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LA POLITICA DELLA PSICANALISI

 

7 maggio 1993

 

Intervento di Maria Riga

La politica della psicanalisi: questo titolo, nel discorso comune, allude a un modo di dire, di fare in vista di un fine proprio della psicanalisi, il che comporta in prima istanza una comprensione inequivocabile del termine psicanalisi.

La psicanalisi è definita, sempre dal discorso comune, come ciò che si prende cura dell’anima; la sua politica avrebbe, quindi, come fine, attraverso un’analisi, quello di rendere tale anima sana. Nessuna differenza, dunque, rispetto al discorso della medicina che si propone sì di sanare il corpo ma che muove dallo stesso principio, quello di riportare qualcuno al ben-essere.

Anche la politica degli stati muove da tale principio. Qualunque stato enuncia, infatti, di avere come fine il benessere del suo popolo in quanto, come dice Hobbes, il male risiede nell’homo naturalis, quello del tutti contro tutti, una sorta di bruto che va educato e ricondotto al bene, che in questo caso è quello comune, bene di cui Aristotele dice di essere il fine ultimo dello stato.

Il principio è, dunque, quello del raggiungimento del bene.

Questione molto antica, quella del bene. Platone, paragonandolo al sole, dice che è ciò che fa essere e valorizza tutte le cose, mentre Aristotele, dicendo che è il motore immobile verso cui tutte le cose tendono, getta le basi della futura dottrina plotiniana e, successivamente, gnostica, quella del ritorno a un bene da cui ci si sarebbe allontanati.

Un discorso religioso, dunque, visto che qualunque religione pone un male da cui allontanarsi e un bene da raggiungere e fornisce tutte le risposte per poter finalmente trovare la felicità, la verità, il sommo bene, in definitiva, dio.

Bene e male sono concetti che si rifanno a un’antica concezione dualistica e che, quindi, si sostengono a vicenda: occorre credere nel male per poter credere nel bene e viceversa. Non è, dunque, un caso che il papa cattolico, pur occupandosi del sommo bene, parli tanto spesso del maligno.

Ma torniamo alla psicanalisi. Una psicanalisi al servizio del bene, quella del luogo comune, al servizio cioè di un concetto metafisico, un’idea platonica dell’iperuranio che tutti questi discorsi, da quello degli stati a quelli cosiddetti scientifici, cercano di gestire, economizzare, localizzare in qualcosa o in qualcuno.

La scienza della parola non dice di una psicanalisi al servizio di, non si occupa di riportare qualcuno in qualche luogo, né di normalizzare come vorrebbero fare la psicoterapia e la psichiatria. Ciò perché non muove dal concetto di male, non ritiene il male assumibile e, quindi, rappresentabile.

La psicanalisi di cui si parla trae il suo statuto dall’improporzione della parola, dice che le cose non sono misurabili. Preferisce, quindi, parlando della politica, partire da polis, da quel molto non numerabile, di cui non si sa la misura. Di misura non conosce nemmeno la sua, quindi non si pone come scienza positiva. Anzi, dice che in quanto tale essa non esiste. Mette, cioè, in discussione insieme a altri concetti, anche e soprattutto quello di esistenza, di essere. L’elaborazione iniziata qualche anno fa dal dott. Faioni è, infatti, partita da un’interrogazione intorno al concetto di essere.

Le cose sono in quanto rinviano a un concetto metafisico, quello di un dio garante dell’esistenza. Ma la nozione di essere è un significante come altri, come per esempio quello di bene o di male, che non sono fuori dal linguaggio. Occorre, pertanto, accorgersi che si sta parlando, che le parole non corrispondono alle cose, che le cose si dicono, sono nella parola e non in qualche luogo fuori della parola.

Non si danno, quindi, come acquisite e scontate affermazioni di principio come quella che “il bene è ciò a cui ogni uomo tende e a cui occorre che giunga”, ma si mettono in discussione e, quindi, ci si confronta con tale concetti, sottolineando che in prima istanza si tratta di una proposizione linguistica. Non si parla di inconscio come luogo che contiene ciò che non è accolto dalla coscienza ma come logica che avviene parlando, una produzione della parola.

La psicanalisi si occupa di un itinerario intellettuale che pone le condizioni perché ciascuno, che si trova in questo itinerario, si accorga di ciò che sta dicendo. pone, quindi, le condizioni per trovare altri modi di tenere conto della logica che esiste parlando.

Si occupa, in definitiva, della parola, non di quella d’ordine, che comporta il far credere e presuppone un soggetto parlante, ma di quella che agisce e che effettua il soggetto nel linguaggio.

