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IL ROMANZO DELLA PSICANALISI

 

4 giugno 1993

terzo incontro

 

Le cose si raccontano, dunque, ciascuna volta.

Ciò che in altre occasioni ho indicato come cifra potremmo intenderlo anche così: le cose non cessano di raccontarsi. Vale a dire, non trovano l’ultimo racconto, quello che prescrive l’osservanza, quello che costringe a attenersi scrupolosamente all’ultimo significato.

Le cose non cessano di raccontarsi, quindi non sono racchiudibili in un tutto, in un insieme chiuso, in una totalità. L’ultimo racconto vorrebbe invece porre la totalità come meta finale o come già data, totalità cui l’io sarebbe richiesto di raggiungere.

La totalità, quindi, come l’io tutto, l’io pieno, l’io realizzato, facendo un po’ il verso a un certo psicologismo.

Le cose non cessano di raccontarsi, dunque la totalità non è raggiungibile. Questo non toglie che in molti casi possa pensarsi: la totalità nel racconto, cioè giungere all’ultima versione del racconto, quella vera, quella definitiva, oltre la quale non è nemmeno pensabile andare.

Un’analisi che si attenga, per esempio, al criterio ermeneutico si pone come obiettivo l’ultimo racconto, quello vero. È una curiosa posizione perché nell’ermeneutica l’ultimo racconto non sarebbe quello vero definitivamente, ma quello più vero. Una posizione curiosa perché immagina una verità assoluta rispetto a cui costruire una sorta di parametro. Poi, costruito il parametro, cancella la verità assoluta, mantenendo questo parametro, che senza la verità assoluta non ha più alcun valore. Senza la verità assoluta dire più o meno vero qualcosa non ha alcun senso. Se la verità in quanto tale non c’è, ci si imbatte nel paradosso che già incontrò Galilei, cioè è impossibile dire se l’insieme dei numeri naturali o l’insieme del quadrato di tali numeri sia maggiore o minore, è indeterminato, non ha alcun senso.

Nella teoria del romanzo, anche recente, spesso l’idea di questa totalità, del racconto totale, ha insistito in molte occasioni.

Citerò questa sera, leggendo qua e là qualche brano, G. Lucaks, che ha avuto una certa fortuna negli anni 60/70. Noto soprattutto per la sua teoria estetica, che tra l’altro trae il suo impianto dalla estetica di Hegel e quindi dalla Fenomenologia. Anche se se ne discosta, mantiene però la costruzione dialettica, quella per cui da una posizione si immagina che debba esserci una contrapposizione e che queste due opposizioni possano comporsi in una composizione finale, una sintesi, composizione che assurge per Hegel, ma soprattutto per Lucaks, alla totalità cui occorre giungere.

Il percorso di Freud ha, invece, preso le distanze da tutto ciò. Per Freud il racconto non cessa di scriversi.

Potremo dire che l’ideologia hegeliana ha costituito e costituisce a tutt’oggi l’impianto della psicoterapia, a differenza del percorso di Freud.

Come si distingue la psicanalisi come itinerario intellettuale dalla psicoterapia?

La psicoterapia presuppone un qualcosa che non va, che dà per acquisito e lavora per toglierlo. La psicoterapia ha questa funzione. Dunque, è un percorso che muove da una verità, che è il male, quindi, da una posizione e, attraverso una contrapposizione, l’antitesi, che si svolge generalmente attraverso una sorta di regresso, di ritorno a ciò che non è stato opportunamente posizionato. C’è una posizione, che è quella corretta, quindi, una contrapposizione che si tratta di reperire, qualcosa che si è mal posizionato lungo il percorso, per giungere alla fine alla composizione, alla sintesi.

Questo percorso, che possiamo definire hegeliano, è una questione molto antica. Dicevamo già dei terapeuti, di Filone d’Alessandria, gli gnostici, da cui peraltro Hegel ha preso molto. È nota peraltro la posizione di Hegel intorno all’occultismo, di cui si è molto interessato. Perché ciascuna volta che ci si occupa di questo, di questa posizione, contrapposizione e composizione, si finisce, nove volte su dieci, per preoccuparsi di occultismo. Ma non è casuale in quanto, come leggeremo in Lucaks che si attiene a questa formulazione, accade di dover giustificare questa composizione finale come quella più vera, più importante. Ecco, allora, la necessità di una giustificazione che faccia di questo percorso un percorso a ritroso, per cui già da sempre c’era questa armonia, questa composizione. Si tratta di ritornare a qualche cosa che era già.

