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5-2-2004

 

Libreria LegoLibri

 

Superstizioni psicanalitiche

 

Intervento di Gabriele Bardini

 

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Intervento di Luciano Faioni

 

La questione della psicanalisi è una questione complessa, in effetti ciò che ci ha condotti al punto in cui siamo rispetto al discorso che andiamo conducendo, e mano a mano costruendo, ha preso le mosse proprio dalla psicanalisi, da quella che ha inventato Freud, e in più ancora ha preso le mosse dal dare alla psicanalisi un fondamento, nessuno ci aveva mai provato prima, perché si riteneva, e la più parte degli psicanalisti a tutt’oggi ritengono, che sia un’operazione in alcuni casi sconveniente, perlopiù impossibile, cosa che può sembrare singolare dal momento che una qualunque affermazione che non può essere fondata, dimostrata, possiamo tranquillamente affermare che vale quanto la sua contraria. Ma come avviene una cosa del genere, perché gli umani si accontentano in genere? Sono molti i motivi, sicuramente il fatto di essere stati addestrati fino dalla più tenera età a pensare in questo modo, e cioè a credere ciò che gli si dice, qualunque cosa sia in generale, d’altra parte se così non fosse le istituzioni avrebbero qualche difficoltà, se cessassero di credere, e quindi è perfettamente funzionale a qualunque organizzazione, a qualunque tipo di governo, non importa che cosa, importante è che si creda. E così avviene che non ci si pone mai questo problema e cioè se ciò che sto affermando è provabile, dimostrabile oppure no. Questione molto antica, che già Platone a suo tempo aveva posta, cioè appare bizzarro che gli umani parlino continuamente affermando cose delle quali in realtà non sanno assolutamente niente, è singolare questo fatto, ma per quanto sia singolare non lo rende meno diffuso, e allora ecco che ad un certo punto sorse una domanda, tenendo conto che, come è noto, ci sono moltissime scuole di psicanalisi e questo ha dato a molti spunto per affermare che se esistono molte scuole di psicanalisi allora non ce ne è una che possa sostenere le sue ragioni con maggiore vigore e forza di qualunque altra, e non ha tutti i torti e in effetti è così, perché quando decidemmo di trovare un fondamento, a cercare, perché non sapevamo se l’avremmo trovato, un fondamento logico alla psicanalisi… nel caso questo non fosse stato trovato beh a quel punto sostenere una teoria anziché un’altra avrebbe avuto soltanto un valore estetico “mi piace più questo, mi piace più quell’altro” perché? “perché è così” e bell’è fatto. Non ci sarebbe stato nessun altro motivo per preferire la teoria di Freud a quella di Jung, quella di Lacan, e quindi era in gioco ciò stesso di cui ci si stava occupando: la psicanalisi e il lavoro che andavamo facendo. Certo, il rischio di non trovare una cosa del genere, cioè un fondamento alla psicanalisi c’era, non so che cosa avremmo fatto in quel caso, cioè se non fosse mai stato trovato, ma tant’è che invece l’abbiamo trovato e questo è stata una fortuna per un verso, per un altro no. Una fortuna nel senso che abbiamo avuto il modo, l’occasione, di proseguire la psicanalisi, un itinerario intellettuale, un itinerario teorico, ma a questo punto consapevoli di non muovere più da un atto di fede. Ma sia come sia non ci è bastato, quindi trovare anche le condizioni del pensiero, in effetti qualunque teoria psicanalitica, visto che le abbiamo considerate tutte, ha a fondamento un’affermazione, o una serie di affermazioni che non sono provabili e che pertanto esigono per essere credute di un atto di fede. Se manca questo atto di fede, allora si vanno a cercare, dopo essersi accorti che ciascuna di queste teorie, tutte quante, i motivi per cui questa teoria non è sostenibile, oltre alla domanda anche questa legittima: perché dovrebbe esserlo? Considerato che la più parte delle persone con cui si aveva a che fare non si poneva affatto un problema del genere, cioè perché una teoria doveva essere sostenuta, la teoria di Freud è sostenibile? No. E che importanza ha? Ma quale teoria dovrebbe essere sostenibile e che cosa intendiamo con sostenibile? A questo punto sono sorti un numero notevole di problemi, problemi che generalmente nessuno si pone, ma per dimostrare qualcosa occorre avere un criterio per poterlo fare, e questo criterio occorre che sia vero, quindi occorre avere un criterio di verità, in fondo è l’impossibilità di risolvere