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6 marzo 1993

 

Comunicazione della psicanalisi

 

Oltre a essere propriamente l’inventore della psicanalisi, in quanto non esisteva prima di lui, Freud ha posto delle questioni che sono essenziali a tutt’oggi. Corre voce che sia stato l’unico psicanalista che non abbia fatto l’analisi. Quindi è tutto sommato lo psicanalista meno attendibile. In effetti non ha compiuto questo itinerario: non c’erano psicanalisti disponibili prima di lui. Anche volendolo non ne avrebbe avuto il modo.

È una questione curiosa. In effetti se si pensa al più grande psicanalista, al più noto, viene subito alla mente il nome di Freud il quale, tuttavia, non ha fatto un’analisi. Come sapete l’avere fatta un’analisi è ritenuta da ciascuno la condizione per potere praticare come psicanalista. Per cui stando a questa condizione Freud non sarebbe uno psicanalista.

Spesso si racconta che abbia fatto l’autoanalisi con un certo Fliess. C’è un carteggio tra Freud e Fliess dove alcuni ravvisano una sorta di autoanalisi. Si può però fare qualche obiezione a questa supposizione e cioè che sia possibile l’autoanalisi. Freud ha utilizzato, per così dire, Fliess per compiere alcune riflessioni, ma da parte di Fliess non c’era alcun intervento analitico. Il modo in cui interveniva era assolutamente marginale e secondario rispetto a ciò che Freud elaborava, come dire che Freud rifletteva su alcune questioni malgrado Fliess. Certamente non c’è stato alcun contributo da parte di Fliess. Tuttavia Freud si è avvalso di questa interlocuzione. Una persona o anche un libro può essere l’occasione per incominciare a riflettere. E così come Fliess non si poneva come analista nei confronti di Freud allo stesso un libro non si pone come psicanalista nei confronti di chi lo sta leggendo. Perché? Perché non interviene analiticamente. Fliess non solo non interveniva ma non avrebbe avuto gli strumenti per farlo.

Differente il riflettere su alcune questioni in una psicanalisi. Lei può riflettere ma riflette tra sé e sé. Ciò che intende capire o desidera capire lei lo mette in atto utilizzando necessariamente quegli stessi strumenti, quegli stessi aspetti, quegli stessi elementi che le impediscono di intendere, cioè i suoi pensieri, i suoi discorsi.

Dopo Freud i suoi collaboratori più stretti, come Jones, Ferenczi, Abraham, Eitington, Sachs, Rank naturalmente facevano delle conversazioni con Freud e non necessariamente sul lettino dello psicanalista. Per esempio Ferenczi faceva delle conversazioni con Freud durante delle passeggiate a cavallo. Però già Freud interveniva in un certo modo rispetto a queste persone, non è che non intervenisse. C’era infatti la parola di Freud, c’erano le questioni che lui poneva man a mano a ciascuna di queste persone che parlavano con lui. In effetti era questo ciò che faceva Freud: poneva delle questioni. Laddove il discorso incontrava un ostacolo o una piega differente, proprio lì Freud insisteva perché la persona si interrogasse, perché riflettesse ulteriormente. È in questo modo che ha inventato la psicanalisi. In prima istanza con Berta Pappenheim.

Berta Pappenheim era una ragazza che incominciò a parlare con Breuer, un collaboratore di Freud. Breuer e Freud iniziarono insieme. La relazione dei primi studi sull’isteria venne fatta a quattro mani, diciamo così, anche se in effetti le mani erano soprattutto quelle di Freud. Questa ragazza che è nota come Anna O. parlava con Breuer perché accusava alcuni disturbi. In seguito queste conversazioni si interruppero nel momento in cui Anna O. si innamora di Breuer. In quel caso intervenne la moglie di Breuer, se lo prese e lo portò a fare una crociera per distoglierlo da questa ragazza che era giovane, attraente e intelligente, il che costituiva una minaccia tutt’altro che secondaria per l’armonia coniugale. Breuer si ritrasse spaventato. Allora intervenne Freud e fu a quel punto che inventò la psicanalisi. Freud, contrariamente a Breuer, non si tirò indietro ma affrontò la questione. Da qui incominciò a accorgersi che ciò che Anna O. accusava come sintomo era connesso a delle vicende che la riguardavano e che non aveva nulla a che fare con disturbi fisiologici, biologici, ecc. ma con delle vicende avvenute e sulle quali Anna O. si era come fissata, affascinata. Era rimasta aggrappata a questa scena e la ripeteva continuamente.

