HOME

 

8-4-2004

 

LegoLibri

 

Storie di solitudine

 

Cesare Miorin

 

/…/ 

 

Luciano Faioni

 

Si pone la questione clinica “come vincere per esempio la solitudine?” “come vincere la depressione?” “come vincere la noia?” “come vincere l’ansia?” “la fobia?” “la paura?” etc. questione che, come diceva giustamente Cesare, si pone con notevole frequenza, ma perché mai qualcuno dovrebbe vincere qualcosa che lui stesso ha creato? A che scopo? È una curiosa situazione, una persona crea nel suo discorso la solitudine, la depressione, poiché la solitudine così come la depressione o qualunque altra cosa non è che accade o capita così tra capo e collo e si prende come si prende un’influenza, non c’è il virus dell’ansia, e allora da dove viene? Viene dalla stessa persona ovviamente, la quale persona a partire da alcune condizioni in cui si trova o suppone di trovarsi costruisce una scena, per esempio la scena in cui è abbandonato, o la scena in cui sta per accadere qualcosa di terribile, e allora diventa ansioso, oppure una scena dove tutto è già accaduto, non c’è più niente da fare e non ci rimane che la morte, e allora è depresso, a seconda della scena che si è creato si configura quella condizione che poi viene classificata in una o in più nosografie e a questo punto per esempio lo psichiatra, ma non soltanto, si adopererà per sconfiggere la depressione, per esempio fornendo psicofarmaci come se si trattasse di un corpo estraneo da eliminare, ma se, come dicevo, la persona ha creato questa scena, finché permangono i motivi per cui l’ha creata non ci rinuncerà, può prendere tutto il Prozac che vuole, a vagonate, l’unico risultato sarà quello di rimbambirsi un po’ di più, nient’altro, tutte queste forme di,come si usa dire, di disagio vanno considerate come qualche cosa che la persona stessa ha prodotte e quindi sì, vengono enunciate come disagio, ma se sono state costruite, beh la persona ha avuto dei buoni motivi per farlo e finché dicevo permangono questi buoni motivi permarrà anche questa situazione che lui indica come disagio, e sottolineo indica come disagio, poiché se fosse disagio allora non lo farebbe, farebbe altro, poiché nessuno lo costringe ad essere depresso, a sentirsi solo o ansioso o qualunque altro malanno. Ma la questione più interessante è il fatto che comunque vengono considerate come una sorta di malattia, qualcosa da debellare, tant’è che per esempio la depressione nella quale spesso insiste una condizione di solitudine, è considerata una sorta di male sociale, il male del secolo, ma perché c’è la necessità di patologizzare qualunque cosa? C’è una sorta di omertà, come nella mafia, un’omertà per cui se una persona non ha voglia di andare da qualche parte e dice che sta male viene creduto, è la famosa malattia diplomatica, l’ambasciatore non può decidersi se andare oppure no, dovrebbe andare ma allo stesso tempo non deve andare che fa? È malato, non può andare e quindi siamo tutti salvi, una questione di responsabilità, così come per l’ambasciatore sarebbe una sua responsabilità, certo questa responsabilità in quel caso può anche condurre a un conflitto, così come per la persona assumersi la responsabilità può portare a un conflitto, però deresponsabilizzandosi trova il modo per eliminare una serie di problemi che in cuor suo sa che dovrebbe affrontare ma che preferisce non fare, e allora per esempio l’ansioso non è ansioso per qualunque cosa ma per lo più per alcune cose, teme per esempio, adesso faccio un esempio banalissimo, che una persona cara possa morire, e ha tutte le buone ragioni per pensare una cosa del genere, primo perché gli umani per definizione sono mortali e quindi c’è sempre questa possibilità, secondo perché con tutto quello che capita in giro… certo è una possibilità, così come è una possibilità che non accada assolutamente nulla ma questa non viene contemplata, ora questo augurio che viene fatto alla persona cara, che possa succedere qualcosa, ovviamente non è, come usa dirsi, consapevole, ma c’è il pensiero che a questa persona possa accadere qualcosa di brutto, perché mai dovrebbe accadergli? Non sarà forse che in qualche modo… adesso la dico grossa, glielo auguro? C’è questa eventualità, però accogliere una cosa del genere potrebbe essere per molti catastrofico, soprattutto nel caso di una stretta parentela il padre con il figlio, la madre con il figlio, la sorella con il fratello etc. il buon senso comune e il vivere civile vietano di pensare una cosa del genere, come qualcosa di criminoso, quindi se per caso mi venisse in mente una cosa del genere sono un criminale, io non voglio essere un criminale e quindi non posso pensare questo, il problema è che i pensieri ci sono comunque, il più delle volte ingestibili e incontrollabili, e allora ecco che non sono io che auguro una cosa del genere, anzi io la temo per lui e allora mi viene l’ansia, sono sempre in ansia, in attesa che accada quello che immagino gli debba accadere. La stessa cosa per la depressione, per la solitudine, se vi capita di fare due chiacchiere con una persona che lamenta di essere sempre sola e abbandonata da dio e dagli uomini, vi accorgerete dopo poco che parlate con questa persona, che c’è la sua intenzione di essere in questa condizione di solitudine nella quale può finalmente sentirsi quantomeno compreso da alcuni, o sentirsi addirittura importante, così importante da essere evitato da tutti, tutto il mondo lo evita, perché? Ci deve essere un motivo