queste domande che hanno indotto la più parte delle persone a lasciare perdere, d’altra parte tutto il pensiero contemporaneo, possiamo dire da Heidegger in poi è andato in questa direzione “la verità non si trova, quindi non ha alcun interesse cercarla”, oppure è una cosa così, momentanea e personale, oppure ancora, come voleva Popper, “è sempre da trovare, ma non si troverà mai”. Quindi occorre anche una nozione di verità, ma non è semplice, si incappa immediatamente in un paradosso: per definire la verità occorre trovare una definizione che almeno sia vera, ma come posso sapere se è vera se ancora non so che cos’è la verità? Insomma una serie di problemini teorici da risolvere, appena si esce dal seminato per dirla così, ci si imbatte in una serie di aporie, di paradossi, di accidenti vari che sono poi gli stessi del pensiero occidentale di questi ultimi duemila anni, come il problema dell’autoreferenzialità, e tutta una serie di altre questioni che occorreva risolvere se volevamo proseguire in quella direzione, in caso contrario ci saremmo attenuti alla nostra teoria psicanalitica, però a quel punto eravamo troppo curiosi per tornare indietro e abbiamo proseguito. Innanzi tutto occorreva un criterio, ma quale? Che cosa potrebbe garantire un criterio così forte da potere garantire qualunque altra cosa? Da qui la domanda: che cos’è che mi consente di pensare un criterio, di costruirlo? A quali condizioni io posso fare una cosa del genere? Occorre che sia in grado di farlo, ma sono in grado di farlo se posseggo degli strumenti. Quali strumenti? Semplicemente la possibilità, la capacità di trarre da delle premesse una conclusione, per esempio, considerazione molto semplice, molto banale, troppo banale, e che cos’è mi consente di compiere questa operazione, cioè di trarre da una premessa una conclusione in un certo modo? È qualche cosa che devo avere sempre avuta, visto che è una tecnica che ho sempre utilizzata e allora ecco che è sorta un’ipotesi, dal momento che quando elaboro una qualunque cosa, rifletto su qualche cosa, utilizzo quella cosa che comunemente chiamiamo linguaggio, allora si pose una domanda “non sarà forse il linguaggio, quella struttura che mi consente di compiere delle inferenze, delle conclusioni, dei pensieri, qualunque essi siano?” è ovvio a questo punto che il linguaggio non era chiaramente la verbalizzazione di qualche cosa, ma una struttura, quella che rende gli umani tali, nel senso che è quella che consente agli umani di dirsi, di pensarsi umani e in seguito a questo qualunque altra cosa. Ora a questo punto naturalmente sono sorti un’altra serie di problemi, uno di questi riguardava la priorità del linguaggio e poi un’altra domanda, se fosse possibile uscire dal linguaggio e se ci fosse altro oltre al linguaggio. Tutto questo sempre per costruire una teoria analitica che non avesse bisogno di un atto di fede, vi rendete conto del lavoro notevole per arrivare a questo, dunque la domanda se potesse esserci altro al di fuori del linguaggio è stata una delle prime domande ovviamente, dalla quale risposta dipendeva tutta una serie di conseguenze tutt’altro che marginali e abbiamo cominciato a rispondere “sì c’è altro all’infuori del linguaggio” cioè di questa struttura che mi consente di pensare e di chiedermi anche se c’è qualche altra cosa fuori dal linguaggio, e allora ci siamo domandati “Bene, ‘x’ è fuori dal linguaggio” però data la modalità attraverso la quale stavamo proseguendo siamo stati costretti a tentare di provare questa affermazione “‘x’ è fuori dal linguaggio” la prima considerazione è che per compiere una cosa del genere cioè per provare che “‘x’ è fuori dal linguaggio” occorre il linguaggio, immediatamente sorge un’altra domanda: supponiamo che ‘x’ sia fuori dal linguaggio, benissimo, come so che è lì? Come faccio a saperlo visto che il sapere per tradizione e per definizione e per molti altri motivi non è altro che un sistema organizzato di informazioni, organizzato da un sistema inferenziale e quindi di nuovo attraverso il linguaggio, ora la domanda era questa “come posso sapere che ‘x’ è fuori dal linguaggio, se fosse fuori dal linguaggio?” ovviamente non lo potrei fare perché non avrei nessun modo di pensarlo, però c’è ancora un elemento che io posso sapere attraverso il linguaggio, che ‘x’ è fuori dal linguaggio. Già! Posso saperlo? Dipende da cosa intendo con sapere, se intendo questo sistema organizzato di informazioni che giunge a una conclusione