Ecco la tentazione religiosa e in molti casi, come è stato per Hegel, occultista: cercare nell’occulto una conferma, una garanzia, un avallo per questa composizione finale. Chi la garantisce, chi la sostiene, chi dice che sia ciò a cui occorre giungere se non l’idea che sia ciò che è sempre stato e a cui occorre tornare? Quindi, la mitologia della caduta, del ritorno, che insiste in tutte queste ideologie.

Ecco, proviamo a leggere, allora, qualche brano di Lucaks:

“Dunque la grande etica ritrae la totalità estensiva della vita, il dramma della totalità intensiva dell’essenzialità.[La nozione di totalità insiste tantissimo in Lukacs, anzi, ascrive a questa totalità proprio uno degli aspetti essenziali della sua teoria del romanzo] La totalità può ancora risultare come una vera evidenza soltanto dalla ricchezza contenutistica dell’oggetto. Essa è meta soggettiva, trascendente, è realtà epifanica e dono gratificante. Soggetto dell’etica è sempre l’uomo empirico della vita ...”

C’è un ritmo nel testo di Lukacs che è scandito dall’insistere della totalità. Dunque, la realtà epifanica, ciò che si mostra, che risulta evidente. Perché in questa ideologia la posizione deve essere sempre, come dice Lucaks, una realtà epifanica. Una realtà che si mostra, evidente, che non può essere altro che ciò che mostra di essere.

D’altra parte, perché possa stabilirsi una posizione, cioè una tesi, occorre che qualcosa sia fermo. Ecco, dunque, il ricorso al soggetto empirico, alla realtà epifanica, a ciò che posso esperire, una realtà che mi si offre così come è, una realtà che non mente.

Parlavamo, la volta scorsa, di questo carteggio tra Freud e Einstein. Vedremo in seguito in modo più preciso come questa affermazione è sempre sorretta da un credo religioso, cioè da un dio, che sostenga la veridicità di questa realtà che si mostra. Questa non offre nessun appiglio. Ma prosegue Lucaks:

“Tale paradosso della soggettività della grande etica, il suo getta via per possedere e vincere [c’è un possesso di qualche cosa]. Ogni soggettività creatrice diventa lirica e soltanto la soggettività meramente ricettiva può beneficiare della grazia e diventare partecipe dell’epifania del tutto [il tutto addirittura sottolineato]. Accogliere e riunire nella propria struttura tutte le premesse della totalità e far dei propri confini i confini stessi del mondo [questo dunque è il progetto del saggio teorico di Lucaks: come, dunque, ottenere questo, cioè, accogliere le premesse della totalità e far dei propri confini i confini stessi del mondo?]. Solo qualora egli, remoto da ogni vita e distante dall’empiria che ad esso necessariamente aderisce, troneggi nel terzo cielo dell’essenzialità e sia egli stesso nulla più che il portatore e il fattore della sintesi trascendentale ...”

Insomma, troneggiare nel terzo cielo dell’essenzialità, cos’è se non avere ormai di fronte la sostanza delle cose, in presa diretta, un contatto con dio. Solo lui può garantire il progetto. Ecco:

“La forza sintetica della sfera dell’essenza si accresce entro la totalità strutturale del problema drammatico. Problema, in questo caso, inesprimibile dal momento che esso è l’idea concreta della totalità, dal momento che solo la consonante coralità di tutte le voci può dare risalto al contenuto che vi è racchiuso.”

Qui possiamo aprire una parentesi e cominciare a precisare qualche cosa. Dei significanti insistono: totalità, sfera, essenza, ecc. Questo è importante: rilevare i significanti che insistono. È la condizione perché un racconto possa continuare a raccontarsi.

Di un testo, in effetti, possono classicamente farsi varie letture. L’altra volta Paola evocava quella anagogica.

