Torino, 5 maggio 2009
Libreria Legolibri
PSICANALISI CLINICA
Daniela Filippini
IL COMPLESSO DI COLPA
FREUD
Forte delle esperienze condotte con i suoi pazienti, Freud credette di identificare l'origine delle nevrosi in un trauma di natura sessuale, vissuto in età infantile ( PSICOTERAPIA, I). Elaborò quindi il seguente schema interpretativo: l'uomo possiede fin da bambino un impulso di natura bio-psichica che lo spinge alla ricerca del piacere che si può ottenere con le varie funzioni corporali; tale impulso (indicato con il termine libido ) entra in conflitto traumatico con proibizioni e sanzioni della cultura e dei genitori; non potendo sopportare di essere respinto da quelle persone che rappresentano per lui la sorgente di soddisfazione e di sicurezza, il bambino reprime la sessualità nell'inconscio; tale rimozione diviene la principale sorgente di sintomi nevrotici.
Se la nevrosi deriva dal fatto che un conflitto sessuale è stato vissuto come insopportabile ed è stato perciò rimosso, la terapia consisterà in una rielaborazione del conflitto traumatico, in modo da renderlo sopportabile e, in qualche modo, non più percepito come una grave minaccia all'integrità della persona. Per raggiungere tale elaborazione occorre che il conflitto traumatizzante sia riportato alla coscienza. E ciò avviene attraverso una metodologia di intervento che prevede due momenti: uno preliminare, nel quale viene riportato alla coscienza tutto il nucleo patogeno, conflittuale, vissuto prevalentemente nell'infanzia; ed uno risolutivo, che consente la rielaborazione e il superamento del trauma. Freud comunque si concentrò sulla prima fase, nella speranza che i conflitti, una volta divenuti coscienti, si risolvessero automaticamente.
Il complesso di colpa, o senso di colpa, è un concetto che nella cultura occidentale è ben presente e fa parte del bagaglio dei luoghi comuni.
Il senso di colpa può essere definito come una sensazione di disagio che consegue all’aver messo in atto azioni o comportamenti contrari al proprio codice morale.
Un codice morale parte dall’idea di ciò che è bene e ciò che è male e solitamente ogni religione o forma di spiritualità ha un suo codice di comportamento morale, nel quale vengono identificati appunto il bene e il male e fornite le indicazioni di un comportamento modello da seguire per attenersi a quei principi.
Nella religione cattolica il senso di colpa è uno dei cardini di tutto l’impianto teologico e forse ne è addirittura il fulcro, in quanto la colpa viene individuata come elemento originale dell’umanità.
L’uomo nasce già viziato dal peccato originale, quello conseguente al rifiuto di Adamo di obbedire al comandamento di Dio, dalla sua ribellione alla legge divina.
L’umanità peccatrice – radicalmente e strutturalmente peccatrice - è il motivo primo della venuta del Messia sulla Terra, per salvare la creatura dalla presunzione di possedere da sé la conoscenza del bene e del male.
Nella Bibbia questo viene rappresentato con la disobbedienza di Adamo ed Eva che colgono i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male e con il loro allontanamento definitivo dal Paradiso Terrestre, insieme alla condanna ad una vita di sofferenze e difficoltà, culminante con la morte.
Il rifiuto dell’uomo di riconoscere la verità divina del bene e del male – e di tenere un comportamento adeguato – prevede come conseguenza la caducità della vita terrena, durante la quale la punizione morale è il rimorso di avere disobbedito.
La Chiesa Cattolica non solo ha inventato il fondamento del senso di colpa (il peccato originale) e gli ha conferito la massima autorità, quella divina, ma ne ha anche previsto l’unico rimedio per recuperare la salvezza: il battesimo, attraverso il quale l’individuo, rinnovato e purificato nella sua essenza, recupera la sua dignità di figlio di dio e viene ammesso a partecipare della comunità dei fedeli.
Dio allontana e punisce l’uomo privandolo delle delizie del paradiso terrestre, come un bambino disobbediente viene messo in castigo, ma è disposto a perdonarlo se dimostra il suo sincero pentimento e l’intenzione di ravvedersi. Dopo il battesimo, infatti è necessario continuare l’azione salvifica dell’umanità, continuamente minacciata dalla propria debolezza e immoralità e dunque la Chiesa ha istituito il dogma della confessione – che è addirittura un’azione sacra, un sacramento – con il quale il peccatore, confessando le proprie colpe ai ministri di dio, ottiene l’assoluzione dei propri peccati e il perdono.
In questa organizzazione della salvezza dell’umanità, vi sono alcuni privilegiati che, pur essendo anch’essi contaminati dal peccato originale, hanno ricevuto – ancora una volta per sacramento - il potere divino di perdonare i peccati, in quanto amministratori terreni della Verità e dei poteri di dio stesso.
La Chiesa ha posto la questione in maniera allegorica, ma talmente efficace da conservarne il potere per oltre 2000 anni. L’introduzione della morte come conseguenza diretta della disobbedienza umana a dio, insieme all’esaltazione della magnanimità di dio che perdona le colpe attraverso il battesimo e la confessione, rappresenta l’apice del ricatto morale, il modello seguito per secoli dalla Chiesa-Stato per garantire l’ordine nei costumi sociali e il proprio potere.
L’umanità è mortale perché disobbediente, ma se si pente e si comporta come è comandato, dio la perdona e, nell’ultimo giorno, quello dell’epifania, riavrà la vita eterna.
Attraverso il controllo morale delle opinioni e dei comportamenti, la Chiesa ha potuto conservare intatto per secoli il proprio potere religioso, politico, sociale ed economico. Un potere talmente grande che è stato necessario spesso difenderlo con l’uso delle armi per estirpare pericolosissimi semi di eresia, dissidenza, ribellione.
Se poi si pensa che la religione cattolica, almeno in Europa occidentale – ma dopo la colonizzazione del XVI secolo anche nei Paesi del centro-sud America – è stata per secoli l’unica religione ufficiale e Autorità riconosciuta, si può considerare come l’influenza della sua dottrina abbia determinato e permeato il pensiero occidentale nella sua struttura di base.