serio, grave per fare una cosa del genere e quindi se tutti mi evitano sarò allora veramente la persona peggiore che esiste sul pianeta, in ogni caso ho una qualità. In tutte queste varie situazioni in ogni caso la persona crea, come dicevo, questa scena dalla quale poi dice con risolutezza e determinazione di volerne fuggire, ora sappiamo che se volesse effettivamente fuggirne, non ci sarebbe neanche mai entrato, ma a cosa serve questa enunciazione, il dire di non volere essere depresso o sentirsi tale? Vale a togliersi totalmente la responsabilità, non sono io che ho creata questa cosa ma mi è capitata e quindi non posso farci niente, se non posso farci niente è sicuro che non sono responsabile e quindi posso continuare con la mia depressione, la quale ha un notevole utilizzo, uno dei principali è quello di potere descrivere con certezza come stanno le cose, il depresso sa benissimo come stanno le cose, le cose stanno malissimo, sono andate ormai a catafascio e non c’è nessun rimedio, lui lo sa invece loro che se la ridono non sanno niente, i poveri scriteriati, lui sa, tant’è che non desidera affatto il più delle volte essere contraddetto quando descrive i motivi della sua depressione, che ritiene assolutamente fondati o addirittura nobili, e dunque perché adoperarsi per togliere una persona dalla depressione? Perché mai? Poiché certamente è quello che vuole, certo in molti casi un analista viene interpellato proprio per questo, ché la persona è fortemente depressa, e allora ci si trova in una condizione paradossale come abbiamo detto varie volte e cioè una persona chiede di sbarazzarla di qualche cosa che lei stessa ha creata e quindi, avendolo fatto, ha dei buoni motivi, perché vuole sbarazzarsene? La questione potrebbe essere posta forse in modo più interessante in questo modo, non tanto come fare a sbarazzare questa persona dalla depressione, ma perché se ne vuole sbarazzare? Forse perché ci sta male? Beh, non è che siamo così ingenui, cionondimeno siamo chiamati a fare qualcosa e la cosa migliore che possiamo fare in una situazione del genere è porre le condizioni perché la persona possa incominciare ad accorgersi della responsabilità di ciò che sta dicendo, e cioè che questa condizione nota come depressione non è qualcosa che è avvenuta miracolosamente, ma è qualcosa che ha prodotta e che utilizza e che finché permane l’utilizzo o più propriamente l’utilizzabilità da parte sua di tale depressione, questa cosa che si chiama depressione, non cesserà, continuerà a utilizzarla, inesorabilmente, certo possiamo porre le condizioni perché cessi di essere utilizzabile e cioè cessi di essere importante per quella persona, questo è quanto possiamo fare, non è poco, a questo punto occorre sì, essere meno ingenui sicuramente, non solo rispetto a ciò che si ascolta in generale ma anche rispetto al proprio discorso, cioè le cose che ciascuno dice fra sé e sé. La crisi di panico… da dove viene la crisi di panico? Perché una persona deve avere paura di qualche cosa che magari neanche esiste? Eppure ne ha una gran paura, a un certo punto, senza nessun motivo, prende una gran paura di tutto e di tutti, al punto da doversi rintanare da qualche parte, di che cosa ha paura, e soprattutto a che cosa gli serve? Finché non si intende questo, a che cosa serve la paura in questo caso, la depressione in altri, l’angoscia o quello che vi pare, non c’è modo di venirne fuori, dunque a cosa serve la paura? Tendenzialmente si è portati a considerare che la paura sia una reazione di difesa di fronte a un pericolo incombente, generalmente si considera così, anzi qualcosa che è utilissimo perché fa accorgere una persona di una minaccia per la sua incolumità e la fa porre al riparo da tale minaccia, però il caso dell’attacco di panico non corrisponde a questa definizione poiché la persona stessa ravvisa la totale assenza di qualunque minaccia cionondimeno ha paura, qual è l’effetto immediato della paura? La paura produce un’emozione molto violenta anzi, forse una delle più violente, ora ciascuno di voi sa e probabilmente almeno una volta in vita sua è stato attratto dalla paura, anzi esistono delle rappresentazioni, sia cinematografiche sia teatrali, dove vengono rappresentate scene che hanno lo scopo preciso di produrre nel pubblico la sensazione della paura, ora siccome questa industria fiorisce sulla paura, viene il sospetto che ci sia qualche cosa che attrae nella paura, che attrae fortemente, e ciascuno è al tempo stesso, il più delle volte, attratto e respinto, come quelli che vanno a vedere i film che fanno paura e poi guardano con la mano sul viso attraverso le dita, dicevo la paura è una delle emozioni più forti, più violente, ce ne sono poche che stanno al pari di una forte paura, ci sono tutta una serie di reazioni fisiche: l’affanno, il respiro si fa violento, il cuore comincia a battere a mille, sudorazione, tutta una serie di annessi e connessi, ora se questa paura riesce a produrre una sensazione così violenta e in alcuni casi addirittura creata, cercata e goduta, allora questo attacco di panico, possiamo riformulare la domanda, a che cosa serve? Potremmo azzardare che serve per provare o comunque avere a disposizione sempre in ogni caso la possibilità di provare un’emozione fortissima? È una possibilità, tant’è che in effetti i “sintomi” cosiddetti anche in questi attacchi di panico sono esattamente quelli della paura: tremore, ansia, affanno, battito cardiaco accelerato etc.