Dante parlava dei quattro sensi: letterale, allegorico, artistico e anagogico. Però, c’è un’altra lettura che forse può introdursi, una lettura che procede dal significante, propriamente. Coglie l’insistenza di un significante, però senza attribuire a questo significante un significato, senza attribuirgli necessariamente un senso già dato, già scritto da qualche parte.

Cosa comporta che insistano nel testo di Lucaks questi significanti, totalità, sfera, essenza, ecc.? C’è un brano che forse è ancora più esplicito:

“La distanza nel mondo ordinario della vita è diventata insormontabile. Tuttavia, nell’al di là di questo mondo, ognuno che abbia smarrito la via, trova la propria patria che l’attende ab aeterno.”

Come dire che era già lì da sempre: ecco la necessità di immaginare, di pensare un luogo a cui si ritorna. Questa totalità, in effetti, è tale soltanto se è posta in modo religioso, come ciascuna totalità. Pertanto, eterna.

Ma, per tornare alla questione del significante, dicevo, ciò che ci interessa è una lettura che tenga conto anche delle quattro letture di Dante, più che questa totalizzante di Lucaks, ma che vada oltre, che colga un altro aspetto, sicuramente meno totalizzante, ma che però lascia maggiori chances.

Dunque, il significante, i significanti che insistono. Così come in un racconto parlando dei propri affari, della propria vita, delle proprie vicende. Qui, Lucaks sta parlando degli affari suoi. Certamente, trae spunto dalle questioni che elabora, è un altro aspetto anche interessante, ma a noi interessa un aspetto particolare: che cosa insiste in un racconto e quali sono gli effetti di questo insistere nel racconto. Come può volgersi altrimenti questo insistere, questo scandire dei significanti, che Lacan chiamerebbe i significanti padroni?

Ciascuno parlando si trova, che lo voglia o no, a insistere su alcuni significanti. Trovate degli elementi che si ripetono. Potete reperirlo anche in un’elaborazione teorica, in ciascun testo.

Ora, questo ripetersi dei significanti è meno chiuso e quindi lascia maggiori chances o può addirittura essere aperto se ciascuna volta questi significanti sono presi in un’altra storia, in un’altra elaborazione. Nel caso qui di Lucaks questo non avviene perché sono ogni volta totalizzanti, cioè, chiudono di colpo la questione. C’è addirittura questa posizione ab aeterno. Ma c’è qualche cosa in questo insistere che attiene a una credenza, a una superstizione, rispetto a cui c’è un significante che ha una posizione dominante in quanto costituisce ciascuna volta il referente del discorso, cioè, il riferimento. Ciascuna volta si posiziona in una sorta di punto fermo da cui tutto osserva e a cui tutto si riconduce.

C’è, dunque, un significante che non capisco che interviene in una combinatoria. Che non capisco ma che questiona. Non capendosi può avvenire che gli si attribuisca un significato che serve a chiudere la questione.

In effetti, laddove c’è questa insistenza, questo ritornello, un significante sempre allo stesso modo, è improbabile che troviate un’elaborazione intorno a questo significante o anche soltanto un’illustrazione di questo significante.

Nel testo di Lukacs c’è questo significante totalità che non viene mai messo in gioco. Nemmeno nell’Estetica, tutto sommato. Come dire che è il significante che richiede una sorta di complicità: “non vi dico che cosa intendo con questo significante, che pure ha una portata essenziale in ciò che vado esponendo, non ve lo dico perché in qualche modo ci intendiamo”.

C’è la richiesta di una tacita complicità. Curiosamente, proprio su ciò che costituisce poi, in buona parte, gli aspetti, potremmo dirla con Lucaks in questo caso, totalizzanti del suo testo.

Dunque, c’è un significante che non capisco, cioè un significante cui non riesco a dare una posizione. Che ne è di questo significante? Il significante continua a interrogarmi e io non riesco a dargli una posizione, cioè un significato. Allora, immagino, o sovrappongo, ciò che non capisco a ciò che capisco.

Ciò che capisco è un significante che resiste alla significazione. Soltanto resistendo ci sono degli effetti per cui capisco qualcosa. Questo capire è preso in una metonimia, altrimenti sarebbe la comprensione totale, ultima e definitiva delle cose. Questa sovrapposizione tra ciò che non capisco e ciò che capisco è ciò che sostiene la credenza: immagino che questo significante lo abbia capito facendo un passo assolutamente arbitrario, gratuito.