Il pensiero comune, le tradizioni popolari, i racconti, le fiabe, i proverbi, ecc. sono fortemente influenzati dalla necessità di attenersi alle regole morali condivise dalla maggioranza – che è per l’appunto di formazione cattolica - allo scopo di sentirsi accettati, normali e dalla parte dei giusti.
Il disagio che l’individuo avverte nel considerare di aver compiuto un’azione contraria ai principi morali, cioè il senso di colpa, ha a che fare proprio con la consapevolezza di aver deviato dalla normalità accettata da tutti, di essere un traditore dei valori comuni, uno che non sa come è giusto comportarsi o, peggio ancora, che volontariamente ha deciso di violare le regole.
Il senso di colpa è l’allontanamento volontario dal paradiso terrestre dell’essere accettati come normali e giusti, il castigo autoinflitto per aver osato agire in modo diverso.
Nella mescolanza di emozioni contrastanti, il senso di colpa produce pensieri che oscillano fra il pentimento per aver disobbedito alle regole, la frustrazione per aver disatteso le aspettative altrui e il segreto godimento per aver seguito il proprio desiderio.
Se un individuo è fermamente convinto che sia giusto attenersi ad un certo valore individuato e riconosciuto dalla maggioranza come “bene”, allora una decisione contraria a quel valore, sarà ancora più importante e degna di essere adeguatamente evidenziata di fronte agli altri; quanto più è sacro il valore che è stato disatteso, tanto maggiore saranno gli effetti del senso di colpa e le manifestazioni di fronte agli altri.
Anche rispetto a se stessi, sentirsi continuamente in colpa per qualcosa significa sentirsi responsabili di tutto ciò che accade e quindi straordinariamente importanti; la sensazione spiacevole del senso di colpa, nella quale sembra che l’individuo sia bloccato dall’impossibilità di decidere serenamente qualsiasi cosa perché ogni cosa viene ricondotta ad una propria responsabilità, paradossalmente potrebbe essere causata dal sentirsi inadeguati ad esercitare tutto quel potere.
D’altra parte, il potere bisogna pur saperlo gestire!
Inoltre, appare curioso come il senso di colpa sia spesso accompagnato da un desiderio irrefrenabile di confessare appunto la colpa che si ritiene di aver commesso.
Dichiarare il misfatto sembra dare la possibilità di liberarsi di un peso e sicuramente il senso di colpa si attenua, nonostante questo non influisca minimamente sulle conseguenze dell’azione. Se tradisco mio marito, confessarlo non cancellerà il tradimento e non renderà meno doloroso per lui venirne a conoscenza, anzi questo comporterà un cambiamento notevole ed irreversibile nel rapporto di fiducia, minandolo per sempre.
Eppure chi conosce i patimenti del senso di colpa, sa quanto sia tormentato il vagare dei pensieri e sottolineo vagare, tra la pena, il pentimento e il desiderio di riscattarsi, lavando via tutto: la tentazione alla quale non si è saputo resistere, l’azione colpevole che si è commessa e le sue conseguenze, compreso quel senso di profondo disagio dal quale non si riesce a liberarsi.
Tuttavia occorre ricordare che colpa e senso di colpa non sono legate tra loro da una diretta consequenzialità; commettere un atto colposo, come ad esempio un reato, non produce necessariamente il senso di colpa, né il pentimento. Allo stesso modo, è possibile vivere una vita intera continuamente tormentati da sensi di colpa, senza aver mai commesso alcuna colpa.
Ciò che distingue il senso di colpa e lo produce è l’esistenza di valori morali, con i quali l’individuo si rapporta continuamente cercando conferma di essere dalla parte della verità.
Nella violazione di un codice morale, di un valore, di una credenza fortemente radicata, il motore è il desiderio di qualcosa che non va nella stessa direzione imposta dalla credenza. Si tratta di un dilemma nel quale occorre decidere se attenersi a ciò che si crede assolutamente vero e importante, oppure seguire il proprio desiderio. Quando il desiderio appare in contrasto con la credenza, si avverte una sorta di stallo, non si è in grado di decidere in quale direzione sia giusto procedere: entrambe le direzioni risultano contemporaneamente necessarie ma opposte e pertanto le vie sono entrambe sbarrate.
Ma da dove viene questo desiderio? Se definiamo il desiderio come il senso, la direzione nella quale ci si muove, il desiderio dipende dai pensieri che per ciascuno sono importanti, veri.
Perché se si pensa che qualcosa sia vero, ci si muoverà di conseguenza.
Anzi, se si pensa qualcosa, questo automaticamente diventa vero.
Dunque sono i pensieri ciò che determina le azioni di un individuo e tanto più a questi pensieri si è attribuito un valore di verità, quanto più questi rappresentano la premessa in base alla quale una persona sa ciò che è bene e ciò che male, come è giusto comportarsi, come giudica, come decide, come si relaziona con gli altri.
Accade tuttavia in certi casi che questi valori entrino in conflitto tra loro e il pensiero non possa più decidere quale sia la direzione giusta nella quale procedere.
Se una persona pensa che il matrimonio sia un vincolo sacro e inviolabile e anche che l’amore sia un sentimento nobile, travolgente e inarrestabile, come potrà agire nel momento in cui dovesse innamorarsi di un’altra persona? Lascerà l’amore che viene, per salvare la sacralità del matrimonio? Oppure violerà il sacramento, per lasciarsi travolgere dal nuovo amore?
Lasciando da parte le questioni morali, è evidente che in entrambi i casi la persona si troverà in forte difficoltà a prendere una decisione, vivendo il conflitto tra le opposte situazioni, con sensi di colpa nell’uno e nell’altro caso.
Per fare un altro esempio piuttosto comune, possiamo pensare al grande valore universalmente riconosciuto all’amore materno, ritenuto l’amore nella forma più alta a causa dell’abnegazione e il sacrificio per le proprie creature. Cosa si troverà a pensare allora una madre che sente il peso di questo sacrificio quotidiano, in cui i figli non lasciano tregua e spesso deludono? La nostalgia per la propria libertà di movimento, per la possibilità di cambiare vita, potrebbero sfociare nella preoccupazione che accada qualcosa di brutto ai figli, nel pensiero continuo che si facciano male, che un incidente o una malattia possano portarli via…il che significa che, in assenza di ragioni valide per temere simili eventualità, quella madre sta desiderando che qualcosa – indipendente e lontano dalla propria volontà – elimini i figli dalla propria vita.
