che ci siano cose al di fuori del linguaggio, nessuno me lo vieta anzi, la più parte degli umani lo pensa, lo crede fermamente però questo di per sé non significa un granché, molte persone pensano e credono un sacco di cose, anche che ci sia una qualcosa al di fuori del linguaggio, ma questa affermazione non è provabile anche perché qualunque prova è sempre e comunque costruita dal linguaggio. In fondo è ciò che gli umani hanno sempre cercato: la verità, una verità tale da reggere a qualunque possibilità di confutazione, gli antichi la chiamavano l’essere ma anche l’essere è una nozione al pari di qualunque altra, spesso parlando accade di richiamare l’interlocutore, se stessi alla logica, questo è logico, quest’altro non è logico etc. ma che cos’è la logica? Non è nient’altro che una sequenza di istruzioni che riportano al funzionamento del linguaggio e che indicano come necessariamente occorre pensare, nient’altro che questo e indica anche che sono regole del linguaggio, non arrivano dal cielo o dai marziani…

 

Intervento: l’ego deve avere ragione per essere felice…

 

L’avere ragione sembra essere una priorità assoluta, in alcuni casi addirittura superiore alla propria esistenza, molti si sono immolati, si sono anche uccisi pur di certificare la verità della loro religione…

 

Intervento: e anche la comunicazione sarcastica forse è un’espressione dell’ego…

 

La comunicazione sarcastica? Il sarcasmo è una figura retorica serve a schernire l’interlocutore, spesso mostrando irridendolo, la falsità delle sue affermazioni…perché parla di sarcasmo?

 

Intervento: nei dibattici politici… tutte queste cose qui…

 

È una antica forma retorica viene usata proprio così, una forma di bassa lega è un po’ come l’argomentum ad hominem che usavano gli antichi anziché mostrare l’infondatezza di una certa argomentazione si mostra il non valore della persona che la sostiene e allora se questa persona che non vale niente dice questo allora anche ciò che sta dicendo non varrà niente, sì sono strumenti di bassa lega che in effetti non giudicano ciò che la persona afferma però ci sono modi anche per arginare questi attacchi …lei conosce la retorica? Può divertirsi a leggerla uno dei testi migliori contemporanei quello di Perelman “Il trattato dell’argomentazione” trova tutti i sistemi e anche i trucchi di ogni genere per attaccare, difendere…in fondo la retorica è un po’ come un duello con il fioretto, sono parate, affondi, finte non è molto diverso solo che avviene verbalmente, è chiaro che più strumenti conosce più è facile battere l’avversario c’è un’antica arte che i sofisti praticavano si chiamava l’eristica, l’eristica era un’arte che conduceva a vincere sempre e comunque l’agone dialettico indipendentemente dal fatto che sostenesse il vero o il falso, era totalmente irrilevante occorreva vincere a qualunque costo (…) no, no certo però lì si attenevano almeno a delle regole …sì dica?

 

Intervento: ma se il linguaggio è un gioco quindi ha le sue regole però fuori dal gioco c’è un altro gioco, un gioco superiore, fuori dal linguaggio c’è la vita, la vita è oltre al linguaggio… ha usato comunicazione su un livello più basso di parlare ma la comunicazione è a un livello superiore del parlare, parlare è il livello più basso della comunicazione, la comunicazione dialettica secondo me è il livello più basso ci sono livelli superiori, passando dalla parola al gesto dal gesto ai livelli superiori fino alla non parola, la comunicazione non verbale e non gestuale in cui si comunica senza parlare, senza linguaggio è una cosa assoluta e lì forse sta la verità… nel paese dei ciechi l’orbo è re, i ciechi parlano i vedenti vedono…

 

Intervento di Daniela Filippini: mi sembra che forse ci sia stato questo equivoco rispetto al linguaggio pensandolo come uno strumento per definire le cose piuttosto che una struttura che permette la formulazione del pensiero, di qualsiasi pensiero qualsiasi discorso, comunicazione, immagine anche la definizione di vita è possibile perché esiste una struttura che definisce che cos’è l’esistenza che può dare un significato a tutte le parole…

 