Come è possibile questo passaggio? Impedendomi assolutamente di interrogarmi intorno a questo significante. Diventa un significante intoccabile.

Per riprendere un po’ anche la questione clinica che pone Freud intorno al discorso ossessivo, lì è evidente. C’è un significante che viene isolato e reso non avvenuto, dice Freud.

Si tratta di isolare un significante e tenerlo a distanza, cioè, non accostarlo, non considerarlo, non interrogarlo, non metterlo alla prova. Soltanto a questa condizione può rimanere così isolato e posso, quindi, avvalermene come elemento a cui riconduco ciascuna cosa. Ma questa riconduzione non va, come potete facilmente immaginare, senza contraccolpi.

Perché, a questo punto, tutta la teoria, compresa quella di Lukacs, verte intorno alla realtà totale, epifanica, di cui Lukacs ci parla non soltanto nella Teoria del romanzo ma anche in tutta l’Estetica su cui fonda in modo esplicito. C’è in Lukacs, come è noto, un collegamento con il pensiero comunista dove questi aspetti hanno avuto una portata tutt’altro che marginale.

C’è una realtà epifanica, come vuole Lukacs, che si mostra e che deve costringere all’osservanza, perché questi sono i fatti e, quindi, non c’è possibilità di dire o pensare altrimenti. Questa realtà che costringe è terroristica perché, in effetti, se è quella che si mostra, se è quella che ciascuno non può non vedere, è un’aggiunta costrittiva perché chi, per qualche motivo, non vede questa realtà immediatamente si pone fuori da un gruppo, da un insieme, fuori della grazia di dio nel senso che questa realtà, come dicevo prima, è garantita da dio.

Ora, ciò che avviene lungo un itinerario intellettuale è, invece, esattamente il contrario, se possiamo dire così. Si attiene, invece, proprio a quel significante, proprio a quell’elemento che il proprio discorso, la propria teoria isola e non considera. Potremo anche porlo come l’assioma o meglio come postulato, nel senso di principio. L’assioma, come sapete, è ciò che è degno, lo riprende anche Vico.

Il postulato è ciò che, invece, viene posto come dato, come acquisito.

Proprio lì, invece, l’itinerario intellettuale pone l’accento. Cosa avviene?

Avviene che se noi interroghiamo questo significante, in questo caso totalità ma può essere qualunque altro per ciascuna storia, per ciascuna teoria, per ciascun racconto, interrogandolo aggiungiamo altri elementi per cui questa totalità risulta forse non più totalizzante, non così definitiva, non risulta affatto ab æterno.

Avviene che la teoria in cui ciascuno si trova, cioè il proprio racconto, varia, non è più lo stesso. Lo stesso racconto di Lucaks, se noi togliamo questo elemento totalizzante alla sua totalità, varia, evidentemente. Variando molte sue affermazioni risulterebbero difficilmente sostenibili. Occorrerebbe allora variare alcuni suoi postulati. Esattamente, ciò che avviene lungo un itinerario analitico.

Avviene, dunque, questa variazione, questa trasformazione.

Se io sono convinto di una cosa e questa convinzione evidentemente si dice continuamente, in questa insistenza di un significante. Per esempio, se questo significante costituisce il postulato, la base della mia teoria, e viene messo in gioco e articolato, mi trovo di fronte all’urgenza, a un certo punto, di riscrivere questo racconto, questa teoria.

Questo termine riscrivere andrebbe articolato perché la riscrittura immagina che ci sia un testo che, appunto, si possa riscrivere, tradurre in un altro testo. Di fatto non c’è traduzione possibile. La traduzione non è possibile. Nessun testo è traducibile perché già tradotto ciascuna volta.

La traducibilità non è una facoltà. Non c’è facoltà di tradurre. Sarebbe una traduzione sulla traduzione o un’interpretazione sull’interpretazione. C’è una meta nell’interpretazione. Ciò che dico è preso in una traduzione. Dunque, più che una riscrittura sarebbe più preciso dire una continua alterazione, dove mi trovo continuamente preso e scrivo continuamente qualche cosa e aggiungo elementi.