che deve essere necessaria allora sorge qualche problema perché io posso pensarlo, posso dirlo, posso crederlo, fare un sacco di cose ma non lo posso provare, non lo posso provare perché per compiere questa operazione devo inserire questo elemento che immagino fuori dal linguaggio, all’interno del linguaggio, e al momento in cui è all’interno del linguaggio non è più fuori dal linguaggio. E allora abbiamo posto la questione in questi termini: supponiamo di costruire una proposizione come questa “qualsiasi cosa è un elemento linguistico”, ora questa proposizione è possibile negarla? È possibile dimostrarla sicuramente ma quello che a noi interessava era se fosse possibile negarla, perché se ci fosse anche un solo modo per negarla allora quella proposizione sarebbe inutilizzabile, noi si stava cercando qualcosa di necessario e che non potesse essere altrimenti, a questo punto ci siamo accorti che negare questa proposizione comportava delle difficoltà perché per negare che qualunque cosa è un elemento linguistico ovviamente occorreva utilizzare il linguaggio, devo utilizzare cioè un qualche cosa che mi occorre per potere affermare anche per esempio che qualcosa non è linguaggio, devo continuamente e necessariamente utilizzare questa struttura che chiamiamo linguaggio, altra questione ancora: posso uscire, con un poderoso atto di volontà, dal linguaggio? Ci posso provare costruendo una teoria, costruendo proposizioni cioè utilizzando questa cosa che chiamiamo linguaggio. Ora a questo punto eravamo molto vicini a qualche cosa che aveva la forma di una sorta di costrizione logica, avevamo trovato una sorta di trappola dalla quale non c’è uscita, e non c’è uscita perché qualunque tentativo per uscirne riconduce esattamente a ciò stesso da cui si vuole uscire. Fu stata una trovata non indifferente, perché ci si mostrava mano a mano sotto gli occhi qualcosa che era la condizione di qualunque altra, la condizione necessaria al punto da giungere a considerare che in assenza di linguaggio nulla sarebbe mai esistito. Per alcuni motivi molto semplici, che non ci sarebbe nessuno per cui qualcosa possa esistere, nessuno che possa rilevare questa esistenza, inserirla all’interno di un sistema e, secondo, che il concetto stesso di esistenza procede da una serie di considerazioni e queste considerazioni sono possibili attraverso di nuovo quella struttura che comunemente si chiama linguaggio, potevamo anche chiamarla pippo, però c’è questa parola “linguaggio” e abbiamo utilizzata quella. Dunque andavamo costruendo una struttura straordinariamente potente perché non negabile nel senso che negandola costruisce immediatamente una proposizione che è autocontraddittoria e al tempo stesso abbiamo risolto anche un problema che aveva assillato tal Gödel, matematico, riguardo all’impossibilità di costruire una teoria, lui si riferiva alla matematica in particolare, che fosse al tempo stesso coerente e completa, nel suo caso il problema della completezza viene dal fatto che è sempre possibile inserire e provare una proposizione che nega tutto quello che andava facendo e quindi se è completa non è decidibile perché contiene una proposizione che nega tutto, nel sistema che abbiamo costruito invece ci è apparsa una situazione molto differente, e più potente, perché è possibile affermare che qualcosa è fuori dal linguaggio e quindi il sistema è completo, ma non è possibile provarlo e pertanto è coerente. Ora è facile immaginare che ci si trovava di fronte, a questo punto, a un sistema, possiamo chiamarla una teoria, differente da qualunque altra, nessuna teoria è mai riuscita a provare la propria necessità, in questo caso sì, per un motivo molto semplice, che non è possibile uscire dal linguaggio. A questo punto per i logici potrebbe sorgere un’obiezione, e cioè che la dimostrazione della necessarietà del linguaggio proviene dallo stesso linguaggio, questo in logica non si fa generalmente, cioè qualunque cosa deve essere provata non utilizzando lo stesso elemento che deve essere provato, ma in questo caso quale altro strumento avremmo potuto utilizzare, se non questo stesso e cioè il linguaggio? E in questo consiste la costrizione logica, non abbiamo un altro strumento per farlo. È l’unico, il solo strumento che possiamo utilizzare per costruire una teoria: il linguaggio; è vero, come diceva Gabriele che è autoreferente, e non può essere altrimenti, non può cercare al di fuori dal linguaggio qualcosa che lo dimostri, dove