Intervento: il significato che lei da alla vita esiste anche senza le parole, sono pochi che usano le parole molti le usano a sproposito e la vita esiste è sempre esistita prima delle parole e al di là delle parole… è un sistema è uno scambio di qualcosa… la natura cresce e da i suoi prodotti al di là della parola e la vita esiste al di là della parola, la parola è lo strumento più semplice che ha creato l’uomo per trasferire delle cose, dei concetti ecc. ché diventava più difficile esprimerli diversamente ma ci sono persone che comunicano su un livello superiore a livello emozionale… e l’emozione non ha parole infatti usa linguaggi diversi sia in termini di parole che in termini di segni che sono…

 

Intervento di Daniela Filippini: di nuovo sta ritornando sul fatto di definire la parola e il linguaggio come un modo per comunicare, per trasmettere dei concetti e i concetti si possono trasmettere verbalmente e si possono trasmettere con dei segni, dei simboli soltanto come uno strumento (avviene direttamente! ) con il pensiero? Sì ma tutto questo è possibile perché esiste una struttura che permette di formulare un pensiero, perché al di fuori del linguaggio inteso in questo modo di che cosa è fatta questa vita di cui lei parla?

 

Intervento: è fatta di pensieri e di emozioni e l’emozione si trasmette per via emozionale l’uso della parola è uno strumento più basso per far arrivare qualcosa che non arriva che su un piano superiore mentre l’emozione è un livello più basso di sensazione di ordine superiore perché l’emozione è una parola quindi si può anche giocare però… forse date troppa importanza al linguaggio cioè il linguaggio è come uno strumento è come una moneta serve per scambiarsi le cose ma le cose sono più importanti della moneta è uno strumento perché non c’è uno scambio alla pari degli oggetti…

 

Intervento: e tutte queste considerazioni che lei sta facendo?

 

Intervento: ma le considerazioni è il modo in cui si espleta, io potrei dire tac…

 

Intervento: si espleta perché quello che lei sta considerando immagina che esista da qualche altra parte rispetto a quello che lei sta pensando (sì) dove? Come? (cioè i concetti?) quello di cui sta parlando… intendo dire che molto semplicemente senza ad andare a fantasticare eccessivamente che poi ciò che lei sta considerando le è consentito da che cosa? da quello che lei definisce essere uno strumento ma se lei toglie questo strumento queste considerazioni svaniscono anzi non sono mai neanche esistite…

 

Intervento: ma le cose esistono al di là delle considerazioni… gli antichi dicevano “panta rei”…

 

Intervento: ma questa è un’altra considerazione che le è consentita comunque da quello stesso strumento di cui si diceva…

 

Intervento: no, perché se non avessi la parola avrei la percezione di questa cosa e non userei delle parole e le trasmetterei senza le parole o dei linguaggi e arriveremmo lo stesso come arriva…

 

Intervento: l’unica cosa che può considerare è questa che al di là del considerare che il linguaggio è l’unica condizione per poter pensare, al di là di questo tutto ciò che le consente di fare questo è un atto di fede perché comunque non lo può dimostrare, lei dice “esiste” (lo si può dimostrare!) le chiederei “come lo sa questa cosa?”

 

 

Intervento: ci sono delle cose di ordine superiore di quelle che vengono dalla parola… allora… siamo nel paese dei ciechi… non voglio offendere nessuno, supponiamo che siamo tutti ciechi e supponiamo che ci sia uno che vede, questa persona come fa a dirci che ci sono i colori? lei usa un concetto che per noi non esiste e quindi noi non capiamo neanche cosa voglia dire il colore, come fa a dirci che ci sono i colori? perché usa un concetto che per noi non esiste e quindi noi non capiamo neanche cosa voglia dire il colore solo il vedente sa cos’è un colore e allora lui non può comunicarci questa cosa perché noi siamo a un livello inferiore, le persone che stanno su un livello superiore non riescono a comunicarci che esiste il mondo dei colori, delle forme (e il colore che cos’è?) il colore è come noi vediamo la riflessione della luce però ci vuole uno strumento per recepirlo, se noi non abbiamo questo strumento e chi cerca di spiegarcelo noi non capiamo quello che ci sta dicendo e noi potremmo dire “ma a te chi te lo dice che ci sono i colori?” l’altro dice “li vedo ma capisco che voi non potete capire”

 

Intervento: per poterlo pensare il colore?