Un racconto non cessa di scriversi, continua a scriversi. Questo racconto, questa teoria si trova preso in una struttura sintattica, linguistica tale per cui, apparentemente, non ha uscita. Non ha uscita in quanto la sua struttura sintattica, frastica è tale per cui ciascun elemento è continuamente ricondotto al significante che funziona nell’accezione che dicevo prima, cioè, un significante isolato e reso non elaborabile.

Questa struttura può incontrare una variante. Da qui, per riprendere ciò che dicevo prima rispetto alla distanza tra la analisi intellettuale e la psicoterapia che invece attribuisce al soggetto la responsabilità, come l’autore del romanzo, soggetto che quindi può riscrivere, se opportunamente corretto.

L’analisi intellettuale dice, invece, che non c’è un soggetto del romanzo e che, quindi, non può correggersi. Questo romanzo si scrive continuamente. C’è una struttura sintattica e frastica, che è ciò che Freud indicava come nevrosi e che interviene come una sorta di meccanismo. Per alcuni funziona proprio come un meccanismo. Pensate alla costrizione in alcuni casi del discorso ossessivo, una costrizione quasi meccanica a fare una certa cosa, in un certo momento. Tutto ciò è effetto di una struttura linguistica che si altera laddove si incomincia a interrogare questi significanti che costituiscono i postulati, ciò che io postulo, la base della mia teoria su cui costruisco il romanzo o di cui, quanto meno, il romanzo tiene conto.

I casi clinici di cui parla Freud - potremo già parlare di casi clinici per Anna O., per Emma V.R., i vari studi sull’isteria, fino a quelli rimasti celebri come tali - sono romanzi straordinari. Romanzi dove Freud racconta una storia muovendo, come spunto, pretesto, da un fallimento. In effetti, sono i casi non riusciti. Sappiamo di questi casi dove Freud non ha ottenuto ciò che immaginava di dover ottenere ma non sappiamo nulla, invece, di quei casi dove può aver incontrato un risultato.

Ma questo poco importa, interessa invece che proprio lì dove ha incontrato una maggiore difficoltà qualcosa si è scritto. Vale a dire, dove un significante che in altre occasioni filava via liscio, invece lì, rispetto a questi casi, ha trovato una difficoltà, un impasse. Qualcosa lo ha interrogato altrimenti. Ha dovuto rimettere in gioco la questione, interrogarla altrimenti.

Potremo anche dire che tutto sommato Freud non si è mai attenuto a una teoria freudiana, come avviene spesso: Lacan non è lacaniano, Freud non è freudiano. Risulta improbabile costruire una dottrina a partire dagli scritti tanto di Freud quanto di Lacan, ma soprattutto di Freud, in quanto non ha mai detto come debba condursi un’analisi, come debba formarsi un analista: non ha mai detto che cosa sia, in quanto tale, la psicanalisi. Dunque, non ha detto nulla che possa darsi come postulato per una teoria. In effetti, non casualmente, ciò che ha fatto seguito a Freud, ciò che possiamo chiamare il freudismo, ha posto come base, come fondamento, degli elementi e dei significanti, su cui ha cessato di interrogarsi. Li ha dati come acquisiti, come fossero, riprendendo il termine di Lucaks, realtà epifanica: qualcosa che si mostra di per sé. Questo è il freudismo. Evidentemente, Freud non ha operato in questo senso, anzi, ha lasciato ciascuna questione aperta, spalancata, al punto che molti dopo di lui, a partire da Jones, hanno dovuto darsi molto da fare per cercare di contenere, di arginare, di dare un impianto definitivo, quindi, di trasformare un’elaborazione, una ricerca, in una dottrina.

Come trasformare una ricerca in dottrina? Supponendo di aver trovato ciò che la ricerca andava cercando, per così dire. Come poter pensare questo? Immaginando che dei postulati corrispondano a una realtà stabilita, identica per ciascuno; anche quella ermeneutica, come dicevo prima, non cambia di una virgola la questione, nel senso che si fonda sempre su una mitologia.

 

Abbiamo iniziato a parlare del romanzo muovendo soprattutto da Freud. Romanzo come ciò che ciascuno scrive man mano che parla, che racconta, trovandosi a parlare e a scrivere in una lingua straniera, come i Celti che amavano le lingue latine. Romanice loqui era appunto per i Celti il parlare straniero. Di qui, poi, il termine romanzo.