Un itinerario che porta alla parola libera, una parola che non sa, prima di dirla, la misura delle cose, ma si accorge dopo degli effetti che queste parole rilasciano, per verificare infine che ciascuna parola resta aperta in quanto rilascia un due, un immisurabile, un infinito.

La politica della psicanalisi non è, dunque, quella della padronanza sulle cose, sulle parole, in quanto si accorge che le cose non sono propriamente, non sono ferme, identiche a sè, non si possono prendere, non sono utilizzabili. Si tratta di un itinerario che mette in gioco questa supposizione, che mette in gioco che le cose siano in quanto tali e che, quindi, possano pesare. Ciò in quanto la psicanalisi si accorge che le cose, le parole, per l’intervento della rimozione e della resistenza, parlando si dividono, non sono tutte e rilasciano una differenza.

La politica della psicanalisi è, dunque, un tenere conto che le cose non sono tutte, che ciascuna volta differiscono da sè in quanto interviene una divisione, interviene il tempo nell’accezione di temno, taglio, un taglio che, dividendo, annulla qualsiasi misura delle cose e che ciascuna volta rilascia una differenza.

Se non c’è nulla da misurare, la parola è libera, si dice da sola, è sessuale. Scrivevo altrove che se c’è sessualità le parole, le cose, si dicono in modo particolare, un modo che è unico perché semplice e autentico, un modo che non occorre spiegare né sostenere con altre parole. Ciò perché la parola, se sessuale, non è l’effetto di un’intenzione che cerca di gestirla, misurarla o significarla, ma è completamente libera da qualsiasi legame.

A questo punto, anche il racconto storico diventa politico, cioè, non tutto. Non è più il tutto rispetto a cui ciascuno si muove; in quanto non tutto non pesa più perché non è più proprio ma diviene, come la parola, impersonale.

 

Intervento di L. Faioni.

La questione che si incontra e che ciascuna istituzione incontra, rispetto alla cultura, per esempio, è questa: la necessità che la cultura sia misurabile, distribuibile e partecipabile.

Ciascuno stato si occupa di questo prevalentemente, ciascuno stato necessita di cittadini istruiti e che vivano discretamente bene. La cultura è essenziale perché ciascuno stato necessita di un pensiero su cui sostenersi. E, dunque, ha sempre esercitato un controllo sulla cultura, un controllo molto ferreo più sulla cultura che su altre cose. A modo suo ciascuna istituzione, ciascuno stato sa che soltanto attraverso il controllo sulla cultura può controllare i cittadini.

Dunque, un’idea di cultura che è particolare, che poggia su una nozione di misurabilità delle cose. Laddove la cultura gli sfugge, lo stato si dissolve, scompare.

La cultura, laddove è in qualche modo finalizzata, è uno strumento per la riproduzione economica, non del fatto in questo caso, ma del suddito. Del suddito che deve riconoscersi attraverso una cultura comune.

Questo lo stato offre ai cittadini, cioè, qualcosa in cui riconoscersi e che consenta la comunione.

Che cosa ha insospettito tanto Stalin quanto Mussolini e padre Gemelli nei confronti della psicanalisi? L’idea, la supposizione, tutt’altro che errata, che la psicanalisi non sia gestibile e, pertanto, non sia finalizzabile. Produce una cultura che non è finalizzata al fare qualcosa, non è finalizzata al bene come benessere, dunque, non è finalizzata al mantenimento di uno stato, di uno statuto.

Da qui il sospetto iniziale nei confronti di Freud, sospetto poi svanito quando la psicanalisi è stata tradotta in una vulgata che ha consentito di immaginarla un settore della medicina e, quindi, finalizzata al bene, cioè, alla salvezza. Solo a questa condizione la psicanalisi ha potuto essere accolta, non soltanto in Europa, ma soprattutto negli Stati Uniti dove è praticamente dominio della medicina. Intendo qui medicina non tanto come ricerca scientifica ma come ideologia medica.

L’ideologia: uno dei pilastri di ciascun stato.

Oggi, moltissime discipline hanno la struttura dell’ideologia medica, la struttura di qualche cosa che risponde all’esigenza di fine, di qualche cosa che sia utile a qualcosa o a qualcuno. Prendere le distanze dall’ideologia medica porta a prendere le distanze da questa ideologia, cioè, dall’ideologia della finalizzabilità delle cose.