Intervento: scusi paure o fobie?

Adesso sto parlando della paura, se vuole possiamo distinguerle, se non vuole no, possiamo anche dire che la fobia è una paura, la paura di qualche cosa in particolare, nei confronti della quale esiste anche una forte attrazione, dipende dalle definizioni che diamo di volta in volta di paura o di fobia, possiamo affermare che nella fobia non c’è nessuna paura? E possiamo affermare che la paura è paura di qualche cosa? Se fosse paura di niente non ci sarebbe paura, e se è paura di qualcosa allora per questo qualcosa possiamo parlare di fobia ma in ogni caso la questione più importante è intendere a che cosa serve in questo caso la paura, sappiamo che non serve a proteggere da qualche cosa visto che non c’è nessuna minaccia né incombente né futura. Gli attacchi di panico avvengono in situazioni particolari, dico generalmente quando cioè c’è l’eventualità di esibirsi per qualunque motivo o in ogni caso una situazione che è vissuta come un’esibizione, per esempio parlare in pubblico, trovarsi di fronte a molta gente, essere sotto gli occhi di tutti, ecco che incomincia ad avere problemi e allora in questo caso la questione del panico va posta in modo leggermente diverso anche se comunque rimane la domanda fondamentale e cioè a che cosa serve provare una fortissima emozione, ma per che cosa? Forse perché si esibisce? Ma si esibisce in una sala perché parla a delle persone, che esibizione è? Forse questo essere in pubblico per quella persona ha ben altro significato, significa esibirsi in pubblico ma in tutt’altro modo, sessualmente connotato per esempio, e questo produce una forte emozione, così come produrrebbe una forte emozione per una persona, o talvolta una bimbetta che venisse scoperta in abiti discinti da persone adulte e magari si vergogna, e quindi ha queste reazioni, ecco che allora diventa tutto molto più semplice, molto più chiaro, e cioè il panico in questo caso ha questa funzione, come dire che dobbiamo sempre porre la domanda: “a cosa serve?” a provare quella emozione che proverebbe se si trovasse in quella particolare condizione a sfondo sessuale e quindi immagina, crea una scena simile, immagina, quella persona, di essere sessualmente esposta agli occhi del prossimo, allora a questa condizione è tra virgolette “giustificata” la sua reazione di ansia, di timore, di vergogna di tutte queste altre belle cose…

Intervento: fa tutto da sola?