Abbiamo preso il romanzo proprio come ciò che ciascuno va costruendo, va intessendo lungo un itinerario analitico o una psicanalisi, potremo anche dire. Cogliendo certamente degli aspetti particolari, aspetti che attengono propriamente all’analisi.

Il titolo che abbiamo dato era questo Il romanzo e la lettura della psicanalisi. Come si scrive un romanzo, come ciascuno incontra il romanzo lungo un’analisi: era questa la questione da cui eravamo partiti. Non quindi il romanzo come genere letterario. Anche ma non soltanto, perché tutto sommato ciascuno può accorgersi che lo sta scrivendo e che non cessa di scriversi, man a mano che parla, che racconta.

 

Potremo dire così. Alcuni significanti intervengono, quei significanti che indicavo prima come postulati come se avessero un significato non ulteriormente articolabile, come se dunque intorno a questi significanti potesse costruirsi un solo tipo di romanzo in quanto, ciascuna volta, costringono, anche se in varie riscritture, a un eterno ritorno, sempre alla stessa questione.

Freud nel saggio su Alcuni principi dell’accadere psichico fa l’esempio di colui che si trova continuamente costretto a bere, dice lui, l’amaro calice dell’ingratitudine, fino all’ultima goccia, come se ciascuna volta ogni circostanza della vita lo portasse a trovarsi di fronte a una terribile ingratitudine.

Questo esempio illustra in modo abbastanza preciso ciò che andavo dicendo.

C’è un significante, supponiamo che sia il termine ingratitudine, che resta come inarticolato ma creduto reale, assoluto. Allora, ciascuna volta, si costruiscono romanzi differenti, cioè, questa ingratitudine la trova una volta nella fidanzata, un’altra volta nel suo editore, nell’amico. Quindi, costruisce vari romanzi che però ciascuna volta lo riportano, quasi ineluttabilmente, in una sorta di maledizione, sempre allo stesso significante. È esattamente questo che intendevo dicendo che è possibile scrivere altrimenti, laddove questo significante, articolandosi, elaborandosi, perde questa connotazione di realtà epifanica, di verità assoluta e, quindi, perde la necessità di ricondurre ciascuna scrittura, ciascun romanzo, a quel significante.

Quando questo avviene e a quali condizioni?

Un primo gesto è quello che Freud indica con la sincerità, termine che ha una connotazione particolare per Freud, cioè il dire ciò che non sa di sapere, iniziare a dire ciò che non si sa di sapere.

Quando si incomincia a dire ciò che non si sa di sapere?

Può avvenire quando una persona ha esaurito di raccontare le cose che immagina di sapere. Allora, non sa più cosa dire e, quindi, si trova a parlare, a incontrare cose nuove, cose che non immaginava, cose che letteralmente non sapeva.

Ridare, dunque, a un significante una dignità: questa è la condizione perché una storia, un racconto, non cessi di scriversi. Certamente, ciascuna storia ha l’occasione di giungere all’infinito racconto ma perde questa chance se ogni volta sono obbligato, costretto, da una logica che ignoro, a ricondurlo a quel significante.

Freud dà una dignità a questo significante incominciando a interrogarlo. Comincia a sapere delle cose intorno a questo significante, come dire che questo stesso significante diventa a sua volta un romanzo, cioè, un racconto infinito che in nessun modo può essere posto come postulato, come punto fermo, come realtà epifanica e assoluta. È questo che il percorso che incomincia a fare Freud, inventando anche un’altra lettura. Lettura che sta sulla punta della scrittura. Le cose dicendosi si scrivono. Si scrivono perché le cose sono differenti da sé, lasciano una traccia che chiamiamo scrittura.

Leggere ciò che si scrive comporta ascoltare ciò che si dice. Un ascolto che non è semplicemente lo stare a sentire ma avvertire l’apertura dei significanti, l’infinita serie dei significanti che si incontrano parlando.

L’abreazione, di cui parla una certa psicanalisi, cioè ricostruire, abreagendo in modo cosiddetto corretto, ciò che lungo il percorso si è osservato. Anche nella vulgata il dire l’ho fatto inconsciamente equivale a dire L’ho fatto sbadatamente, ho fatto una stupidaggine. È l’inconscio come idiozia, qualcosa che va ricondotto alla norma.