Eliminati i figli, verrebbero automaticamente eliminate le fatiche, gli stress, il sacrificio e recuperata la libertà.
L’amore sarebbe comunque salvo, perché non è la madre che materialmente uccide i figli; è il malanno, l’incidente, la disgrazia.
Proprio per la sacralità dell’amore materno, una madre non può in nessun modo accettare di desiderare consapevolmente di uccidere i suoi figli.
L’amore per i figli entra in conflitto con l’amore per se stessi, ma a quale di questi si darà retta?
Si seguiranno ora l’uno e ora l’altro, in un perenne senso di colpa e di frustrazione.
Vorrei sottolineare come, in entrambi gli esempi, il desiderio della persona appare essere qualcosa che travolge, quasi un evento esterno alla persona stessa che si trova nell’impossibilità di sapere cosa vuole realmente, perché sembra volere entrambe le opportunità. Il desiderio viene subìto come situazione della quale non si è minimamente responsabili e che ci si trova ad affrontare proprio malgrado.
Sapendo ora che il desiderio procede da ciò che una persona crede vero, è ancora possibile pensare che le cose capitino per destino o contro la propria volontà?
Perché una persona desidera certe cose e non altre? Perché una persona pensa le cose che pensa, e non altre?
Da queste prime domande, potrebbe avviarsi una vera rivoluzione personale, un’avventura nella quale i tesori da scoprire sono le proprie idee più profonde, quelle che per tutta la vita sono state il riferimento per valutare, scegliere, agire, pensare, innamorarsi, soffrire, ridere.
Tutto ciò che rende tale una persona, è fondato su ciò che questa pensa; anzi, tutto ciò che una persona è, sono i suoi pensieri.
Il pensiero è ciò che distingue l’umano da tutti gli esseri viventi; la possibilità di costruire pensieri, il parlare sono la sua caratteristica distintiva.
Riconoscere questo e cercare di capire come funziona il pensiero, significa iniziare a dare una dignità più autentica all’umano; significa riconoscere la sua intelligenza e dargli l’opportunità di praticarla.
Non è lo studio fine a se stesso, non è eseguire correttamente complicate formule matematiche e neppure aderire a teorie filosofiche.
È l’individuo che cerca se stesso, nell’unico luogo in cui può trovarlo: in ciò che pensa e dice, in ciò che crede e spera.
La psicanalisi è il nome di questa avventura dell’individuo che vuole conoscere se stesso, praticando l’intelligenza e non accontentandosi di verità a buon mercato.
Nel luogo comune si è abituati a pensare alla psicanalisi come a una terapia per chi ha problemi esistenziali, come cura per le nevrosi o come passatempo per gente annoiata dalle comodità.
La psicanalisi è un’esperienza alla portata di tutti, perché tutti parliamo e pensiamo; sapere come questo parlare funziona e perché, potrebbe essere molto interessante, oltre che determinante per il proprio futuro.
Il lungo discorso della psicanalisi racconta la storia della persona, i fatti e i nomi che l’hanno attraversata, e le speranze, le delusioni, le paure, i traumi, le gioie. La persona parla, fino ad accorgersi che non sono i fatti che sta raccontando, ma sono i suoi ricordi di oggi mentre ripensa al passato; esprime sensazioni e descrive situazioni di ieri, usando i pensieri di oggi perché quelli di ieri sono andati, sono stati superati da nuove idee, nuove convinzioni che si sono agganciate a quelle di ieri.
Il pensiero è inarrestabile, 24 ore su 24 continua a produrre pensieri; e immagini; e sogni.
Tutto è pensiero e raccontare il passato, soffermandosi e interrogando ciò che si sta dicendo, fa sì che anche i fatti comincino ad avere una luce nuova.
Nel percorso psicanalitico ci si accorge che i fatti non sono più raccontati come eventi immutabili ed estranei, ma sono diretta conseguenza delle convinzioni che la persona praticava a quel tempo, ciò che allora credeva giusto e sbagliato, le sue verità.
Ad un certo punto la persona si accorge di ciò che sta facendo, cioè che sta “parlando” ed è in questo parlare che la sua vita prende forma, esiste; si accorge che in fondo, non ha mai fatto nient’altro che “parlare”, dando forma a ciò che era intorno.
Perché si parla? Qualcuno potrebbe dire: “per esprimere concetti ed emozioni”. Bene, ma di cosa sono fatti i concetti e le emozioni? I concetti sono pensieri, idee che si sono elaborate.
Le emozioni sono variazioni psico-fisiche (agitazione, palpitazioni, sudori, brividi, ecc.) alle quali però deve essere attribuito e condiviso un certo significato: l’avvampare del viso, sarebbe solo una disfunzione della circolazione sanguigna se non gli fosse associata un’idea da mettere in evidenza.
In questo caso, l’idea è quella di dover nascondere qualcosa perché la si considera sconveniente, ma ciò che si pensa realmente di fatto viene espresso da un segnale visibile del corpo, per esempio con il rossore del viso.
Dunque dicevamo che si parla per esprimere idee, indipendentemente dal contenuto. Ciò che interessa, è capire il motivo per cui gli umani parlano e cosa fanno quando parlano.
Potremmo dire che gli umani parlano per tre ragioni principali:
- per affermare qualcosa
- per trovare conferma di questo qualcosa che affermano
- per continuare a parlare
“Affermare” significa letteralmente “fermare” il concetto che si esprime: “le cose stanno così”, “si fa’ così”; è una sorta di “dichiarazione” continua di ciò che si pensa.
“cercare conferma” significa che c’è bisogno di una validazione, di un benestare a ciò che si sta dicendo; cioè, si cerca un’auctoritas per trovare conferma che ciò che penso e dico sia corretto oggettivamente.
“continuare a parlare” significa non poter arrestare il corso del proprio pensiero che, ininterrottamente, passa da un concetto ad un altro, da una considerazione ad un’altra.