 

Intervento: ma il colore non si pensa si percepisce, il colore non è un pensiero…

 

Intervento: quindi secondo lei la percezione è al di là del pensiero?

 

Intervento: sì, la percezione è immediata ce l’hanno anche gli animali che non hanno pensiero…

 

Intervento: come lo sa che gli animali non hanno pensiero? come lo ha saputo forse l’avrà imparato da qualche parte?

 

Intervento: che gli animali non hanno pensiero? Ma no, è una mia forma di dire magari ce l’hanno…

 

Intervento: non lo sappiamo, non ci sarà mai modo di provarla una cosa di questo genere…

 

Intervento: non esiste solo la parola scientifica, misuro… faccio cadere la mela…

 

Intervento: esiste dio? lo può provare? Nessuno lo può provare eppure la maggior parte del pianeta crede in un dio (….) (…) (ancora interventi vari sul cieco) ma questo è un programma che i discorsi degli umani costruiscono perché sono parlanti e quindi sono all’interno di questo programma, un programma in cui il cieco per definizione non può vedere, per esempio, non può vedere i colori ma utilizza anche lui queste parole “colore” “forma” solo che dice che non le può vedere, per definizione, perché è cieco (sì ma il cieco non sa che esistono i colori) no, non è vero che non sa che esistono i colori lui sa che esistono ma sa anche e soprattutto lui non li può vedere e assolutamente non li vedrà mai, salvo un miracolo a Lourdes… lei invece è vedente e quindi vede i colori questi sono programmi, è un software costruito dal linguaggio e che gli umani utilizzano parlando e quindi vivendo, quello che stavamo dicendo e cioè che qualsiasi cosa è un elemento linguistico ed è l’elemento linguistico, stringhe di elementi linguistici che hanno costruito e continuano a costruire il cieco ed il vedente, sono programmi di una struttura quella che noi chiamiamo linguaggio che produce appunto sequenze che vengono utilizzate da coloro che si chiamano umani, i quali umani credono che il linguaggio sia un mezzo che hanno a disposizione per dire delle cose, credono di poter uscire dal linguaggio, credono di poter andare oltre al linguaggio perché l’utilizzo dei concetti permette questa operazione cioè il cieco non può vedere i colori e quindi crede che il colore sia fuori dal linguaggio, no il cieco fa parte del programma linguistico, della lingua in cui si trova per cui se è cieco necessariamente non può vedere il colore però utilizza delle forme linguistiche per cui è falso che lui veda il colore, lei è vedente è quindi è vero lei vede il colore ma il colore si vede o non si vede perché esiste questa struttura linguistica al di fuori della quale il parlante non può andare e ciascuna volta che tenta di dare una giustificazione a qualcosa che è sconosciuta o conosciuta lo potrà fare negando o affermando e questa operazione è consentita al suo pensiero solo da questa struttura che è fatta di elementi linguistici così come il suo pensiero, quello che noi andiamo dicendo da vent’anni a questa parte e questa sera Faioni e anche Daniela… per esempio, Faioni ha fatto un’affermazione “gli umani sono parlanti” come dire che il fulcro dell’umano è l’essere parlante non tutte le cose che sono state inventate dagli umani per definirsi… gli umani sono esseri intelligenti, sono puri spiriti o in carne ed ossa… no, in prima istanza sono parlanti se non ci fosse il linguaggio l’umano non esisterebbe (l’umanità affoga nella parola, la parola limita l’umanità) l’umanità non si è mai accorta di essere una struttura linguistica che sta funzionando interrottamente …cominciamo a riflettere sul linguaggio che non è un limite… lei trovi qualcosa che non sia linguaggio anche soltanto una stupidaggine qualsiasi la trovi mentre riflette, concetti, parole (le emozioni e le emozioni ce le ho anche se non le descrivo…) cominciamo a parlarne…

 

Intervento: come dice Heisemberg meno ne parlo e meglio è, perché più ne parlo e più perde di significato, si contamina però se la devo comunicare ad un altro la descrivo e una volta che la descrivo come descrivere la Gioconda ha già perso qualcosa o io ho perso la mia a attenzione… infatti siamo pieni di parole e un’umanità più inconcludente…