Sì, certamente…

Intervento: senza fare niente. Come mai?

Sì, reagisce come se si trovasse in quella scena che in qualche modo immagina, ma per potere provare quella forte emozione deve immaginare di trovarsi in quella scena, se no non succede niente, soltanto costruendo questa scena e immaginando di essere lì, nudo agli occhi del mondo, allora a questa condizione può provare quella fortissima paura o senso di vergogna o tremore o esigenza immediata di trovare un posto dove nascondersi agli occhi degli altri ovviamente…

Intervento: e la claustrofobia?

Questa è una cosa ancora diversa… per tornare alla questione della solitudine che in ogni caso attrae sempre molto, una persona che si sente sola e abbandonata generalmente attrae l’interesse altrui, si comincia a pensare che debba essere aiutata, accudita, coccolata, messa in compagnia ma se volesse stare in compagnia lo starebbe, tant’è che messa in compagnia ne fugge perché cerca la solitudine, ma non può assumere la responsabilità di questa decisione, perché comporterebbe ammettere che, per esempio la solitudine serve a creare una sorta di seduzione nei confronti del prossimo, serve ad avere ottimi argomenti per lamentarsi quando qualcuno le chiede che cosa c’è che non va, e serve a un’infinità di altre varie cose alle quali non rinuncia. Può prediligere la solitudine se il suo discorso, la sua storia, la sua vicenda l’hanno portato a privilegiare questa vicenda, adesso vi faccio un esempio. Da bimbetto s’è accorto che la mamma o la zia o il papà è stato particolarmente attento nei confronti di una persona che era abbandonata, da lì può avere costruito una storia, un film, e diventa una situazione privilegiata per destare l’interesse altrui, altri invece preferiscono ammalarsi di malanni tremendi, a seconda del gusto estetico della persona. Ecco perché la posizione dell’analista come vi dicevo talvolta è bizzarra, gli si chiede di porre fine a cose che la persona stessa ha create e dalle quale cosa trae un sacco di benefici, e il fatto che dica di non volerla è soltanto un modo per dire che non è colpa sua, che non può fare niente, che non l’ha prodotta lui, e quindi altri devono intervenire e togliergliela di torno, ma non è proprio così. C’è l’opportunità ovviamente in un’analisi di accorgersi di una cosa del genere, che tutti i mali del mondo, come recita l’antico adagio, non vengono per nuocere anzi, vengono proprio per piacere al punto che non bastano mai, i malanni, e c’è anche chi se li produce sempre di più al punto da mettersi in alcuni casi veramente nei guai, proprio per costringere altri a intervenire in suo aiuto, questo riguarda alcune strutture di discorso come dire “io a questo punto sono talmente pieno di problemi che non posso risolverli da solo, quindi che altri intervengano e mi traggano dall’impiccio” ma perché mai cacciarsi nei guai, oppure vivere sempre situazioni nerissime e nefande, e terribilissime? È come se una persona andasse a vedersi un film tragico, ci sono quei film in cui succedono tragedie terribilissime, uno potrebbe chiedere: perché vai a vedere una cosa così tragica? Vai piuttosto a vedere una cosa divertente, che faccia ridere, e invece no? Vai a vedere la tragedia; ci sono persone che anziché andare al cinema fanno da sole, diventano attori, registi, sceneggiatori, e costruiscono delle vicende, delle storie che effettivamente sono tremende. Ovviamente per godersi questa scena, della quale ovviamente dicono di esserci loro malgrado ma se li farete parlare, allora vi accorgerete che non è affatto così, e quindi viene da domandarsi: perché questa persona si è costruita una scena così tragica? A che scopo? Ve lo dirà questa stessa persona se avrà l’occasione di parlare con voi, se no, non lo saprà mai, e continuerà all’infinito a produrre questo film e a recitare questa storia, all’infinito fin che morte non li separi. Ma se invece ha l’occasione di parlare allora interviene che si accorga della responsabilità: se a un certo punto sono io che ho costruito, che mi faccio questo film e me lo godo allora posso cessare di farlo e, secondo, cosa ancora più importante, posso accorgermi del piacere che ne traggo. E quindi intanto cessare di lamentarmi con il mondo intero della malasorte, che non è affatto una malasorte, e poi decidere con assoluta libertà se continuare oppure no, è anche questo che fa un’analisi.