Allora, dunque, la cultura, la cultura ideale in ciascuno stato moderno occidentale è la cultura medica, la cultura che consente di guarire, cioè, che ha lo scopo, la finalità suprema del benessere dell’uomo, sia fisico che psichico. Le altre seguono e non sono che marginali rispetto a questa.

Dicevamo come anche l’ideologia politica si strutturi in qualche modo sulla base dell’ideologia medica. Parlavamo tempo fa del terapeuta, del terapeuta come l’uomo politico per eccellenza.

Se, dunque, il sospetto che la psicanalisi avanzasse delle tesi non asservibili a questa o a quella ideologia, se, dunque, questo sospetto non era infondato, tuttavia qualche cosa ha consentito a qualcuno di muoversi nei confronti di questa ideologia in modo interessante. Pensate, per esempio, a Lacan che, forse per primo, dopo Freud, prese le distanze dalla necessità per la psicanalisi di essere strumento di guarigione. Tant’è che nei suoi scritti non trovate praticamente mai riferimenti a testi di medicina o psichiatria salvo, eventualmente, per porre obiezioni. Moltissimi, invece, i riferimenti a linguisti, a filosofi, a artisti.

Questione, quella della cultura, tutt’altro che marginale.

Come elaborare, come muoversi, come pensare, dunque, la cultura?

Già muovendo da alcune tesi di Freud, o comunque del suo pensiero, può intendersi che la cultura procede da qualche cosa che man a mano si produce nel proprio discorso, nella propria parola. Dicevamo l’altra volta, Freud è molto perplesso, molto dubbioso su quale cultura, per esempio, debba avere uno psicanalista. Quando gli chiedono esplicitamente questo, non lo sa, cioè, comincia a porre obiezioni rispetto a una finalizzazione del sapere. Si accorge che, forse, sta esplorando, sta incontrando delle questioni che non hanno più a che fare con questo. Cioè, in definitiva, quando gli chiesero cosa serve per praticare come analista, non seppe cosa rispondere.

Con questo non è che l’analista non debba sapere nulla, al contrario, ma non c’è una cultura già data, prestabilita e che sia funzionale a questo.

Allora, è un’altra nozione di cultura: cultura come ciò che si produce, poiesis, come poesia. A che cosa serve la poesia? Come finalizzarla?

La poesia non serve. Da qui il sospetto, anche in questo caso, nei confronti di poeti, personaggi un po’ strani, un po’ come i matematici. Poeti e matematici, sorta di personaggi un po’ stravaganti, lontani dalla realtà. Il matematico perché si occupa di cose astratte di cui non si sa. Parlo del matematico non del tecnico. Il tecnico “sa perfettamente”; il tecnico è una figura, oggi, che ha una sua collocazione. Il poeta proprio non si sa cosa faccia, come viva, dove viva. Scrive delle cose che sono astruse, sono incomprensibili e, quindi, difficili da capirsi. Eppure, c’è qualcosa nella poesia per cui ciascuno, se poco poco ha orecchio, è tratto in qualche modo a seguirne il ritmo, a seguirne la musica. Certamente, molto è stato detto su che cosa debba servire la poesia, fin dagli antichi. Ma la poesia resta assolutamente inservibile. Cioè, il poeta non scrive per qualcosa; il suo fare, il suo scrivere non ha nessun fine. Scrive perché non può non scrivere. O, potremmo anche dire, scrive per piacere. Per il piacere di scrivere una poesia. Ciascuna conversazione, ciascun incontro che avviene in una conversazione analitica, prosegue per questo motivo: per il piacere.

Dicevamo, un po’ di tempo fa, che se qualcuno provasse a rifletterci troverebbe molto più sorprendente il fatto che qualcuno possa tornare la volta successiva a incontrare l’analista piuttosto che il fatto che non ci vada più. Sarebbe, anzi, normale. Come dire, in altri termini, che ciascuno parlando incontra la poesia che lo riguarda.

C’è qualcosa che si produce per piacere. Può, certamente, avviarsi un discorso con l’idea che anche questo parlare sia finalizzato, che serva a qualcosa, a far passare, per esempio, la fobia dei topi, nel caso dell’Uomo dei topi, o qualche altra fobia. Non è propriamente così. Resta da verificare se una fobia, una paura, un’angoscia, siano in particolare occasioni di parola, prima ancora che rimedi, come possono essere occasioni per parlare, per incontrare qualcosa per cui c’è del piacere. L’idea che gli umani parlino tra loro per comunicare informazioni è tra le più bizzarre. Se fosse così parlerebbero propriamente per pochi secondi al giorno.