Già da subito Freud trova le occasioni per elaborare delle questioni che riguardano sia l’isteria sia la struttura in cui avviene una psicanalisi, sia la nozione di ripetizione, di rimozione, di transfert e di inconscio, i quattro concetti che poi Lacan chiamerà fondamentali.

Di che cosa parlava Anna O. a Freud? Parlava della sua storia, una storia apparentemente senza né capo né coda. Anna O. parlava e Freud ascoltava. Grosso modo si svolgeva così la vicenda, come tra l’altro si svolge ciascuna psicanalisi: c’è un analizzante che parla e uno psicanalista che ascolta. Non è che ascolta soltanto, cioè non sta solo a sentire. Questo ascolto è fatto di qualcosa di più perché c’è anche un intervento. È curioso che non si sappia quasi nulla del modo in cui interveniva Freud durante le psicanalisi. C’è qualche traccia qua e là, qualche testimonianza molto esigua oltre che molto discreta, sia sul modo in cui Freud interveniva lungo le sedute sia per quanto riguarda la durata delle sedute. Freud, in effetti non ha indicato nessun criterio da seguire, non ha mai detto “Fate così”. Non c’è traccia di questo in tutti i suoi scritti, da quello sulla cocaina agli aforismi londinesi non c’è traccia di un suggerimento tecnico. Forse non è del tutto casuale. Suona strano che Freud, così attento, così preciso, così rigoroso, si sia dimenticato di spiegare come si fa. Se non vogliamo pensare a una sbadataggine, a una dimenticanza di Freud, forse c’è un motivo per cui non ha mai spiegato come si fa.

Mi riferisco a Freud e non a altri che lo hanno seguito. Molti fra questi si sono affannati invece per cercare di trarre dal messaggio di Freud una tecnica che lui non ha mai scritto. Ecco allora gli scritti sulla tecnica psicanalitica, una letteratura sterminata. Molti si sono affaccendati a dire ciò che Freud ha lasciato in sospeso, cioè a dire, a spiegare come si fa. Si può citare Fenichel, Menninger, Bouvet e altri, i quali invece hanno voluto dare la loro versione, cioè ciò che loro immaginavano occorresse fare. Se Freud non ha dato alcuna indicazione rispetto a questo, non è affatto casuale. Potremo dire che propriamente non esiste una tecnica in quanto tale. Non esiste una tecnica che possa redigersi: 1) fare accomodare il signore, 2) chiedergli come sta, ecc., fino alla fine, fino al termino della seduta. Questo non avviene, non è possibile. Ciascuna psicanalisi, potremmo anche dire ciascuna seduta, ciascun incontro è qualcosa che esula da ogni regola. Non che non ci siano delle regole, ma esula da ogni regola prestabilita. Uno psicanalista può anche immaginare di dover arrivare a un qualche punto per cui incomincia a ascoltare sapendo già quello che dovrà fare, quello che dovrà dire e quello che ascolterà. Può anche immaginare questo, ma se parte così parte male, parte con una pregiudiziale, con qualcosa che gli impedirà di ascoltare con quella che Freud chiamava “attenzione fluttuante” anziché concentrazione. Gli impedirà di ascoltare, dunque, ciò che l’analizzante sta per dire perché è prevenuto, è prevenuto da una tecnica o da un modello teorico.

Le cose che Freud indica man a mano hanno la portata di un messaggio intellettuale e culturale dove, se si presta attenzione, l’accento è posto molto più sull’aspetto intellettuale, teorico che non sulla necessità di guarire qualcuno da qualche cosa. Anzi, in alcuni casi sembra che questo aspetto sia del tutto marginale. Freud è letteralmente tratto da alcune considerazioni che si trova a fare, è entusiasta delle cose che si dispiegano davanti a lui e che man a mano intende, tanto che la persona che è davanti a lui è un pretesto. Freud non ha mai avuto di mira la guarigione di qualcuno. L’unica occasione in cui qualcosa del genere è avvenuto è rispetto all’Uomo dei lupi, un tizio che si rivolse a Freud per alcuni disturbi che avvertiva. Era russo e era fuggito dalla Russia dopo la rivoluzione e si trovava a mal partito, anche economicamente. E allora Freud cosa fece? Due cose di cui poi valutò gli effetti. Per prima cosa stabilì una scadenza all’analisi. Dato che sembrava che questo signore la tirasse per le lunghe, Freud disse che se non se ne veniva fuori da una certa situazione entro il tal giorno comunque avrebbe interrotto l’analisi. La seconda era questa: il tizio in questione era particolarmente squattrinato e allora Freud si rivolse ai suoi collaboratori dicendo che poiché il caso risulta molto interessante si poteva fare una colletta che gli avrebbe consentito non soltanto di proseguire l’analisi ma anche di mangiare una minestra la sera”.