 

Intervento: cominciamo a riflettere in questa struttura che produce tutte queste parole e su quello che affermiamo senza accorgerci di ciò che stiamo fermando, in effetti io volevo fare questa domanda a Faioni che da vent’anni sta parlando di linguaggio… lei prima ha affermato che gli umani sono parlanti e chiedevo se gli umani hanno la possibilità di intendere le implicazioni che comporta un’affermazione di questo genere? e anche sull’altra affermazione e cioè che qualsiasi cosa è un elemento linguistico…

 

Le questioni che si affrontano in questo caso sono molte, tempo fa si poneva la questione in termini radicali e cioè sarebbe come persuadere un fondamentalista islamico che Allah non è quello che pensa che sia. È un problema perché in effetti il linguaggio per procedere non ha la necessità di intendere se stesso, funziona benissimo lo stesso. Il linguaggio non è nient’altro che un sistema operativo, un sistema operativo che consente la costruzione di proposizioni, poi certo è ovvio che anche la percezione, la percezione fa parte del bagaglio degli umani i quali umani tuttavia distinguono fra una telecamera che vede e invece un essere umano che vede, difficilmente direbbero che un termometro messo in un frigorifero ha freddo, eppure segnala la variazione di temperatura e magari in modo più preciso, però in questa variazione, così come la variazione che può avvenire in un bicchiere che cadendo si spacca non ha per il soggetto in questione, il bicchiere, per esempio, delle implicazioni per lui, tant’è che nessuno si preoccupa che il bicchiere abbia sofferto oppure no nella caduta, è un fatto curioso. La questione diventa complicata quando si incomincia a riflettere su ciò che si afferma, si può affermare qualsiasi cosa e il suo contrario naturalmente il problema sorge quando c’è l’esigenza di verificare se ciò che si è affermato è vero oppure no, perché se non c’è questa esigenza allora che problema c’è? Si può affermare qualunque cosa e il suo contrario, che per esempio gli umani sono il frutto dell’intelligenza astrale oppure di dio oppure di qualunque altra cosa, non cambia assolutamente niente, ma come dicevo il problema sorge nel momento in cui c’è questa esigenza, allora sorge un problema e cioè la ricerca di un criterio per potere compiere questa operazione ancora prima di farla, ci vuole pure qualche cosa che costruisca un criterio, ma dove trovarlo? Naturalmente a questo punto non è più sufficiente tutto ciò che è stato dato per buono dagli umani proprio perché in questa operazione non si da più nulla per buono, nemmeno il fatto di non dare nulla per buono, non c’è a questo punto più nessun riferimento perché qualunque cosa vale esattamente quanto la contraria, secondo l’antico adagio per cui si, nessuno può dimostrare che dio esista ma neanche può dimostrare che non esista, e quindi va bene qualunque cosa, a questo punto chiunque potrebbe dire di sé di essere dio, naturalmente non può dimostrare di esserlo ma nessuno può dimostrare che non lo sia per cui va tutto bene. Torno a porre la questione iniziale e cioè della cautela che si utilizza procedendo in termini teorici, cautela nel compiere certe affermazioni per esempio, quando lungo questa ricerca una persona riflette su una certa cosa e giunge a una conclusione, quando ha concluso che cosa ha fatto esattamente? Questa è una bella questione, perché l’unica cosa che può dire con assoluta certezza è che ha costruito una proposizione, cioè una definizione in questo caso che definisce che cosa esattamente? Qui si trovano tutti i problemi che sono sorti dagli antichi fino ad oggi connessi con la definizione di qualche cosa, e cioè il fatto che qualunque definizione risulti arbitraria per esempio, non necessaria, può essere più comodo definire una cosa in un certo modo ma il fatto che sia più comodo non è sempre un criterio così determinante, talvolta si esige qualcosa di più della semplice comodità, dunque quale criterio utilizzare, di che cosa gli umani dispongono della quale cosa possono essere assolutamente certi? Questo potrebbe costituire un problema anche perché qualunque cosa stabiliscano, questo qualche cosa dovrà sempre utilizzare una qualche altra cosa, questa è stata la maledizione della filosofia da sempre, e buona parte dei paradossi vengono da lì, perché una qualunque cosa possa definire se stessa ha sempre bisogno di un terzo elemento. Trovare qualcosa che potesse rispondere da sé senza avere bisogno di un terzo elemento sempre e comunque, certo si può dire che gli umani, la loro prerogativa è quella di pesare, il peso potrebbe essere un criterio anche questo però naturalmente si rischia di considerare questo criterio come prioritario quando non lo è, quando è una conseguenza di altre cose, si parlava della percezione prima certo, percepiscono, ma con percezione che cosa intendo esattamente? E quando avrò definito la percezione che cosa avrò fatto? O le emozioni, da dove arrivano queste cose che uno