Ma non è così. Semmai, al contrario, in moltissimi casi anche l’informazione è occasione di parola. Come ciascuno può rilevare in ciascun istante. Una persona incontra un amico per strada - gli hanno rubato la macchina - l’informazione sarebbe questa: “Mi hanno rubato la macchina”. Ma non è che si ferma lì, comincia a parlare per delle ore intorno a questo, ci mette dentro la cugina, quello che ha fatto l’estate scorsa, tutte vicende complicatissime ... insomma. Non è una trasmissione di informazioni né, peraltro, è trasmissione di pensiero. Perché se vogliamo anche ammettere per un istante che il pensiero sia per trasmettere qualche cosa, tutto ciò che segue non era stato affatto pensato, proprio per nulla, ma lo incontra lì parlando, magari per la prima volta. Dunque, non dice quello che pensa e non trasmette informazioni. Allora, perché parla?

Domanda legittima, dal momento che gli umani sono per lo più caratterizzati da questo aspetto: il fatto che parlano, parlano continuamente, parlano fra sé e sé, parlano con altri, parlano in sogno, parlano senza tregua. Il lavoro psichico non ha mai tregua, ventiquattrore su ventiquattro.

Succede qualcosa, anzi, succedono molte cose quando uno comincia a parlare. Incominciano a operare delle immagini, dei ricordi e, poi, il suono della voce, che è tutt’altro che marginale. Il suono della voce che, se per qualche verso può assordare, perché quando qualcuno parla non può pensare simultaneamente, il suono della voce, dicevo, provoca, perché è sempre differente. Questa voce non è gestibile, non è controllabile, in nessun modo, anzi, fa da ostacolo. Fa da ostacolo nel senso che dire è molto più difficile che pensare, qualche volta: uno fra sé e sé pensa dei discorsi, poi deve dirli e si inceppa. Qualcosa avviene che non c’era prima, qualcosa avviene perché lì c’è la voce. La voce è una sorta di ostacolo, di punto vuoto. Non si riesce a colmare in nessun modo, non si riesce a gestire.

Allora, poniamo la questione del parlare, del parlare per piacere. Esattamente, lo stesso motivo che muove il poeta a scrivere una poesia. Se è lo stesso ha anche lo stesso fine, cioè, quello di incontrare del piacere e del godimento.

Per questo, certe volte, è difficile fermare qualcuno che sta parlando, perché è preso da questa eccitazione, dal godimento che produce e mal sopporta di essere fermato. Al punto che, certe volte, non si accorge nemmeno se l’interlocutore lo sta a sentire oppure se ne è andato. E quello continua a parlare, non si accorge immediatamente, tanto è preso.

Forse, l’interlocutore è soltanto il pretesto per poter parlare. Meriterebbe venissero riprese queste funzioni del discorso, di cui parlava Jakobson nei Saggi di linguistica generale.

Allora, dicevo, parlare per piacere e senza un fine, senza un motivo, senza un motivo precedente. Ciascuno il motivo lo incontra mentre parla, è lì che incontra il motivo. E ciò che incontra è qualcosa di inatteso, di cui può avvalersi, su cui può riflettere.

Questo distingue una psicanalisi da una conversazione per così dire “non analitica”. In quest’ultima difficilmente c’è l’occasione di accorgersi di ciò che si sta dicendo, quindi, ci sono pochissime chances di avvalersi di ciò che si dice, di ciò che si incontra parlando. Il contrario di ciò che avviene, invece, in un’analisi, dove c’è l’occasione di accorgersi di ciò che si sta dicendo e di potere avvalersene.

Come dire che, scrivendo una poesia, io dico molte cose che mi riguardano. Sono lì, in questa poesia che sto scrivendo, non sono altrove, quindi, è degna di essere ascoltata con interesse. Sono lì in questa poesia, in questi significanti, nella loro combinatoria, nel loro ritmo, nella loro scansione. Io non sono altro che l’effetto di quello che dico ma la poesia, incontrando mano a mano che scrive, delle cose, non sa prima quello che dirà. Chi incomincia a scrivere un verso può accorgersi che qualcosa sta lavorando in lui. Poi, ne scrive un altro e man a mano inventa ciò che sta scrivendo.

Ciascuno man a mano inventa ciò che sta dicendo. Occorre accorgersene, altrimenti, se non se ne accorge, cosa succede? Non succede niente, ecco. Non succede nulla, nel senso che ciascuna volta c’è del tempo perso, vale a dire, non può avvalersene, non può metterlo a frutto, non incontra nulla.