Due gesti di Freud che ebbero degli effetti e sui si trovò molti anni dopo a riflettere. Effetti di grande interesse teorico che hanno consentito di elaborare delle questioni di grande portata. Ma di nessun rilievo per quanto riguarda l’analisi dell’Uomo dei lupi. È noto che i casi di cui parla Freud sono i casi in cui lui non è riuscito. Sono i casi cosiddetti falliti: il caso di Anna O. è fallito, quello dell’Uomo dei lupi non è riuscito, così anche quello dell’Uomo dei topi, ecc. Sono però i casi dove Freud si è cimentato con qualche cosa che non aveva previsto, che lo ha interrogato e su cui ha scritto delle pagine su cui si è costruita la psicanalisi.

Cosa è avvenuto nel caso dell’Uomo dei lupi? Dopo aver stabilito la scadenza, l’Uomo dei lupi incominciò a produrre una grande quantità di materiale, di ricordi, di cose anche apparentemente “importanti” per l’analisi. Il tutto per il timore che l’analisi si interrompesse.

Quali sono state le riflessioni di Freud, visto e considerato che tutto ciò non approdò a nulla? Freud si accorse che ciò che importa non è per nulla il fatto che l’analizzante “vuoti il sacco”, che racconti tutto quello che ha da dire. Anzi, tutto questo non ha alcun effetto, assolutamente nessuno. Ciò che ha effetto, ciò che ha un rilievo in un’analisi è che un elemento di questo racconto costituisca l’occasione per riflettere intorno a ciò che si sta dicendo o a ciò che si sta facendo. Quale l’elemento? È questa la questione perché non si tratta di un elemento a caso. Una persona incomincia a parlare, a dire delle cose, qualunque cosa, dal dramma esistenziale più massacrante al tizio che gli ha fatto mentre stava acquistando le sigarette dal tabaccaio. Da dove vengono queste cose che sta dicendo? Da dove vengono queste cose con cui esordisce il discorso? Freud dice che vengono da un’altra scena, una scena altra, una scena in cui l’analizzante si trova nel momento in cui incomincia a parlare. Le sue parole producono una scena. È un po’ come andare a teatro o al cinema. L’analizzante parla e parlando è preso in una scena che lo riguarda ed è da questa scena che si producono i significanti, i termini che intervengono nel prosieguo. Come dire che le parole con cui esordisce non sono casuali perché aprono a una scena. Cosa avverrà in seguito? L’apertura di questa scena comporta l’apertura di una questione, di un’interrogazione. Ciò che si dice è qualcosa che interroga, a qualunque titolo, a qualunque modo. Ciò che segue sarà, per così dire, la ricerca di qualcosa che risponda a questa interrogazione che si è aperta con le prime parole.

È noto quanto siano importanti le prime parole. È noto, per esempio, a chi scrive. Come incominciare? perché spesso dalle prime battute chi scrive si gioca intanto che chi legge prosegua o butti via il libro. Oppure che, lungo una conferenza, il pubblico continui a ascoltare o incominci a pensare ai fatti suoi, tant’è che nella retorica quella parte del discorso che è nota come esordio è importantissima. Barthes insiste molto su questo aspetto: chi osa rompere il silenzio non fa cosa da poco. Il silenzio è sacro, per romperlo occorre un motivo tutt’altro che banale.

Ecco che allora il discorso cerca di giustificare la rottura di questo silenzio, cerca di giustificare le parole con cui la seduta si è avviata, per spiegare perché ha detto quello. Potremmo anche dire che cerca di dare un significato a tutto ciò. Chiaramente, l’analista interviene lungo la seduta, non è che taccia. Interviene ponendo delle questioni qua e là, questioni che consentono a ciò che si sta dicendo di potere proseguire, senza arroccarsi su una posizione da cui poi sarebbe difficile muoversi, fino a un punto in cui qualcosa in ciò che si dice rende l’esordio ingiustificato. A questo punto la seduta si interrompe, come dire che, per quanto ci sia il tentativo di richiudere il discorso su se stesso, qualcosa interviene e lo lascia in sospeso, apre uno squarcio, apre un abisso. Lì la seduta si interrompe. Se non ci fosse la sospensione della seduta, il discorso man a mano si richiuderebbe e richiudendosi perderebbe l’occasione straordinaria, in prima istanza, di accorgersi che qualcosa comunque continua a questionare nonostante il tentativo di chiudere il discorso. Per altro verso, perderebbe l’occasione di riflettere su tutto ciò che questa apertura comporta, cioè altre immagini, altri pensieri, altre associazioni, altri significanti, altre combinazioni.