Poeticamente si potrebbe dire: “è necessario parlare per fermare la verità che fugge continuamente”…
Quando si parla – e quindi quando si pensa – si cerca di sostenere una tesi valida, possibilmente condivisa da chi si considera degno di stima, un’autorità o la maggioranza; insomma, si cerca supporto esterno ad una considerazione che si è prodotta in un certo contesto e che si è ritenuta vera: infatti non è possibile sostenere un’affermazione falsa, a meno che non si decida di mentire, ma si è comunque consapevoli che si sta mentendo.
Quando si parla, si ha bisogno di pensare che si sta dicendo qualcosa di vero, cioè di oggettivo, perché è chiaro che le cose stiano proprio così come sto dicendo. Se siamo in tanti a pensarla in quel modo, è certo che le cose stiano effettivamente come credo, e cioè sto affermando la verità.
Si chiama verità qualcosa che risulti vero all’interno di un certo gioco, nel quale tutti i partecipanti riconoscono ed applicano regole condivise: se nel poker è vero che 4 assi battono un full, in un altro gioco di carte questo non significa nulla perché vi sono altre regole.
Al di fuori del poker, il primato dei 4 assi non sarà né vero, né falso: semplicemente non avrà alcun significato e non verrà utilizzato come criterio per definire il vincitore.
Allo stesso modo, essere convinti che qualcosa sia vero non significa conoscere la Verità assoluta, ma soltanto affermare qualcosa che risulti vero all’interno del gioco che si sta facendo.
Ogni cosa che si dice e si pensa, ha questa caratteristica di verità: è un’affermazione che è risultata vera all’interno del discorso che la persona sta facendo, cioè è un’affermazione che non contraddice alcuna delle proposizioni che la precedono e neppure la premessa da cui origina.
Capite bene come siamo ben lontani dalla verità assoluta e oggettiva, perché tutto dipende dal discorso che è in atto, da cosa pensa colui che sta parlando e continuamente afferma.
Ciò che risulta realmente oggettivo e necessario è l’insieme delle regole che permettono all’umano di formulare un qualsiasi pensiero, di distinguere qualcosa come “vero” per differenza dal “falso”; di poter sapere che qualcosa è una “domanda” e che qualcos’altro funziona come “risposta”; come utilizzare qualcosa ponendolo come “premessa” e cosa sia un “conseguente”.
Regole, nient’altro che indicatori di una direzione in cui il gioco può procedere o deve arrestarsi; un gioco che chiamiamo linguaggio e che è il “modo in cui si pensa, qualunque cosa si pensi”.
Ritorniamo alla psicanalisi e ciò che si diceva poco fa: il racconto della storia personale che diventa il racconto dei pensieri della persona, di ciò che questa ha creduto e crede, delle sue convinzioni.
È un discorso che procede a ritroso, andando a cercare le premesse da cui è partito per giungere alle convinzioni attuali, il “perché pensa le cose che pensa”.
Un discorso che interroga ciascuna delle verità che la persona ha concluso nel corso della sua vita, quelle che l’hanno condotta ad agire seguendo una certa direzione: fino a considerare che non erano verità oggettive e quindi che non vi è stata alcuna forzatura del destino, alcun obbligo se non quello deciso dal proprio discorso.
È ciò che si pensa che determina ciò che si agisce, e di questo, ad un certo punto, si comprende la portata enorme in termini di conseguenze: se sono libera di credere – oppure di non credere - allora sono libera di agire; se posso scegliere, senza sentirmi vincolata da premesse che altri mi hanno proposto/imposto come fondamentali, allora posso assumermi la responsabilità di ciò che scelgo. Non posso lamentarmi di ciò che ho deliberatamente scelto, non sono più vittima, non sono più il soggetto passivo della mia vita.
Praticare l’intelligenza non è un puro esercizio intellettuale, ma anche una opportunità reale di sapere cosa ci rende infelici e perché, allo scopo di perseguire ciò che invece può renderci felici.
Tornando al racconto biblico: Adamo ed Eva hanno l’opportunità di praticare l’intelligenza allargando i confini del paradiso terrestre oltre l’albero vietato, considerando che non vi è bene o male, se non ciò che si sceglie di considerare come tale; che la paura nasce se vi è una verità da difendere e che la felicità ciascuno può trovarla in sé stesso, curando e valutando oculatamente i frutti del proprio discorso.
Forse c’è già qualcuno che vuole porre qualche questione?
Intervento: ci sono persone che pare non abbiano sensi di colpa che mentono e continuano a mentire, come reagirebbe lei con queste persone? Non siamo qui a fare politica ma ci sono strane situazioni per cui uno dice “ ma questo qui non ha proprio nessun senso di colpa!”
Intervento di Luciano Faioni
Non sono strane situazioni, accade abbastanza spesso, se una persona mente però sapendo che la sua menzogna è funzionale a qualche cos’altro in cui crede fortissimamente non ha nessun senso di colpa, per esempio un tale Adolf Eichmann durante il processo non mostrò nessun senso di colpa perché lui era mosso da un criterio che lui riteneva assolutamente valido e quindi non si capisce perché dovesse avere sensi di colpa, né lui né altri che hanno operato in tal modo e continuano anche oggi in altre parti del mondo a sterminare ebrei, atei o miscredenti a seconda dei casi e delle occasioni.