Come se in un’analisi ci fosse l’occasione di accorgersi che questa poesia l’ho scritta io e accorgersi di che cosa ho scritto, che cosa sto scrivendo. Cosa che è tutt’altro che marginale o indifferente: consente di disporre di significanti, di fantasie.

Ma se una persona si forma in questo modo, nel senso che incontra mano a mano delle strutture anche sintattiche, se qualcuno si forma lungo questa modalità, dove ciò che acquisisce è qualcosa che lo riguarda, qualcosa che di volta in volta è differente da sé, senza un punto fermo, senza una garanzia, senza la necessità di qualcuno che gli dica come deve fare, come gestire questa persona, come farne un buon suddito?

Il suddito deve necessariamente credere che la cultura serva. Se non crede a questo è un pessimo suddito. E lo stesso pensare di sé che “non serve” è la cosa peggiore che possa capitare a un credente, cioè, di non avere un fine e di non servire.

Moltissime persone incontrano delle vere e proprie crisi a questo riguardo: di non essere utili o non essere più utili. A questo punto, si perdono, si smarriscono: “la mia vita non ha un senso”. Allora, si precipita a cercare un senso, quel significato che non ha. Se si impegna, non è necessario che faccia grandi sforzi perché ciascuna istituzione è pronta a fornirgli immediatamente un significato, un senso alla sua esistenza, di vario tipo, di vario genere, di varia foggia, per tutti i gusti.

Porsi altrimenti rispetto a questa struttura, come ha avviato a fare Freud, comporta non tanto una rivoluzione, una rivoluzione del pensiero ...

La rivoluzione, cioè, il rivolgersi di nuovo nei confronti di qualche cosa: mi volgo qui e poi mi rivolgo un’altra volta, perché così ci si volge sempre dalla stessa parte. Ciascuna rivoluzione è sempre universale, letteralmente. Ha un unico verso dove ritorna. Il modello della rivoluzione è quello celeste: la terra compie una rivoluzione intorno al sole e torna lì dov’era partita.

Si tratta, nel discorso di Freud, di ben altro, cioè, di sovversione. La psicanalisi, o meglio, il messaggio di Freud è radicalmente e strutturalmente sovversivo, perché non serve, anzi, pone delle obiezioni a qualunque ideologia del servizio. Incontra, dunque, nel percorso di formazione, in cui ciascuno ha l’occasione di accorgersi del ritmo, della scansione del proprio discorso.

La cultura muove dal piacere, dalla curiosità. Una curiosità mai sazia, mai soddisfatta, mai appagata. È un piacere che ciascuna volta, come indicava Freud, apre a un impiacere che non è, come dicevamo, un dispiacere ma un impossibile connesso al piacere che non trova una chiusura ma un’apertura verso il transfinito.

Ma se esiste una struttura dove è consentito a persone di incominciare a parlare, un parlare per piacere, senza nessuno scopo, senza nessun fine, se esiste una struttura del genere, questa struttura è una minaccia. Finché sono uno o due passi, se sono tanti è una minaccia tanto più pericolosa quanto più può avvertirsi che una direzione di questo tipo mina alla base, alle fondamenta, qualunque certezza di fondamenta.

La nobile menzogna, di cui parlava Platone, ha avuto un successo strepitoso che va molto al di là di qualunque telenovela anche se, certamente, ultimamente vi si pongono delle obiezioni.

Tutto il lavoro che è stato fatto dall’illuminismo che ha cercato, non senza successo, di togliere il potere alla religione per darlo alla scienza, non ha in fondo spostato molto la questione. Certamente, pur compiendo questa operazione, se non ha tolto alla religione la sua attendibilità, ha aggiunto credibilità alla scienza.

Insomma, il discorso scientifico ha impiegato moltissimi uomini, moltissimi mezzi per celare che, in fondo, dire che una cosa cade per la legge di gravità o cade perché dio lo vuole, è propriamente la stessa cosa, non fa nessuna differenza. Però, occorre che la cosa sia creduta e questo funziona in entrambi i casi esattamente allo stesso modo.

Quando c’erano gli dei, quando c’erano i giganti, c’erano effettivamente. Allo stesso modo che oggi può dimostrarsi che c’è un solido. Il fatto che entrambe queste asserzioni muovano da assiomi, che sono ipotesi, comporta che in entrambi i casi sia necessaria una credenza.

Cosa dice la scienza della parola? Dice che la credenza non è necessaria. Ma se non è necessaria la credenza, come credere? Da dove trarre la forza per formulare certe proposizioni?