[Risposta a una domanda. Dell’abisso l’analista avverte che interviene, l’analizzante occorre che avverta qual è la portata, cioè che cosa dice, che cosa c’è in questo abisso. L’abisso è l’inconscio.]

Ora, tutto ciò, detto così, sembra molto facile. Tuttavia, non è sempre così, anzi, non lo è quasi mai. Per trovarsi nella condizione di potere intervenire come psicanalista rispetto a un discorso occorre un’analisi, cioè questo itinerario intellettuale dove si giunge al transfert, altra condizione che Freud introduce. Il termine transfert è stato tradotto nell’edizione di Boringhieri con traslazione. In modo molto rozzo, così come altre cose: una traduzione è spesso ideologica.

Il transfert non è il trasporto, qualche cosa che va da una parte a un’altra. È lontanissimo da ciò che alcuni, dopo Freud, hanno immaginato, cioè come una sorta di trasporto dell’analizzante nei confronti dell’analista prendendo l’affetto e riponendolo nell’analista, analista in quanto tale oppure come papà, come nonno, come zio, ecc. secondo le varie vicende familiari. Il transfert di cui parla Freud non ha nulla a che fare con tutto ciò. Quella di cui psicanalista, analista in quanto tale oppure come papà, come nonno, come zio, ecc. secondo le varie vicende familiari. Freud avverte la vanità, la portata fantasmatica e problematica di ogni furor sanandi che può animare le anime belle che vogliono togliere i mali del mondo. Freud non si è mai occupato dei mali del mondo. Era altro ciò di cui si occupava e cioè “di ciò che avviene quando si parla”.

Se qualcuno ha l’occasione di accorgersi di ciò che sta dicendo mentre parla, di quali sono le implicazioni, i suoi risvolti, le connessioni, le pieghe della sua parola, c’è l’eventualità che cessi di mettere in atto alcuni cerimoniali, che cessi di trovarsi aggrappato a alcune superstizioni. Per altro verso ancora, che cessi di immaginare che il proprio personale pregiudizio corrisponda alla realtà dell’universo.

Per giungere a questo Freud ha dovuto elaborare moltissime questioni.

In prima istanza, la nozione di percezione. Che cosa si percepisce? A quali condizioni si percepisce? Cosa ci consente di dire che qualche cosa si è percepito?

La Metapsicologia è il testo più preciso per quanto riguarda l’elaborazione teorica di Freud. Qui, Freud pone l’accento sulla rappresentazione verbale. Distingue fra la rappresentazione di cosa e la rappresentazione di parola, cioè tra il fantasma e il significante, ciò che de Saussure andava elaborando qualche anno prima a Ginevra come significante. Una teoria del linguaggio molto precisa Freud la descrive nella Interpretazione delle afasie che riprende in alcuni tratti, in modo quasi identico, gli scritti di de Saussure.

In questo saggio Freud pone l’accento in modo molto preciso sulla questione del linguaggio. E la prosegue. In effetti, nella trilogia costituita dall’Interpretazione dei sogni, la Psicopatologia della vita quotidiana e il Motto di spirito Freud non fa altro che parlare di parole, di come si combinano, di come si piegano, di come si connettono e di come si intersecano, ecc. Parla di questo, nient’altro che di questo.

Da qui la questione della parola. Parola non come verbalizzazione o come espressione del pensiero così come comunemente viene inteso. Anzi, Freud prende una distanza da questo dicendo che non c’è nessuna possibilità di manifestare il pensiero. Ciò che si dice è sempre altro da ciò che si pensa. Sempre e irrimediabilmente. Occorre distinguere la parola dalle parole, il significante, il lessema, ecc.

Non è facilissimo definire la parola. Parola come atto, innanzitutto, come atto linguistico. Searle si avvicina sulla questione anche se poi scivola sulla questione della facoltà, della possibilità.