 

Intervento: al momento in cui ci si trova responsabili di questa scena che si va costruendo può decidere, lei diceva, di continuare a giocare questa scena…

È una formulazione un po’ paradossale

Intervento: al momento in cui si accorge di quello che mette in scena o di come interpreta la questione, manca il gioco a quel punto, non diverte più, perché se sono io che costruisco quel film e lo interpreto e mi accorgo di questo non cambio canale per continuare quel gioco in cui devo continuare a darmi le martellate sulle dita cosa perché è un’operazione che fa molto male, e non mi piace più al momento che sono io che me le do e non è il colpevole mondo esterno…

Dovremo trovare qualcosa che possa sostituire cotanto piacere, è un po’ come l’esempio che facevamo tempo fa del cosiddetto drogato al quel al posto della droga gli si prospetta l’eventualità di coltivare pomodori, ora la coltivazione dei pomodori non dà le stesse sensazioni che produce l’eroina, e quindi non continuerà a coltivare pomodori, a meno che trovi qualche altra cosa al pari quanto meno, ora questo qualche altra cosa che sia al pari dove può trovarla? L’unico posto dove può trovarla è nei suoi pensieri ma occorre che abbia l’opportunità di poterli accogliere, per poterli accogliere occorre che abbia l’opportunità di non averne paura, per non averne paura, occorre che sappia di che cosa sono fatti. E pertanto come diceva giustamente Cesare occorre che sappia come funziona il linguaggio. a quel punto cessa di avere paura, non solo cessa di averne ma non può averne in nessun modo.

Intervento: la questione della paura di pensare… si deve la costruzione dei guai, la persona si mette continuamente nei guai perché in qualche modo i problemi se li va a cercare… come se costruire continuamente problemi abbia un utilizzo di distrazione dai propri pensieri che è ciò che consente di non pensare a qualcosa che mi può infastidire, che mi può portare a fare delle considerazioni che non voglio fare e sarebbero quelle considerazioni che metterebbero in discussione tutta questa scena che mi vado costruendo… il disagio molto spesso ha questa valenza, questa funzione di inganno, ingannare l’altro in quanto l’altro è lo spettatore di questo disagio e ingannare soprattutto se stessi con il disagio che mi consente di non pensare o comunque di avere qualche cosa di preciso a cui pensare proprio perché ciò mi consente di non pensare ad altro, diceva Freud in tempo di guerra scompaiono le nevrosi nella nevrosi c’è una richiesta di non pensare, ma continuare a ruminare pensieri uno dietro l’altro che non concludono a nulla ovviamente…

Intervento: lei prima parlava dell’ansia per esempio, l’ansia per esempio per una persona cara, l’idea continua che alla persona cara possa capitare qualche cosa, lei parlava di augurio in qualche modo che è quello che si fa alla persona cara, così si può intendere, questi sarebbe i brutti pensieri dei quali parlava Sandro che non permettono al pensiero di svolgersi nei confronti dei quali e per mezzo dei quali si costruisce il disagio e ci si dà da fare per creare disagio, l’attrazione, farsi del male fisico o morale… la conclusione “sono io che auguro delle brutte cose alle persona che amo” non può essere accolta e quindi si capovolge ed è il mondo esterno che mi fa temere perché è un mondo terribilissimo… la questione precisa è che è nei confronti di quella conclusione che avviene tutta questa serie precisa di altre costruzioni che poi sono altri giochi che intervengono. Se una persona si butta dell’acqua bollente sulla mano a quel punto si fa del male perché compie un’operazione di questo genere? Ma è la realtà che vince nei confronti di quella questione che non accoglie, realtà che la costringe a bruciarsi a punirsi, per esempio.

Come capita addirittura all’inizio di un’analisi perché hanno avuto un pensiero, ad esempio, un desiderio di morte di una persona cara, il figlio o il padre etc. e a tal punto se ne sono spaventati da iniziare immediatamente un’analisi per sbarazzarsi di questo pensiero, ma la paura qual è? Non soltanto di averlo pensato ma di poterlo realizzare…

Intervento: e quella di Aosta, è capace di intendere, che fine ha fatto?