La sovversione, dunque: ciò che la scienza della parola incontra avvalendosi del discorso di Freud, del discorso di Socrate, del racconto di Lacan, del racconto di Nietszche, del racconto di una sterminata schiera di persone. Avvalendosi di questi racconti.

Così come Freud parlava delle pulsioni come i nostri miti. Freud non ha detto che la pulsione è l’assioma scientifico; no, è il mito. In questo è molto più sincero, in una certa accezione, di qualunque scienziato.

Muove da un mito, ma non è che muovendo da un mito posso dire qualunque cosa. Proprio perché parte da un mito non può dire qualunque cosa: può soltanto seguire questo mito. Potremo dire che la parola o l’itinerario è rigoroso in quanto anarchico, in quanto senza origine, letteralmente. Perché rigoroso, in questo caso. Perché si attiene a ciò che accade lì, in quel momento. Non ha da ricondurre ogni volta ciò che avviene a un’ipostasi. Un’ipostasi si situa ora qua ora là, in un dio, in una legge o in un altro accidente.

Accidente sarebbe la cosa che accade. Ecco che a questo punto ciascuno può liberamente ascoltarsi. Senza paura, senza timore, senza peso. Ma con estrema leggerezza. Non ha da dimostrarsi credente, non ha da mostrare la sua patente di credente.

 

Conosciuto sarebbe l’identità. Qual è la mia identità? Ecco, lì trovo la mia identità, lì mi riconosco. Mi riconosco nel simile per cui se è differente non mi riconosco più. Quindi, bisogna pensarlo uguale. C’è qualcosa per cui io possa essere uguale a quell’altro: allora, mi riconosco. Ecco la questione che Lacan aveva posto: è il simile che consente di riconoscersi.

 

L’identificazione non cessa. È una cosa che potremmo indicare come strutturale. Però, già percorrendo il testo di Freud avevamo esperito questa nozione di identificazione: non è identificazione con qualcuno. Avevamo distinto l’identificazione dall’immedesimazione con qualcuno, dal fare come qualcuno.

L’identificazione è strutturale, è qualcosa che avviene rispetto a un punto vuoto, che può anche procedere apparentemente da qualcuno, ma è propriamente questo punto che interviene come ostacolo. Tant’è che è impossibile dire con che cosa ci si sia identificati. Letteralmente, l’identificazione sarebbe impossibile, è più corretto parlare di inidentificazione perché duo non faciunt idem, cioè, non c’è identità. Identificare è appunto fare qualcosa identico ma, se proseguiamo lungo l’elaborazione di Freud, possiamo reperire che già nel suo racconto l’identificazione non è più in questo senso, che un tizio si identifica con il Caio, diventa come lui. Semmai, proprio laddove tenta in tutti i modi di riuscire in questa operazione incontra un ostacolo. Freud ne parla sia nello scritto intorno al narcisismo, sia nella Psicologia delle masse e analisi dell’io, di come questo tentativo di togliere la differenza eventualmente, cioè di mettersi al posto di, incontri un ostacolo. Allora, potremmo dire che c’è un punto che resta vuoto, che si identifica, nel senso che si precisa. Ciascuno incontra l’identificazione e la incontra propriamente laddove qualcosa impedisce, qualcosa fa ostacolo, non soltanto a essere come qualcuno, immedesimarsi con qualcuno, ma anche a identificarsi in un progetto, in un’idea, in un qualunque percorso.

In effetti, tutto ciò che Freud dice dell’identificazione, pur descrivendone i vari motivi e i vari meccanismi, è che risulta un ostacolo, cioè, qualcosa di impossibile: non si riesce a fare come, qualcosa resta, qualcosa impedisce. Ma, ecco, identità è un’altra cosa, sarebbe un’identificazione riuscita. Identità è qualcosa che viene certificato, eventualmente da una carta. Allora, se non c’è l’identità, questo cosa comporta? Io non sono identico a qualcuno, ma incontro ciascuna volta una differenza. Se non c’è identità non mi riconosco, non c’è il qualcosa in cui possa riconoscermi per cui io possa dire: io sono. In questo caso dire “io sono questo” comporta sempre una deriva, uno scivolamento, una metonimia, uno spostamento.

Un’identità impossibile, paradossale come una sorta di caleidoscopio. Come fermare la mia immagine, l’immagine che ho di me?

Ciascuna crisi di identità risulta parodistica. Ci sarebbe crisi, eventualmente, se l’identità fosse raggiunta. Sarebbe proprio la morte, la morte di un’immagine identica a sé, una volta per tutte e, in definitiva, senza rilancio, senza più interrogazione. Una sovrapposizione.