La parola è qualcosa di compiuto in sé. Vittorio Mathieu, un filosofo che insegna filosofia morale qui a Torino, ha scritto un bel libro che si chiama La voce, la musica e il demoniaco. In questo libro racconta che si è trovato un giorno a dover spiegare la nozione di logos. E allora cosa fece? Prende un disco e a un certo punto c’è una frase musicale compiuta. A questo punto ferma il tutto e dice: “Ecco, questo è il logos!” Accosta il logos alla frase musicale che è compiuta in sé, che non attende di essere compiuta da qualche cosa d’altro.

Certamente, la nozione di logos, così come è stata utilizzata dalla filosofia, non ha alcun interesse, logos come discorso, come parola di cui c’è facoltà. Più interessante è quel frammento di Eraclito dove accosta il logos all’essere. Eraclito dice, tutto sommato, che l’essere è la parola. Ciò che spesso i filosofi cercano, “dov’è l’essere”, distrattamente non si accorgono che, in un certo senso, ce l’hanno in bocca in quel momento, proprio lì in ciò che stanno dicendo. L’essere è un termine che ha avuto una mala sorte in filosofia. L’essere è ciò che ha costituito il fondamento dell’ontologia e, quindi, la possibilità della metafisica. Non ci interessa l’essere in quanto tale se non tenendo conto che in prima istanza è un significante, qualcosa che si dice. Cosa che non è del tutto marginale.

La parola dunque agisce mentre parlo e ha in sè qualcosa di compiuto.

Il pensiero opera, è un operatore. Opera in ciò che si dice, costituisce la connessione di ciò che si dice. Un connettivo. Anche la logica utilizza questo termine “connettivo”, ciò che connette due elementi. Poniamo A e B, poi metto un connettivo, per esempio un’implicazione, da cui “se A allora B”. In questo caso, la proposizione acquista un senso ben preciso perché senza questo connettivo non avrebbe detto nulla.

Del pensiero ne so qualcosa nel momento in cui lo dico. Ma cosa dico propriamente? Dico il pensiero? È una questione che si può porre. Come faccio a saperlo se non lo so fino a quando non lo dico?

De Saussure indica il pensiero come una sorta di nebulosa. Dice che c’è il pensiero ma questo non dice ancora nulla. Io posso supporre di dire quello che penso, ma è ciò che penso propriamente? Come faccio a saperlo?

Una nebulosa, dunque, di cui sino a che non parlo non so nulla. Posso parlare anche tra me e me, non è necessario che parli con qualcuno, perché che parli tra me e me non toglie nulla al fatto che sto parlando. Tutto ciò che mi dico, questa è la questione che pone Freud, è altro da ciò che penso. C’è una trasposizione (Enstellung), dove avviene una trasformazione che è strutturale, non può togliersi. Cosa trasforma le cose? Freud dice che sono le due funzioni di rimozione e di resistenza. Sono queste due funzioni che consentono la trasformazione, cioè qualcosa varia e qualcosa trasforma, una sorta di alterazione: qualcosa cade e si combina altrimenti. Ritorno del rimosso, dice Freud. Della rimozione sappiamo qualcosa dal ritorno del rimosso, non c’è possibilità di saperne nulla altrimenti, cioè da qualcosa che ritorna alterata. Questa trasformazione non consente il ritorno indietro.

C’è una lettera di Freud dove indica in modo molto preciso che non c’è possibilità che l’inconscio si trasformi in conscio. Non c’è questo passaggio, con buona pace di Lacan che lo immagina possibile in alcuni casi. Perché? Sapete cosa direbbe un linguista? Si avvarrebbe dell’algoritmo di de Saussure, capovolto, in cui ci sono un significante, una barra invalicabile e sotto un significato, s/S. De Saussure lo scrive al contrario, come abbiamo detto: mette sopra il significato, per esempio l’albero raffigurato, e sotto il significante, la parola albero, in francese arbre, che Lacan anagramma con barre, barra. Lacan lo capovolge dando così la supremazia al significante sul significato, cioè all’immagine acustica. E, allora direbbe questo: c’è un significante e un significato, ma posso dire un significato? No, perché sono due cose differenti. Il significante è un’immagine acustica, il significato è il concetto. Ciò che dico è il significante, ciò che è al di sopra di questa barra. Per dire il significato debbo dire un altro significante, il quale avrà un altro significato, e così via all’infinito.

Questo, che è uno dei giochi di cui si avvalevano i sofisti moltissimo tempo fa, appena per indicare una difficoltà che si incontra laddove c’è il tentativo di fermare le cose, cioè di dare un significato ultimo alle parole.

Se non c’è possibilità di rendere cosciente l’inconscio, cosa fa la psicanalisi?