C’erano due aspetti interessanti in ciò che poneva Daniela, uno più folcloristico connesso con il senso di colpa e l’altro più teorico. L’aspetto folcloristico riguarda l’utilizzo del senso di colpa da parte di terzi, già lo stesso Freud si era accorto che senza senso di colpa non è possibile governare, cioè occorre che i governati vengono mantenuti nel senso di colpa, una persona che prova un senso di colpa è sempre molto più facilmente gestibile, più facilmente ricattabile e quindi, diceva lui, per governare occorre che i governati mantengano il senso di colpa perché in assenza di senso di colpa le persone sono molto più difficilmente gestibili, tant’è che se una persona vuole ottenere e far fare a chiunque quello che desidera uno dei modi è quello di farlo sentire in colpa, da quel momento in poi la persona farà tutto quello che si vuole che faccia, perché lo farà? Il senso di colpa ai tempi di Freud era individuato in modo abbastanza preciso, in fondo l’idea di avere commesso un crimine contro la morale, contro natura a seconda dei casi comporta la certezza che una volta scoperto questo crimine comporterà l’allontanamento dal consesso civile, quindi la solitudine, l’abbandono totale e irreversibile, il bando come si diceva una volta e questo comporta dei problemi ma ci sono persone che avvertono un forte senso di colpa pur non avendo commesso nessun crimine, e questo già era un fatto curioso, perché la persona dovrebbe sentirsi in colpa se non ha ancora fatto niente? Che magari lo farà però per il momento è innocente di fronte a dio e agli uomini. Ciò che fa avvertire la colpa anche laddove non è stato commesso un crimine è l’idea o, come diceva più propriamente Daniela, il desiderio più o meno consapevole di commettere quel crimine, e allora colui che si sente in colpa di fatto non ha tutti i torti perché è come se avesse commesso quel crimine anche se ancora materialmente non l’ha messo in atto, ma c’è il desiderio. Daniela parlava delle madri nei confronti dei figli, un caso abbastanza tipico: sentirsi in colpa per un desiderio di morte nei confronti dei figli, che nelle madri è piuttosto comune, poi naturalmente non necessariamente lo mettono in atto anche perché si sarebbe estinta la specie già tempo e quindi va bene così, però questo desiderio che alcune madri avvertono come una sorta di abominio, la cosa più abominevole che si possa immaginare in realtà è piuttosto diffuso, solo che le regole morali che vigono nella nostra civiltà impongono un amore totale e assoluto, incondizionato e irreversibile per cui di fronte a un imperativo del genere qualunque pensiero che non vada in questa direzione è vissuto come un crimine, soprattutto se è un desiderio. Allora si incomincia a temere per la salute del bimbo il quale naturalmente non corre nessun pericolo se la madre bada a non fargli del male, però l’idea è che possa accadergli qualcosa cioè che possa accadere qualcosa che io desidero fargli, che naturalmente non sono io a fare ma qualcun altro, è un pericolo continuo, costante, e allora ecco che la madre diventa particolarmente apprensiva, preoccupata, spaventata da tutto e da tutti. È una cosa che è abbastanza comune, ma perché? Come dicevo prima, il desiderio, il pensiero di eliminare questa cosa che a un certo punto diventa anche fra le altre cose un ostacolo e come si sa il miglior modo di sbarazzarsi di un ostacolo è eliminarlo, questo dicevo per quanto riguarda l’aspetto più folcloristico, certo per provare un senso di colpa occorre tutta una serie di conoscenze, bisogna sapere tantissime cose, intanto qual è il codice morale vigente se no non prova un senso di colpa, e tutto questo bagaglio di informazioni che procedono dalle cose che uno stato, anche una nazione ha acquisito e tramandato sono in effetti delle credenze, delle superstizioni, superstizioni perché si considera che una certa cosa sia bene per esempio, che un’altra sia male in base a un criterio che di volta in volta cambia anche rispetto ai paesi, ma perché parlo di superstizione? Perché ha la stessa struttura, qual è la struttura della superstizione? È una struttura che si può individuare anche in una figura retorica, è una sorta di sillogismo dove la premessa maggiore, quella che dovrebbe sostenere tutto e garantire tutto quanto in realtà non c’è, non c’è ma semplicemente si suppone che ci sia da qualche parte, ma di fatto non viene mai enunciata, mai detta, così come funziona anche nei proverbi, è esattamente la stessa struttura e questa superstizione diventa a un certo punto un bagaglio comune della società e quindi chi trasgredisce questa legge scritta oppure no sa a quel punto di avere commesso un crimine, sapendo di avere commesso il crimine si aspetta, perché glielo hanno insegnato, la punizione, si aspetta di essere bandito. C’è anche un altro aspetto e Freud già l’aveva rilevato, e cioè qualcosa che lui stesso considerò affine al godimento: l’impulso a confessare. Già un certo Theodor Reik scrisse un breve saggio con questo titolo “L’impulso a confessare”, perché una persona dovrebbe confessare un crimine se poi sa, tra l’altro, che verrà punito? Dovrebbe tacerlo in teoria se non altro per la propria incolumità e invece no, moltissime volta una persona avverte un desiderio fortissimo e irrefrenabile di confessare il suo crimine, reale o presunto che sia non ha importanza, perché? Daniela parlava di una sensazione di importanza in alcuni casi, anche, ma non è solo questo, in effetti una persona che confessa il crimine si aspetta anche la punizione, forse nei bambini piccoli la cosa è più evidente come in taluni casi si aspetti la punizione da qualcuno, quasi a pareggiare la partita, come se ci fosse una sorta di sbilanciamento, ma il godimento in tutto ciò cosa ha a che fare? Ciò che avviene durante la confessione del proprio crimine comporta sì certo l’idea di abbandono, ma questa idea di abbandono perché viene ricercata? Perché in fondo è questo che si cerca alla fine, perché si sa che in seguito alla confessione del crimine ci sarà la punizione, perché si cerca la punizione? Cioè l’abbandono per esempio, come se questo abbandono costituisse una occasione, una scena che produce