Qui, invece, si parla di inconscio come idioma, logica particolare a ciascuno, non riproducibile né traducibile. Non c’è mai collettivo, come voleva Jung, per il quale l’inconscio è traducibile. Occorre riflettere sulla nozione di traduzione perché se l’inconscio è traducibile è come dire che è un’ipostasi, quindi, vuol dire cogliere gli elementi dell’inconscio come segni di qualcosa.

Da qui, come dicevo prima, avviene facilmente in vari autori un recupero di un certo occultismo che, appunto, si occupa di segni, di segni che devono essere tradotti. Ciascuna cosa, poi, diventa segno di qualcosa, come avviene anche talvolta nel discorso paranoico, dove ci sono segni certi che consentono la traducibilità. C’è traduzione ma non traducibilità.

 

L’inventio, éuresis, di cui parlava la retorica antica, il reperire gli elementi. La retorica ha detto anche delle cose curiose intorno a questo. La prima cosa da fare, dice, è reperire subito gli elementi, poi organizzarli nella dispositio, ecc. I latini con Quintiliano tradussero poi il termine in inventio. Ma l’invenzione già pone una distanza dalla creazione. La creazione è dal nulla, è noto. L’invenzione no, procede da qualcosa che c’è.

Ciascuno incontra l’invenzione laddove ciascun significante che incontra si altera, mostra un’altra faccia. Ciascun significante che interviene partecipa, quindi, dell’invenzione perché non è più quello di prima. Solo togliendo l’invenzione dalla parola può immaginarsi un linguaggio partecipato o partecipabile. Quindi, anziché un idioma abbiamo, per esempio, un dialetto che indica l’appartenenza a una comunità.

La questione è che l’invenzione non può togliersi. L’invenzione, insistendo, volge ciascun termine in un neologismo. Una cosa che non si era mai detta prima, mai in quel modo, mai in quei termini. Non c’è elemento che sia isolabile, perché non totale né totalizzante. Ciascuna volta è preso in una combinatoria, ciascuna volta è differente. È dalla combinatoria che ciascun elemento trae degli effetti di senso.

L’invenzione non può padroneggiarsi, non può gestirsi, ma si incontra. La si incontra ciascuna volta in cui qualcosa suona altrimenti da come si era previsto.

 

Propriamente, non è che ci sia un soggetto dell’invenzione. Il dire Me lo sono inventato ha qui una connotazione negativa, vale spesso come dire Non è da tenere in conto, è una stupidaggine. È come se fosse un discorso di second’ordine, che non ha nulla di reale. Però, Freud, che era attento a queste cose, coglieva subito, nei vari tentativi di cancellare, di togliersi da ciò che si stava dicendo, coglieva, invece, una sottolineatura di qualche cosa. Quindi, un enunciato come questo Me lo sono inventato esige quanto meno una riflessione. Forse, ciò che si è inventato, in quel caso, è molto più vero, per così dire, di ciò che si sarebbe detto attenendosi a questa realtà epifanica, così come in molti casi ciò che si dice, supponendo di non dire, è molto più vero di ciò che si dice immaginando di dire la verità.

Il dire Me lo sono inventato vuol dire che è intervenuto un pensiero che si suppone, alla prova dei fatti, falso e, quindi, va scartato, eliminato. Se è inventato è tanto più vero, cioè surdeterminato, sovrainvestito.

 

Propriamente non c’è qualcosa che si può inventare. L’invenzione di cui parlavo è un elemento strutturale ma che non attiene al soggetto, cioè sfugge alla padronanza. Non è possibile inventare ma c’è invenzione. Non attiene al criterio del possibile ma, forse, a quello dell’abuso, ciascuna volta. Abuso che interviene. La catacresi è la figura retorica che si indica come abuso. Lì c’è dell’invenzione, però, come padroneggiarlo, come controllarlo?

Non c’è scrittura pulsionale, propriamente. La scrittura procede dalla differenza, la differenza da sé del significante, la differenza sessuale. La scrittura pulsionale immagina un inconscio che scrive, in un modo un po’ animistico.