Unbewüsste, l’inconscio, è una nozione non felice perché parte comunque da una negazione. Lacan faceva un divertissement fra Unbewüsste e une bevue, una svista, l’inconscio come svista. Quindi, anche Lacan era lontanissimo dall’indicare l’inconscio come ciò che non è cosciente. Sono due cose differenti tant’è che in Freud ciò di cui si tratta, ciò che lo interroga, è questo: come qualcosa a un certo punto si dice.

Quando nell’Io e l’Es fa il disegno la questione che si pone è come qualcosa di cui avverte la portata giunga a dirsi, ciò che lui chiama il preconscio. Il preconscio è ciò che interviene tenendo conto dell’Es e, allo stesso tempo, dice all’io ciò che deve fare.

Come avviene che qualche cosa che si pone come principio di costanza, la domanda pulsionale, giunga a dirsi e per quale via? Attraverso quale la logica? Giunge a dirsi, dice Freud, attraverso il preconscio, che non è altro che ciò che de Saussure indica come significante. Come dire, che soltanto da ciò che si dice possiamo sapere qualcosa, vale a dire da ciò che man a mano interviene. Ecco qui l’importanza di ciò che si dice in analisi, perché in effetti non abbiamo altri strumenti per sapere qual è la logica che sta avvenendo, in quel momento, parlando.

C’è un’altra questione che è sfuggita a molti ma che è essenziale e che Freud affronta nella Metapsicologia ed è questa: l’inconscio non precede affatto ciò che si dice, non preesiste. Non è già lì, per cui si tratta di tirar fuori a un certo punto come se fosse una sorta di container, dove ci sono tutta una serie di cose che bisogna man a mano tirare fuori, lavarle e restituirle all’interessato mondate dal male, secondo un modello esorcistico.

Dire, come fa Freud, che l’inconscio non preesiste ciò che si dice è qualcosa di straordinario che, per altro verso, anche i linguisti hanno colto anche se in altri termini e che sbarazza di tutto lo psicologismo di cui si avvale anche oggi buona parte della psicanalisi. Questa psicanalisi immagina che l’operazione da compiere sia quella di tirare fuori dall’inconscio qualcosa che sia mal comunicato, mal inteso, metterlo in luce, cioè rischiararlo, secondo l’immagine dell’illuminismo, fare luce, quindi tradurlo nella versione corretta, che è poi quella che meglio si adatta al pregiudizio più diffuso. Non si tratta altro, poi, che di questo, come avviene per esempio nel comportamentismo americano. Qual è il messaggio buono? Quello che si adatta meglio all’american way of life. Questo è l’ideale. Non è un caso che in America la psicanalisi non sia mai arrivata. Quando Freud andando in America diceva “loro non sanno ma io sto portando loro la peste”, ebbene; era lui che non sapeva, che non ci sarebbe mai riuscito. In America, infatti, sono vaccinati contro tutto, non c’è cosa che possa distoglierli. Sono molto puritani, quindi molto perversi. Dove c’è puritanesimo c’è perversione, anzi, potremo dire che non c’è perversione senza puritanesimo.

L’importanza del messaggio di Freud è questa: l’intendere che l’inconscio esiste parlando apre a una quantità sterminata di questioni, di ben altra portata rispetto all’idea, tra l’altro antichissima, che si sia qualcosa che non va, da purificare e da restituire. I miti gnostici non parlano poi che di questo: c’è la caduta nel peccato, che sarebbe la rimozione secondo la vulgata psicanalitica, quindi c’è la permanenza negli inferi, nel mondo, vale a dire la nevrosi e poi qualcuno, una guida che consente il sapere, lo psicanalista, che consente la risalita fino all’illuminazione, quindi alla guarigione. È un processo religioso. La guarigione sarebbe l’illuminazione, ogni cosa sarebbe rischiarata e ogni cosa significata. Tutto è chiaro, non c’è più nulla che lasci a desiderare, nulla che interroghi più. Questo è l’ideale della psicosi, della psicotizzazione: tutto chiaro, tutto significato, fino alla catatonia dove tutto è immobile perché non c’è più nulla che muove.

Tutto questo processo di caduta e di redenzione non ha mai interessato Freud, pur avendo una tradizione ebraica che ha avuto comunque un’incidenza nella sua elaborazione soprattutto rispetto alla questione del padre. Tuttavia, non si è trovato preso nel discorso religioso, anzi, ne ha elaborato man a mano i termini, le fantasmatiche, soprattutto grazie a Jung che gli ha fornito una quantità di materiale clinico straordinaria.