A me lo chiede? Non ne ho la più pallida idea. Però in alcuni casi si arriva anche a questo, a fare fuori una persona e l’idea è proprio questa “siccome l’ho pensato allora sono anche capace di farlo” e non ha torto in un certo senso, non ha torto nel senso che, anche se non è necessario ovviamente ammazzare qualcuno, desiderio di morte nei confronti di quella persona è talmente forte che se non è riconosciuto e ricondotto a quello che è e cioè a una sequenza di proposizioni, connesse con delle fantasie assolutamente risibili, può anche arrivare, può arrivare a porsi in essere e quindi a fare fuori qualcuno. Lorenzo qualche considerazione, prima di chiudere in bellezza?

Intervento: ricollegandomi a quello che si diceva l’altra volta, mi domandavo se in quel caso lì non ci sia un rilancio, o un cambio di gioco

Sì, se non si intende la questione certo, può avvenire proprio questo, si abbandona una certa cosa ma si ricade inesorabilmente in un’altra. Ci sono delle persone che sembra siano maledette dagli dei, ogni volta che hanno una relazione finisce sempre malissimo, poi ne aprono un’altra, finisce malissimo anche quella e così via all’infinito, non è una maledizione divina, è un’intenzione precisa, per cui cambiano partner, cambiano storia ma la fantasia rimane la stessa, che ricondurrà inesorabilmente sempre alla stessa conclusione…

Intervento: è la prima volta che vengo… mi sembra che tolga via tutta la storia dell’individuo…

No, questo film si è creato nel corso degli anni, tutta la sua vita, tutto quello che è comunemente noto come vissuto è quello che concorre a costruire questa scena, per esempio di abbandono, non si crea dal nulla, c’è tutta la sua storia, per cui il fatto che sia una produzione di tutta la sua storia, cioè una conseguenza, potremmo anche dire che la sua storia non toglie il fatto che in ogni caso ha un utilizzo, perché la sua storia l’ha condotto a creare quella scena, un’altra storia invece produce un’altra scena però in entrambi i casi c’è un utilizzo di questa cosa. Non è che la persona abbia l’intenzione di essere depressa, forse occorreva precisare meglio, è un’ intenzione del suo discorso, perché se il suo discorso la costruisce e lui non è altro che il suo discorso allora possiamo parlare di intenzione, però in un’accezione un po’ diversa da quella che si intende generalmente, cioè di una persona che è consapevole e decide a tavolino per così dire, no non era in questo senso, ma essendo una costruzione del suo discorso ed essendo, torno a dire, lui nient’altro che il suo discorso allora possiamo anche parlare di intenzione del suo discorso, e quindi della sua storia, della sua vicenda, di tutto ciò di cui è fatto: le cose che pensa, che crede, che aborre, che desidera, i suoi fallimenti, le sue vittorie, tutto questo è ciò di cui è fatto, le cose che ha viste e sentite, che ha immaginate, che ha credute, tutto, niente escluso, ma è del discorso questa intenzione che può apparire contraddittoria, perché ad un certo punto è sempre il discorso che dice di non volerlo ma dice di non volerlo per potere continuare, perché se potesse accogliere il fatto di volerlo, di desiderarlo allora non potrebbe più godersi tutta questa cosa, come diceva Beatrice: se sono io che posso dirmi che godo di questa cosa, per esempio, della solitudine, difficile che rimanga lì a insistere su questa cosa, faccio altro e perde tutto l’aspetto entusiasmante della cosa, così come in alcuni casi è necessario potere pensare che una certa cosa capiti tra capo e collo per poterla godere appieno, se è una costruzione perde il sale…

Intervento: per portare alle estreme conseguenze il valore anche politico di intendere il disagio… è una questione che si riferisce al soggetto, è lui che subisce letteralmente soggetto a qualcosa di cui non è assolutamente responsabile, da qui ne deriva tutta una considerazione intorno a quello che è il fatto che la persona che prova un disagio sia una persona che in qualche modo ha bisogno di essere tutelata, assistita… e quindi si toglie assolutamente qualunque dignità

Intervento: senza nulla dire delle case farmaceutiche far accogliere il discorso della responsabilità rispetto al disagio stravolgerebbe tutta una politica di 1500… il business degli psicofarmaci in effetti esiste per una questione economica

È proprio dello psicofarmaco che parlerà Sandro la prossima volta, il tema è proprio questo: “Morte e miracoli dello psicofarmaco” morte perché in molti casi conduce proprio a quest’esito… ci vedremo giovedì prossimo.