emozioni molto forti, molto violente e c’è un fatto da tenere in conto, e cioè che gli umani da sempre vanno in cerca di emozioni forti, violente, sembra quasi che non possano farne a meno al punto di produrle se non ci sono le occasioni giuste, di produrre loro stessi delle scene, delle situazioni in cui c’è questa eventualità di provare forti emozioni, al punto che le persone sono addirittura preoccupate in alcuni casi, per esempio, rispetto a un percorso teorico o psicanalitico di potere perdere le loro emozioni, tanto ci tengono, e più sono forti e meglio è; una persona che non prova emozioni forti, che non riesce a provarne, si sente come morta e immagina di sentirsi viva solo se prova delle forti emozioni. Commettere un crimine provoca delle emozioni non di per sé, di per sé potrebbe non provocare assolutamente niente, così come una tigre che scanna un cerbiatto non è che provi emozioni, lo ammazza, se lo mangia e chiuso il discorso, invece per gli umani il discorso è un po’ più complicato appunto perché intervengono le leggi morali, le consuetudini, ciò che si è appreso essere bene e male, e le emozioni vengono proprio da lì, da l’idea di infrangere ciò che è stato proibito. Ci sono persone che costruiscono la loro esistenza su cose del genere e tengono talmente tanto a provare queste emozioni, che vivono la loro vita costantemente schiacciati dal senso di colpa senza che nessuno glielo abbia chiesto naturalmente, ma al solo scopo di provare queste emozioni tant’è che se gli si fa notare che non hanno commesso nulla non abbandonano il loro senso di colpa a causa di questa necessità. La psicanalisi esplora questa necessità, pone la persona nelle condizioni di sapere perché cerca la sofferenza, perché ne ha bisogno costantemente pur dicendo a tutto il mondo di non volerla tuttavia crea, costruisce continuamente situazioni che la fanno soffrire, mentre non ce ne sarebbe nessun bisogno ma la sofferenza è una forte emozione, come rinunciarci? È un problema, un problema tale che qualcuno disse ad un certo punto “ma se non soffro più che cosa faccio? Può diventare un impiccio perché a quel punto non sa più come passare la giornata, cosa fare? Dove rivolgersi? Come se la vita non avesse più nessuno scopo; soffrire, soffrire per sé o per altri poco importa l’importante è soffrire e il senso di colpa è uno dei mezzi più noti e più praticati in questo senso e anche più facili da utilizzare perché le persone cercano la sofferenza e quindi sono molto facilmente indirizzabili verso il senso di colpa, cosa che le rende come dicevo all’inizio facilmente gestibili. La psicanalisi rende le persone assolutamente ingestibili, la psicanalisi ha un effetto sovversivo, le persone non sono più ricattabili perché non hanno più bisogno né di soffrire né di credere, e in questo non sono più gestibili, e per questo motivo l’effetto della pratica analitica è la sovversione: non c’è più la possibilità di fare credere qualunque cosa e il suo contrario a chiunque. Con questo sto dicendo che ciò che Daniela diceva prima rispetto al linguaggio è una questione di una portata vastissima, anche se la questione del linguaggio è sempre stata posta in termini marginali, come uno strumento per descrivere qualcosa ma in realtà è molto di più, non solo descrive ma costruisce, che è diverso, costruisce e fa esistere le cose letteralmente. Quando una persona ha costruito la sua colpa, per quella persona la sua colpa esiste realmente, non è una fantasia, è qualcosa che ha la stessa esistenza di un piatto di spaghetti, e quindi si comporterà di conseguenza. Tutte queste immagini, scene, sensazioni, fantasie sono costruzioni, costruzioni che sono possibili perché gli umani sono provvisti di linguaggio, senza linguaggio queste costruzioni non sarebbero possibili. Come dicevo prima la tigre sbrana un capretto e se lo mangia, non si pone questioni etiche e morali, civili, civiche, da buona cittadina, non lo può fare, non lo può fare perché non è provvista di quella cosa che chiamiamo linguaggio che a questo punto è ovvio non è più qualche cosa che consente la verbalizzazione dei pensieri ma consente di costruire letteralmente i pensieri, e i pensieri sono quelle cose che quando vengono in mente vengono credute vere e spingono le persone a fare delle cose belle o brutte che siano, possono fare delle poesie o delle musiche meravigliose oppure degli stermini inverosimili, tutto ciò è la conseguenza, la conclusione di pensieri, pensieri che sono stati costruiti dal linguaggio, ecco perché ci è parso opportuno sapere come funziona il linguaggio, cioè come funziona quella cosa che consente di costruire tutto, tutto ciò che gli umani immaginano, pensano, desiderano, temono, qualunque cosa; sapere come funziona il linguaggio è sapere come funzionano i propri pensieri perché i propri pensieri costruiscono certe cose, in definitiva sapere perché penso le cose che penso e cioè perché penso vere certe cose, il fatto che io le pensi vere non significa che lo siano naturalmente ma consente anche di sapere che cos’è la verità visto che anche la verità in fondo è un concetto e come tale costruito appunto sempre dal linguaggio. Senza linguaggio non esisterebbe neppure la verità, perché è pure costruita in qualche modo, in qualunque modo io voglia intendere la verità, come adæquatio rei et intellectus o, come volevano i Greci, come alétheia o come criterio di verifica di proposizioni, in ogni caso il fatto di avere accolta una definizione di verità procede da una serie di considerazioni e queste considerazioni sono linguaggio, qualunque cosa sia sarà costruita dal linguaggio, ecco perché è importante conoscerne il funzionamento e soprattutto incominciare a tenere conto che ciascuno è fatto di linguaggio, nel senso che è fatto delle cose che pensa, delle cose che crede essere vere, delle cose che immagina e che desidera …
Intervento: una cosa autobiografica da discutere che ha detto la dottoressa che mi ha fatto venire in mente una cosa che ai tempi mi colpì molto … purtroppo la mia famiglia, noi siamo vittime delle Brigate Rosse e per quanto la vita personale io non ho nessun padre, nessun nonno …
Chi era il nonno se posso chiedere?