L’identità è un principio e, come ciascun principio, è problematica.

 

Io ho detto che sono un credente? L’ho fatto evidentemente parodiando un discorso.

“Lasciar libera la parola” è una formulazione che può produrre qualche equivoco. In effetti, occorrono gli equivoci, ma occorre precisare che la libera parola non è dire qualunque cosa, dire quello che si crede. Se io incontro per strada un vigile o un poliziotto e gli dico delle cose che a lui risultano sgradevoli, poi, succede un problema. Allora, è preferibile non dire alcune cose ... In questo senso possiamo dire che la parola non è libera. Ma non è propriamente in questa accezione ...

Si tratta, invece, di questo: tutto sommato dire quello che passa per la mente, anche se in alcuni casi può comportare qualche contraccolpo, è propriamente ciò che lo stato, non solo ma ciascuna istituzione, invita a fare. Anche la chiesa; come è noto, nella confessione, che avviene con il parroco, con il prete, ciascuno deve dire senza nascondere nulla. Anzi, credo che nascondere qualcosa sia addirittura un reato, anzi, un peccato.

Il dire qualcosa è assolutamente funzionale a ciascun sistema. Anzi, occorre questo estremo gesto di democrazia, che si possa dire qualunque cosa. Ciascuna istituzione si è definita democratica perché consente di dire qualunque cosa. È noto l’esempio britannico nel parco Hyde Park: c’è questo posto dove ciascuno può mettersi lì e arringare la folla e dire tutto quello che gli pare. Emblema di grandissima democrazia: chiunque può dire ciò che vuole.

Ciascuna istituzione ha il modo, in ciascun momento, di sapere quello che avviene. Come dire, qualunque discorso, per quanto duro nei confronti dell’istituzione, è comunque sempre ben accetto. Anzi, l’opposizione è assolutamente funzionale a ciascuna istituzione.

Cosa avviene quando chiunque dice qualunque cosa? Assolutamente niente, nulla. Di questo nessuna istituzione se ne preoccupa, anzi, lo favorisce: a questo sfogarsi attribuisce anche una valenza terapeutica. pensiamo allo psicodramma: uno vuota il sacco, dice tutto, cosacce, tutto quello che voleva dire, si sfoga. Una volta sfogato, perfetto! Torna più sollevato e sicuramente con meno grilli per la testa. Ha sempre avuto una funzione psicoterapeutica il parlare senza pensare: funzione che viene utilizzata come psicoterapia o come modo di far servire le persone, oppure, come una confessione, quindi, stabilito come cerimoniale.

Invece, qui si tratta di tutt’altro. Nella psicanalisi non c’è per nulla il poter dire qualunque cosa. Ciò che diceva Freud a inizio seduta - Dica quello che pensa - risulta paradossale, parodistico. Dice alcune cose, tuttavia qual è la differenza, qui? Che mano a mano che uno parla si accorge di ciò che sta dicendo. In che senso? Nel senso che se mi trovo a raccontare un fatto banalissimo posso accorgermi che questo fatto è soltanto il pretesto per dire qualche cosa che, invece, mi interroga mi intriga molto pressantemente. Posso non accorgermi che, ciascuna volta, nell’arco della giornata, mi trovo a dire delle cose per rispondere a qualcosa che continua a interrogarmi e di cui non so, propriamente. Ma avverto un disagio, un fastidio, a allora continuo a raccontare qualche cosa senza accorgermi di ciò che sto dicendo. Cos’è accorgermi di ciò che sto dicendo? È, come ha cominciato Freud, prestare attenzione al dettaglio, al particolare, al significante. Accorgermi, cioè, che mentre dico si dicono dei significanti particolari, quelli e non altri. Prestare orecchio a questo significante comporta avvertire che c’è qualche altra cosa a fianco di questo significante.

Ma il percorso che io posso fare in questo modo e tutt’altro che libero. È assolutamente vincolato da una logica che è quella che mi riguarda, che è assolutamente rigorosa, nel senso che non è come quando posso dire qualcosa e ne dico un’altra. Potevo dire qualunque cosa? No, è un modo per cancellare tutto. Io ho detto questa cosa e a questa cosa mi attengo con assoluto rigore. Dire che ho detto questo ma che, però, potevo dire altro è come dire: “Non importa, ho detto questo ma non ha nessuna importanza...

Come è noto, in un’analisi ciò che viene enunciato come poco importante o irrilevante è straordinariamente importante. Allora, si tratta di prestare orecchio al dettaglio, alla sfumatura, al particolare, al significante, a come interviene, quale eco esso produce.