lo andrà a cercare, e con che cosa? Non può farlo, e pertanto rimane lui, il linguaggio, la condizione per potere dimostrare qualunque cosa compreso se stesso. Dunque se a questo punto eravamo in possesso di un fondamento inattaccabile e molto potente, come utilizzarlo nella costruzione della psicanalisi, visto che è questo l’obiettivo che ci eravamo prefissati? Prima di utilizzare questo strumento abbiamo dovuto porci ancora due o tre questioni, e cioè come funziona questo linguaggio, poiché a questo punto l’idea che sorse era che tutto ciò che la psicanalisi indicava come disturbo psichico, qualunque esso fosse, in ogni caso aveva come suo strumento inevitabile il linguaggio, il funzionamento del linguaggio, né poteva essere altrimenti, visto che ormai sapevamo che non c’era possibilità di uscire dal linguaggio e quindi era lì che doveva trovarsi la questione centrale, però occorreva trovarla, non bastava dirlo. Dunque come funziona il linguaggio? Ciascuno lo ha sotto gli occhi continuamente, ininterrottamente, da quando esiste potremmo dire, o più propriamente da quando esiste nel linguaggio, che cosa fa? Continua a parlare, a costruire proposizioni, ma non proposizioni qualunque, devono avere una particolarità alla quale particolarità gli umani tengono particolarmente e cioè le proposizioni, i discorsi che costruiscono, devono essere veri, e in effetti ci si domandò: perché mai gli umani ci tengono tanto ad affermare che quello che dicono è vero, e invece se la prendono così tanto se invece si accorgono che quello che dicono è totalmente falso, o quando qualcuno dimostra che non è vero non ne sono contenti, perché? Domanda stupidissima, cionondimeno comincia a tracciare una direzione, e allora ci siamo chiesti: un aspetto del funzionamento del linguaggio non sarà proprio questo? Costruire proposizioni, non soltanto, ma costruirle in modo tale che possono essere riconosciute come vere, vere all’interno del gioco che stanno facendo, così come è vero che all’interno del gioco del poker 4 assi battono 2 sette, rispetto a quelle regole. Qual è l’obiettivo del linguaggio, se ne ha uno? È molto semplice, basta considerare quello che fa e non può non fare: proseguire, e cioè costruire proposizioni, non può non farlo 24 ore su 24, si costruiscono storie si chiacchiera continuamente. Ha altri obiettivi? Difficile dire, e soprattutto qualunque cosa se ne dica varrà quello che varrà, l’unica cosa che sappiamo con certezza è che non può fermarsi, prosegue all’infinito, costruisce proposizioni, a che scopo? Proseguire se stesso, non c’è nessun altro scopo che possa provarsi, che abbia qualche interesse, qualche validità soprattutto, prosegue se stesso costruendo proposizioni che deve riconoscere come vere e se non riesce a riconoscerle come tali ecco che c’è un problema. È vero quello che sto pensando? Devo fare così? È bene fare così? È male fare colà? Perché una persona si pone queste domande, a che scopo, chi glielo ha chiesto? Ininterrottamente, da mattino a sera, pare costretto a farlo e in effetti è così. È costretto dalla struttura di cui è fatto cioè il linguaggio, non può non farlo perché il linguaggio funziona così e lui è fatto di questo linguaggio, quindi questo fa, e allora il problema che la persona incontra in cosa consiste esattamente? Se vogliamo ricondurlo a ciò che dicevamo prima, per esempio all’impossibilità, all’incapacità in alcuni casi di trovare una conclusione che sia vera rispetto al suo discorso, al gioco che sta facendo, questo può costituire un problema, e finché non lo trova non si da pace, è ovvio che il linguaggio per funzionare non necessita affatto di una riflessione di questo genere, funziona perfettamente, non ha nessun bisogno di sapere come funziona, la più parte delle persone non lo sanno e non per questo cessano di parlare ovviamente, ma il fatto che funzioni lo stesso comporta che una persona si trovi comunque nella necessità di cercare qualcosa di vero, e lo trova dappertutto, perché può essere qualunque cosa, non avendo gli strumenti per valutare se è necessaria oppure no va bene qualunque cosa, per questo gli umani sono così creduli, hanno bisogno di costruire proposizione vere, trovare proposizioni vere, non possono non farlo e questo li rende particolarmente sensibili a qualunque discorso che per qualunque motivo appaia loro essere vero, e così fanno ma ovviamente a una condizione: tutto questo funziona a condizione  che non si metta mai in