Intervento: Carlo Casalegno era giornalista della Stampa poi crescendo ho fatto tutto il percorso … ho tentato di mettermi in comunicazione con alcuni personaggi che sapevo ancora essere in circolazione … più che liberi … feci una domanda che posi quando ero piccolo .... io domandai “perché gli hanno sparato in testa?” … e quando scrissi a quella persona chiesi “perché?” e quella persona mi rispose pacifico “perché lo pensavamo, cioè pensavamo questo cioè all’eliminazione fisica di tuo nonno” senza dire altro e questo mi è rimasto sempre una frase un po’ inquietante … semplicemente perché lo pensavano e quindi l’hanno fatto …
Sì è vero, pensavano che fosse un ostacolo, un nemico, è ovvio, come avviene in uno stato di guerra e allora le brigate rosse pensavano di essere in uno stato di guerra il nemico si uccide. E accade che vengano eliminate persone totalmente innocenti e innocue, d’altra parte i sei milioni di ebrei fatti fuori da Hitler non avevano fatto assolutamente niente a nessuno, però “pensavano” che queste persone costituissero una minaccia, che la costituissero oppure no questo è indifferente però quando ci si muove con un’idea e questa idea diventa vera allora può diventare un problema, non necessariamente certo però dipende da che tipo di idea ovviamente, però se io ritengo che ciò che io credo sia assolutamente vero e ritengo, per motivi miei personali, che chiunque non pensi quello che penso io sia un nemico, come per esempio pensano i mussulmani di noi che siamo infedeli, e questo noi abbiamo pensato prima di loro, è uno scambio di cortesie che dura da secoli, allora l’altro diventa l’ostacolo da eliminare e se c’è la possibilità lo si elimina, d’altra parte ha funzionato così da sempre, da quando esiste traccia degli umani …
Intervento di Daniela Filippini
Questo fa capire come siano determinanti le cose che si pensano e quanto invece non si dia la giusta importanza, la giusta rilevanza alle cose che si pensano cioè vengono date quasi per scontate in realtà gli effetti, le cose che si credono essere vere possono essere tali da provocare la morte di una persona che appunto non ha neanche la possibilità di difendersi (…) al momento in cui c’è una verità da difendere a tutti i costi perché qualcuno non è d’accordo nel migliore dei casi cerco di convincerlo, di persuaderlo di portarlo alla ragione, come si dice e se non si vuol convincere sono costretto da quello che penso letteralmente a eliminarlo …
Intervento: …
Se l’avessero preso i tedeschi probabilmente avrebbe subito la stessa sorte, magari davanti a un plotone di esecuzione però anche loro avevano la mano pesante così come accade oggi ai giorni nostri, ci sono tizi che si mettono una cintura di C4 e si fanno saltare per aria dentro a un cinematografo per esempio, perché lo fa? Perché crede che le cose che lui pensa, la sua religione in questo caso, sia assolutamente vera è questo il motivo, naturalmente non si è mai chiesto se è proprio così oppure no, ma se avesse la possibilità di chiederselo magari potrebbe incominciare a considerare la cosa in altro modo e anziché imbottirsi di esplosivo e farsi saltare in aria potrebbe riflettere su che cosa in questo caso ha detto Maometto, se è proprio come ha detto lui, questa religione o un’altra questo non ha nessuna importanza, e a questo punto così come accade in un’analisi, anche se non mi è mai capitato di avere gente che si sia fatta saltare in aria ovviamente, ma neanche prima e soprattutto non durante che sarebbe stato molto seccante, però anche in analisi la questione, la struttura è la stessa: una persona crede fortemente delle cose, crede fortemente per esempio di essere incapace, di avere paura di alcune cose, di essere sempre abbandonato non importa quali cose però crede fortemente e finché ci crede per lui quella è la realtà, finché non si interroga su che cosa sta facendo esattamente, su perché si trova a credere delle cose che in realtà non hanno bisogno di essere credute e da dove viene una cosa del genere e perché ci si è aggrappato con tanta forza. C’è l’eventualità a quel punto che possa spingersi ancora oltre e chiedersi addirittura a quali condizioni qualche cosa può essere creduto vero, che cos’è, come diceva prima Daniela, la verità? E allora ecco che la ricerca si fa molto più interessante, a quel punto ha altro da fare che farsi saltare per aria in un cinematografo, altre cose lo intrigano, lo attraggono, lo questionano, altre domande incomincia a porsi e la cosa si fa molto più interessante per lui e soprattutto per gli altri in quel caso. Sentiamo magari anche qualcun altro …
Intervento: se ho ben capito l’uomo ha bisogno di emozioni forti e allora ricorre anche al senso di colpa …
In alcuni casi sì, è un buon mezzo per provare emozioni, non sempre …
Intervento: e perché non fare una ricerca di emozioni gioiose?
Questa è una bella domanda e merita una bella risposta. La sofferenza è una cosa che consente alla persona di provare delle emozioni, come dicevamo prima, molto forti, molto violente e per lungo termine, è una cosa che può andare avanti per anni, per tutta la vita, un’emozione bella si esaurisce generalmente nel giro di pochi secondi tant’è, faccio un esempio molto banale, lei chieda a una persona “come stai?” l’altro incomincia a fare una lista dei malanni e ha da parlare per delle ore, se invece che le risponda “benissimo”, adesso che si dice? Che si racconta? È finito il discorso, mentre i malanni sono quelli che rendono la persona più interessante, perché uno che sta male, questa è quasi una tradizione, è una persona che risulta interessante e infatti se uno sta male l’altro quasi si sente obbligato a chiedergli “cosa c’è che non va?” e quindi si interessa a questa persona se non altro per chiedergli dove gli fa male, se invece quell’altro gli risponde che sta benissimo non ha niente da chiedergli, niente da domandargli, va tutto bene, che altro c’è da dire? Niente, è bell’e finito il discorso. Ecco perché gli umani effettivamente come ha detto lei giustamente sono molto più attratti e alla ricerca di ciò che fa soffrire piuttosto che di ciò che fa gioire. La sofferenza offre anche quest’altro vantaggio, che bisogna adoperarsi per eliminarla e quindi darsi un sacco da fare, trovare delle cose, inventare delle soluzioni etc. mentre se uno sta bene si trova in una condizione che dovrebbe essere ottimale in teoria, quindi non ha più niente da fare, sta lì in attesa di stare male appunto. Non è casuale che moltissime persone si trovino a crearsi dei problemi, in genere li incontrano perché i problemi ce ne sono sempre ma nel caso sfortunato in cui non ce ne siano allora bisogna trovare qualche cosa che non va. Ai tempi Freud un suo allievo, un tale Sandor Ferenczi scrisse un breve saggio che si chiama proprio “La nevrosi della domenica”, è una cosa nota a tutti il fatto che per esempio sotto le feste aumentino le depressioni, perché le persone non hanno niente da fare, sono in casa, sedute sul divano, guardano il soffitto, e i loro pensieri dove vanno? Alle cose