Attenersi ciascuna volta a ciò che si è detto. Se io faccio una proposizione, è quella, anche se non mi piace. Anche le cose più manifeste, come il lapsus: “non volevo dire questo”. Come dire che c’è una responsabilità assoluta in ciò che si dice. Ciascuna analisi pone le condizioni perché ciascuna possa attenersi a cogliere questa responsabilità, cioè, non sottrarsi alla propria parola.

Ciascuno, per dirla così, si sottrae alle proprie parole, continuamente. In quale modo? Attribuendo a quello che dice un significato, una giustificazione: “Ho fatto questo per quel motivo”. A questo punto il discorso è chiuso, non c’è altro da aggiungere. Invece no, l’analisi dice che occorre aggiungere moltissimo e che proprio aggiungendo si viene sempre a sapere qualcosa di sé.

La parola è anarchica, dicevo, in quanto che non ha origine, cioè, non ha un luogo a cui debba essere ricondotta. “Ho detto questo per questo motivo”. No, ho detto questo, dove questo cosa comporta, quali pensieri, quali immagini, quali altri significanti? Certamente, può formularsi anche come “questo viene da lì” ma è solo un pretesto per andare oltre, per non fermarsi lì.

L’ideologia medica o psicologistica, che è poi lo stesso, dice che “viene da lì”, quindi, una volta che è arrivata lì, basta! ... La causa: non c’è altro da aggiungere, non si tratta che di trovare il rimedio.

Con Freud la questione si sposta, non viene né da lì né da un altro luogo, ma, dice Freud, da un’altra scena. Dov’è? Non è da qualche parte. È una scena che si è prodotta mentre parlavo. Quindi, impossibile a localizzarsi.

Togliendo la causa, come causa prima delle cose, non c’è più l’opportunità di ricondurre ciascuna cosa lì con un certo ... sollievo. Come dire che ancora una volta ho tenuto a bada le cose.

La posizione dell’analista è quella del punto vuoto, del sembiante, cioè, di ciò che provoca continuamente, che non è mai soddisfatto della risposta. Non c’è mai la risposta che sia soddisfacente, che chiuda il discorso per cui sia possibile farsene una ragione, di alcunché. Chiaramente, questo discorso, se portato altrove, a ciò che si struttura man a mano come credenza, come religione, dissolve la struttura del discorso religioso. Dissolvendola, toglie la necessità di credere, di credere che ci sia un luogo, un posto fisso, fermo, da cui le cose muovano. Togliendo questa credenza toglie ogni possibilità di creare dei sudditi, i quali sono tali soltanto se credono.

Ciascuno stato, come è noto, si dà un grandissimo da fare per attrezzare delle strutture atte a mantenere questa credenza, da cui soltanto trae la propria vita, se no si dissolverebbe. Perché la psicanalisi, così come l’ha avanzata Freud, dice che le parole possono interrogarsi, ma ciascuna parola, quindi, anche nozioni che generalmente non vengono messe in discussione. Ciascuno, nella propria vicenda, ha ogni sorta di pregiudizi, di superstizioni rispetto a cui non vuole sentire ragioni. Allo stesso modo, uno stato ha gli stessi pregiudizi, le stesse superstizioni, cioè, ci sono cose su cui non transige.

Chiaramente, lo stato è costretto a giustificare, a motivare in qualche modo. Ci sono giustificazioni, motivazioni che, se interrogate, immediatamente si dissolvono. Ecco perché non vanno interrogate. Se qualcuno lo fa, come è noto, minaccia il fondamento stesso della credenza, si minaccia, cioè, l’esistenza stessa dello stato. Che è molto attento su queste cose. Sembra sia distratto ma è molto attento, non gli sfugge nulla, in quanto organizza, struttura la cultura in modo tale che tutto ciò che descrivevo sia impedito, eluso, impossibile che si verifichi.

In effetti, l’istruzione nell’amministrazione pubblica, quella che comincia con l’asilo, non ha tanto la funzione di dare informazioni. È un dettaglio, è del tutto marginale ma insegna più propriamente come si deve pensare. E cioè che le cose vanno in un dato modo: questo deve insegnare. Chi non insegna questo si pone fuori dalla struttura.

Ciascuna religione è tollerata purché ce ne sia una. Che poi abbia altre connotazioni, altre forme, che non si chiami propriamente neanche religione, ma che abbia questa struttura: questo è un altro fiore all’occhiello di ciascuna democrazia.

Ciascuna religione è tollerata, purché ce ne sia una. Perché, se non c’è, è un problema...