prova? Perché una persona si emoziona di fronte a una certa cosa e un altro invece no, non gliene può importare di meno? Perché? Dovrebbe essere comune a tutti ma non lo è, come se per potere provare una emozione occorresse un certo pensiero e cioè una serie di connessioni di elementi con altre cose, se no non si prova nessuna emozione. Ma trovare quella cosa che è necessaria, che non potrebbe non esserci in nessun caso cioè quella cosa che mi fa sentire un’emozione, mi fa sentire una qualunque cosa e badate bene, che mi distingua da un termometro perché anche un termometro sente freddo, chi può negare che un termometro sente freddo? Lo percepisce, la barretta di mercurio rimpicciolisce e quindi ha freddo è ovvio, però il fatto che noi non consideriamo il fatto che il termometro soffra il freddo è affare nostro non del termometro, possiamo sicuramente dire che il termometro non parla certo, non ha questa facoltà né questa possibilità e dunque non sente freddo, così si conclude generalmente, si pensa invece che l’animale essendo una struttura più complessa abbia delle percezioni più raffinate e più sofisticate, è possibile certo, ma non c’è una testimonianza diretta se non la nostra naturalmente e noi possiamo far dire qualunque cosa e il suo contrario a qualunque altra cosa senza nessun problema, come avviene sempre per altro. C’è dunque qualche cosa a fondamento di tutto, per esempio, quella cosa che mi consente di fare delle considerazioni, e senza queste considerazioni io potrei provare emozioni? È una questione complicata, è facile rispondere sì o no ma non significa niente, se sì, perché? Se no, perché? E cosa intendo dire quando dico che sento una percezione? E cosa intendo dire che non sia riconducibile al famoso termometro naturalmente? Una variazione di stato? Quando un bicchiere si spacca è una variazione di stato anche quella, cosa mi consente di pensare, di immaginare le cose, di avere paura, di desiderare, di sperare, di amare? Di fare tutta questa infinta serie di operazioni che gli umani fanno e il termometro sembra, sembra finché non ci mettiamo in contatto diretto con lui, che non faccia perché se troveremo questa cosa che ci consente tutte queste belle cose allora avremo trovato la chiave di volta, per esempio una struttura che ci consenta di pensare l’esistenza, che cos’è l’esistenza oltre ad essere un sostantivo femminile singolare? Un concetto ovviamente, al pari di molti altri, possiamo decidere che esista oppure no possiamo anche decidere che non esista affatto, potremmo anche andare oltre e considerare che in assenza di una struttura che organizzi le cose in un certo modo non potrei neanche dire che vedo in realtà, o non più di quanto una telecamera disposta in un certo posto veda, ma vede? Segnala variazioni di stato, sì, possiamo anche dire questo certo ma con questo vede? Difficile a dirsi, si tende generalmente a considerare il vedere qualcosa che è caratteristico almeno del regno animale, almeno, ma anche queste sono decisioni, io posso decidere che esista qualunque cosa o decidere che non esista affatto, che differenza fa? Potrà essere più o meno comodo per alcune cose ma questo è un altro discorso ancora, ma in realtà su cosa fondo, per esempio, la certezza dell’esistenza, naturalmente qui si tratta di un fondamento che va aldilà di qualcosa che a me piace pensare, non è sufficiente né il fatto che sia una cosa abbastanza diffusa, qualunque religione è molto diffusa ma non per questo viene accreditata come qualcosa di certo. I logici hanno fatto delle considerazioni interessanti riguardo a questo, forse sono quelli che maggiormente si sono avvicinati alla questione in quanto forse meno ingenui di molti altri, anche di moltissimi filosofi occorre dire, perché talvolta poniamo delle obiezioni alla religione come abbiamo fatto in varie occasioni, non abbiamo nulla contro la religione, neanche nulla a favore naturalmente ma poniamo obiezioni per l’ingenuità con cui afferma quello che afferma, cioè afferma qualcosa senza sapere assolutamente di cosa sta parlando e questo talvolta è un problema, non sempre ma può diventarlo se ci si inizia ad interrogare intorno alle cose, senza dare nulla per acquisito, cioè afferma che è così perché è così, è una risposta che non è sempre sufficiente, in alcuni casi sì per esempio quando la mamma sgrida il bambino in quel caso può essere sufficiente ma in altri casi no, può sempre sorgere qualcuno a chiedere perché? E se non fosse così? Potrebbe essere il contrario? Se sì allora la tua affermazione non è che valga un granché vale al pari di un’affermazione estetica “a me piace pensare così” e allora va bene, nulla in contrario certo, ma anche nulla di più. Wittgenstein non aveva torto, o si pensa in questo modo o non si pensa affatto. C’è quella cosa che per gli umani rappresenta una grande paura: il nulla, il vuoto l’horror vacui , non è altro che l’assenza di linguaggio, non potere più parlare con nessuno e per nessun motivo…