discussione quello che si sta dicendo, questo è una condizione fondamentale, tant’è che se qualcuno dovesse cominciare a chiedere al di là del consentito risulta antipatico, insopportabile, fastidioso, e gli si chiederebbe: “perché poni tutti questi problemi?” anziché fare come tutti, cioè non interrogarsi su niente? Per tornare alla questione della psicanalisi e della superstizione, la superstizione in effetti non è altro che il credere vero qualcosa che tale non può essere provato, e se ci pensate, vi accorgete che tutto ciò che gli umani credono, sanno ecc. ha questa struttura, quella della superstizione, è fatto in questo, modo viene creduto senza potere essere provato, provato in questa accezione: in modo tale da risultare necessario e con necessario intendiamo ciò che se non fosse così, allora non sarebbe nulla. La nozione più antica in fondo di verità: ciò che è necessariamente e non può non essere, quello che gli umani hanno sempre cercato da quando c’è traccia di loro senza riuscire mai a trovare, eppure era lì, sotto il naso di tutti, non era nient’altro che la condizione della loro esistenza, del pensarsi esistenti per esempio, o non esistenti, potere pensare che la realtà esiste, che non esiste, che è un’illusione, che è una fantasia, tutte queste cose sono possibili grazie al linguaggio, sono costruzioni, stringhe di significanti. Naturalmente l’unica possibilità di trovare una verità è quella che il linguaggio stesso può porre, e cioè la sua necessità, non ce n’è nessun’altra, qualunque altra è confutabile, è discutibile, facilmente eliminabile, questa no, non può farsi, ecco perché tempo fa l’indicavamo come l’unica Verità, se volete metterci la V maiuscola, potete farlo, perché non ce ne sono altre. Qualunque altra cosa si spaccia per tale, ma tant’è che non può dimostrarlo in nessun modo, così come le teorie psicanalitiche muovono, diceva giustamente Gabriele da un sistema assiomatico, l’assioma è arbitrario per definizione “supponiamo che sia così… se fosse così allora…” supponiamo che sia così, certo, ciascuno può metterci l’osservazione sua: “la psicanalisi osserva che…” e se io osservo in un altro modo? Oppure è il numero di persone che fa la verità? “Vox populi vox dei”, però non è un criterio così attendibile, il fatto che la domenica in Piazza San Pietro ci siano alcune migliaia di persone non rende quello che dice il Papa più fondabile di qualunque altra cosa, è chiaro che a questo punto si è trattato di abbandonare tutto ciò che la psicanalisi ha sempre detto, come le  varie figure retoriche, il complesso edipico, il senso di colpa, l’inconscio stesso, questione annosa perché è su questo che spesso si appunta l’accusa alla psicanalisi di non scientificità. La questione della scientificità della psicanalisi può risolversi abbastanza facilmente. Aldilà del fatto che basta modificare la nozione di scientificità che diventa scientifica qualunque cosa, però generalmente si accoglie come criterio di scientificità un evento che può essere ripetuto un certo numero di volte a determinate condizioni e osservabile da chiunque, questo è un criterio fondamentale, ma è un criterio che vale quanto qualunque altra cosa. È un criterio necessario? Lo dovrebbe essere in base a che cosa? Che cosa dovremmo stabilire con “scientifico”, e quando lo avremo stabilito che cosa avremmo fatto esattamente? O immaginiamo che la scientificità sia qualcosa posta lì fuori dal linguaggio, identica a sé, oppure anche questa è una costruzione del linguaggio che io, il discorso che vado facendo costruisce, stabilisce così: la scienza è questo, il bene è questo, il male è questo… ma con questo che cosa ho fatto esattamente? Ho costruito delle stringhe di significanti, nient’altro che questo, questione che occorrerebbe sempre avere presente, soprattutto in ambito teorico, quando si definisce qualcosa, domandarsi: adesso ho definito ‘x’, ma cosa ho fatto esattamente? Allora si tratta di costruire proposizioni su queste basi, e cioè un pensiero che possa effettivamente insegnare, il funzionamento del linguaggio, poiché se una persona potesse, sapesse esattamente in ciascun istante e non potesse non sapere esattamente come funziona il linguaggio, allora tutto ciò che la psicanalisi descrive come malessere, acciacco, malanno, nevrosi, non solo non esisterebbe ma non potrebbe esistere, perché non ci sarebbero le condizioni, perché non posso, per una questione grammaticale, credere vero ciò che so essere falso.