belle, gradevoli, dilettevoli? No, vanno alle catastrofi avvenute o in procinto di avvenire, sempre e comunque, perché sono quelle che danno da pensare, da fare, da brigare, da preoccuparsi, danno da soffrire e soffrendo hanno qualcosa da fare. Gli umani sono gli unici abitanti del pianeta che hanno l’opportunità oltre che l’occasione di annoiarsi, per esempio un animale non può annoiarsi e neanche una piantina si annoia, prendete un cane, lo mettete lì, non ha niente da fare, cosa fa? Dorme, non è che si chiede adesso cosa faccio? E incomincia a innervosirsi, si agita, tira fuori le parole crociate, telefona a qualcuno, no, sta lì e dorme, non può annoiarsi, non può farlo perché sprovvisto di quella cosa che abbiamo chiamata linguaggio ed è il linguaggio la condizione per annoiarsi. Gli umani parlano sempre, ininterrottamente e non possono non farlo perché sono fatti di linguaggio che li costringe, proprio per la struttura di cui è fatto il linguaggio, a parlare ininterrottamente, avere sempre qualcosa da dire, trovare comunque sempre qualcosa da dire e quindi essere attratti da tutto ciò che consente di parlare e di conseguenza anche di essere importanti per qualcuno, perché se io sono il portatore della verità supponiamo divento importante per tutti, tutti quanti mi confermeranno che sono la persona più degna e più indispensabile sul pianeta e io sarò tutto contento, funziona così, ma perché gli umani cercano il potere? Che se ne fanno? In teoria non se ne fanno assolutamente niente però il potere è la manifestazione più evidente e più palese che si possiede la verità, che ciò che io dico è vero se mi seguono per esempio sei miliardi di persone allora penserò di dire delle cose importanti. Anche questa è una superstizione naturalmente, però molto condivisa e la persona allora è contenta perché suppone a questo punto di essere quella più importante, di essere quella che dice la verità, come disse una volta quel tale “la verità è quello che dico io”, perché ho il potere perché sia così, il potere delle armi generalmente, quello che ha le armi più potenti è quello che ha ragione, è un modo più rapido e più efficace per piegare l’altro, il metodo anche più antico. Tutto questo esiste ed è possibile grazie al linguaggio, ecco perché è così importante saperne qualche cosa di più, se no a nessuno verrebbe in mente di aggredire, di difendere, non ci sarebbe nulla da difendere né nulla da aggredire, ci sarebbe da intendere, da discutere, da parlare, da elaborare, ma aggredire qualcuno? Perché? Non c’è nessun motivo, né nessuno diventa un ostacolo perché non c’è più nessuna verità da difendere, c’è sempre una verità da difendere, una verità che generalmente è rappresentata da un dio, anche le SS avevano scritto sulla cintura dei pantaloni “got mit uns”, dio è con noi. Lo dicono anche gli arabi …
Intervento: prima parlava delle emozioni ce ne sono … è sempre una questione di linguaggio quindi le emozioni esistono perché siamo bravi a descriverle …
Non è che esistono perché gli diamo un nome, certo diamo anche un nome per chiamarle in qualche maniera, si potrebbero anche chiamare Pippo però il fatto è che esistono queste emozioni perché a un certo punto succede qualche cosa che per la persona ha un certo valore, positivo o negativo che sia, bello o brutto, ma il fatto che sia vissuto in modo negativo, per esempio, dipende dal modo in cui quella persona accoglie tutta una serie di considerazioni, tant’è che alcune cose per una persona sono belle e degne e per altre invece sono infami, una persona si emoziona per certe cose che per altre persone invece sono assolutamente irrilevanti, come se l’emozione in effetti non fosse nient’altro che una cosa che interviene quando qualcosa si conclude in un certo modo, quindi l’emozione sorge perché c’è il linguaggio, è il linguaggio che fa pensare e considerare e giungere a una certa conclusione che è quella che produce l’emozione, se no, se non ci fosse quella conclusione non ci sarebbe nessuna emozione di nessun tipo, quindi non è soltanto che consente di nominarla, anche la nomina sì certo, però consente all’emozione di esistere che è diverso. Per qualcuno la rabbia è una bella sensazione, prenda per esempio una fanciullina cosiddetta isterica, se non trova qualcuno con cui arrabbiarsi è un problema, per lei arrabbiarsi con qualcuno non dico che è motivo di esistenza ma quasi, per cui andrebbe annoverata in quel caso fra le emozioni positive, per esempio, se è in un discorso ossessivo no, e così via …
Intervento: qualche animale ha emozioni?
Qualche animale ha delle emozioni? Nessun animale me ne ha mai parlato, i cani sono animali simpatici e socievoli certo ma siccome non ci raccontano quello che provano e non hanno nessuna possibilità di farlo questo ci autorizza a stabilire che se fa una certa cosa allora prova gioia, se ne fa un’altra prova rabbia, possiamo attribuirgli tutto quello che vogliamo tanto non dicono niente per questo sono così cari agli umani, perché qualunque cosa gli si dica comunque non dicono niente, stanno lì buoni, buoni in attesa della ciotola della sera, e dormono …
Intervento: …
Se lei pensa alla cosa nei termini in cui probabilmente loro pensavano, cioè come una guerra vera e propria … perché si mette l’elmetto se va a combattere? Per evitare che una pallottola gli buchi la testa e quindi anche in guerra uno cerca di mettersi in una trincea e cerca di evitare le pallottole nemiche, e la stessa cosa in quel caso, uccide qualcuno per necessità in molti casi, so che non c’era nulla di personale così come non c’è nulla di personale in un pilota americano che sgancia delle bombe sull’Irak …
Intervento: mi chiedevo una cosa pensando e riflettendo sul linguaggio e quindi sull’importanza del linguaggio … se gli umani si accorgessero che sono parlanti, tutto quello che abbiamo detto dal kamikaze, alla sofferenza, al senso di colpa ecco per esempio tutte queste cose se gli umani non parlassero non esisterebbero quindi io direi che gli umani potrebbero in questo caso provare una forte emozione di fronte a una necessità logica, questa sera parlavamo del senso di colpa quindi della sofferenza che trafigge gli umani ecco tutto questo non potrebbe accadere se gli umani non fossero parlanti e per che cosa poi? per continuare a parlare, per poter parlare … la nevrosi, la psicosi, l’omicidio, il dolore tremendo di una madre che desidera, come si diceva prima, ciò che è vietato, sofferenze perché? Perché gli umani parlano solo per questo piccolo particolare …
Sì certo, e infatti domani sera nella nostra sede discuteremo, come ogni mercoledì ormai da più di vent’anni, proprio di questo, del perché gli umani parlano e cosa fanno quando parlano, questione che come abbiamo detto e che come ha rilevato anche Beatrice è tutt’altro che marginale, anche se è vero che gli umani non considerano mai di essere esseri parlanti in prima istanza e non lo fanno per potere continuare a soffrire, cosa che riesce loro benissimo. Bene, ci vedremo fra quindici giorni. Grazie e buona serata.