 

Intervento: potrebbe essere anche il contrario, l’eccesso di linguaggio, alla fine uno è schiavo delle parole…

 

Sono affermazioni che non significano niente, cioè hanno un valore di verità pari alla loro contraria, è come dire a: me piace che non sia così però, però il fatto che non piaccia una cosa del genere per qualche motivo può essere legittimo, ma non è sostenibile al di fuori della valutazione estetica in questione, lei può dire certo “a me non piace l’idea che ci sia solo linguaggio” va bene, non ho nulla in contrario a questa sua posizione, altro invece è porla come un’affermazione universale e cioè vera, assolutamente vera, e allora in questo caso occorre qualcosa di più che dire che non c’è solo linguaggio…

 

Intervento: cioè la vita va avanti…

 

Non significa niente neanche dire che la vita va avanti, o va indietro, o sta ferma, la vita fa quello che lei decide che faccia, non esiste di per sé, non è mai esistita e non esisterà mai anche perché la nozione di esistenza è un concetto costruito, io posso dire che esiste dio, posso dire che esiste qualunque cosa o che non esiste, che differenza fa? Non cambia niente, sono affermazioni estetiche che fuori da questo non significano niente “la vita va avanti lo stesso” lei dice, cioè che cosa? Quello che lei pensa che sia la vita o quello che penso io, o quello che pensa la signora laggiù? Perché dovrebbe essere quello che pensa lei?

 

Intervento: infatti non è che deve essere ad un certo punto…

 

A quale punto?

 

Intervento: un punto di partenza, un arrivo e poi si crea un percorso… un punto di partenza e un punto di arrivo, si confronta con gli altri…

 

E da dove si partirebbe, e perché da lì, a che scopo? Perché non da un altro punto, lei parte dal concetto di esistenza come già dato, ma saprebbe definirla?

 

Intervento: anche se non la definisco è un concetto intuitivo e vado avanti…

 

Allora dio è con noi! Per essere coerenti dovremmo concludere in questo modo: dio lo vuole, deus vult! E allora va bene, altrimenti no, nulla di quello che lei ha detto potrebbe essere accolto, assolutamente niente. Va bene. L’appuntamento per la prossima volta è sempre qui, il 29 di aprile alle 21, Beatrice Dall’Ara parlerà della paura di amare. Invito ciascuno di voi al corso che teniamo da tantissimo tempo in via Grassi 10 alle ore 9, il corso è aperto a chiunque intende ascoltare ciò che diciamo o discutere con noi di qualunque cosa in modo più approfondito, quindi chi è interessato lo aspettiamo volentieri domani sera. Buona serata a ciascuno di voi.