4 febbraio 1994
La questione morale è questione antica ma sempre presente. Ciascuno si chiede continuamente se ciò che fa è bene o male, qual è il criterio per cui fare o non fare qualcosa. Evidentemente è una questione che non può non considerarsi. Che ne è, dunque, di questa nozione lungo una pratica analitica? Trova il modo di elaborarsi, evidentemente. Elaborare qualcosa lungo un’analisi significa reperire le connessione, le implicazioni, che cosa le sostiene, quali sono le credenze connesse a questo termine, cosa può essere accaduto di supporre che questo termine significhi. La pratica analitica è una pratica alquanto strana, per lo meno quella che stiamo elaborando, non quella generalmente più diffusa, la psicoterapia, che è molto più normale.
Anche le nozioni di bene e di male vengono messe in gioco lungo una pratica analitica. Come dire che anche queste nozioni partecipano della parola, non sono fuori della parola. Questo vuol dire che non sono isolabili, che non è possibile porle in quanto tali, cioè come identiche a sé, immutabili, eterne, partecipate o partecipabili.
Pensare le questioni in questi termini è molto difficile in quanto mano a mano si prendono le distanze da tutti i termini comuni di pensiero, cioè i fondamenti del pensiero del discorso occidentale. Prende le distanze non perché si ripudiano per qualche motivo, non c’è nulla che viene ripudiato o cancellato o demonizzato. Semplicemente, si comincia a parlarne. Come dire che non c’è nulla di cui non si debba o non si possa parlare. Di che cosa non si deve parlare? Di ciò che deve rimanere identico a sé. Che cosa deve rimanere identico a sé? Ciò che deve essere creduto, creduto in quanto tale, identico a sé.
Mettere in discussione questi significanti, bene e male, significa trovarsi a discutere i fondamenti stessi del pensiero occidentale e dunque trovarsi a procedere senza fondamenti. Questo è ciò che accade immediatamente lungo questa pratica. Pensare senza fondamenti è il pensare senza potere ricondurre o avere qualcosa da ricondurre a altro. Non c’è nulla che possa ricondursi a altro, per renderlo noto, familiare, domestico, gestibile. Ma, se non posso ricondurre nulla a altro, ciascun elemento che interviene parlando è lì e non può essere ridotto o ricondotto a alcunché. Soprattutto, non posso azzerarlo, cancellarlo, ma continua a esistere. Non potendo ridurlo a qualche cosa d’altro, non posso non fare in modo che cessi di esistere, perché il ridurre un elemento a un altro è come dire “questo è quest’altro”, quindi questo cessa di interrogare, cessa di questionare, perché so che “questo è quest’altro”. Provate a togliere questa possibilità del linguaggio e trovate che ciascun elemento, in quanto non riconducibile, continua a interrogare. Dovunque lo sistemi, continua a questionare, continua a dire, a insistere, a sottolineare la propria presenza. In altri termini, non posso sbarazzarmi di questo elemento.
Sta in questo la nozione di lealtà. La lealtà nei confronti di ciò che si dice è proprio questo: non potere sbarazzarsi di ciò che si dice, cioè dei significanti che si dicono.
La sincerità, invece, è dire ciò che non si sa di sapere. È proprio questo che importa dire. Ciò che so di sapere o le cose che so di sapere corrispondono alle mie superstizioni, ai limiti. So di sapere, cioè so che è così: questo è già un limite, perché è così e non altrimenti?
C’è un aspetto in tutto ciò che rende conto anche del motivo questo risulta arduo a praticarsi. Ma ciascuno, a modo suo, tenta di recuperare, di ridurre, di ricondurre qualche cosa a qualche cosa d’altro. Se l’elemento non è riducibile o riconducibile a alcunché, accade che ci si ritrova di fronte a questo elemento in assoluta solitudine, una solitudine estrema, senza rimedio. Senza rimedio in quanto non posso partecipare altri di ciò che dico e penso, del modo in cui lo dico e in cui lo penso. Altri intenderanno altro rispetto a ciò che dico e, nei confronti di questo elemento, non potranno fare nulla per me, nel senso che quel significante, in quel modo, soltanto il mio discorso lo pone così, cioè esiste per me e per nessun altro.
Ora, questa solitudine estrema è qualcosa che introduce la nozione di responsabilità. La responsabilità che è in ciò che si dice, una responsabilità non penale, non una responsabilità nei confronti di terzi. Responsabilità in questa accezione: che di ciò che dico solo io posso rispondere, solo io posso dirne, dal momento che nessun altro sa quello che dico e quello che penso, in quanto per altri funziona in un altro modo, quello che dico viene ascoltato altrimenti. Ciò che dico viene inserito in altre combinatorie, produce altre fantasmatiche, altre eco, altre questioni, lontanissime dalle mie.
Come aveva rilevato in modo interessante de Saussure, ciascun significante acquisisce la propria portata, la propria valenza, per la combinatoria in cui è inserito. Da sé non significa niente. Questa combinatoria è assolutamente particolare a ciascuno e in ciascun istante. Per questo non c’è nulla che sia ripetibile in quanto tale.
La responsabilità lascia soli con ciò che si sta dicendo. Non c’è chi possa venire in soccorso, farsi carico di ciò che dico, di ciò che faccio, di ciò che accade. Che cosa si è inventato per ovviare a questo impossibile connesso alla parola, cioè all’impossibilità di significare, di fermare le cose, di renderle partecipabili e, quindi, di potere trovarsi in compagnia, anziché in solitudine, cosa si è inventato, dunque?
Si è inventato qualcuno che dovesse rispondere per tutti. Ma per rispondere per tutti occorre che sappia più di tutti, occorre che sappia esattamente come stanno le cose, anzi, che sia lui stesso a certificarle. Non si trovava nessuno fra i presenti che rispondesse a questo requisito e, allora, ecco tra gli assenti... anzi, tra chi è assente proprio per definizione, che non può mai essere presente in modo da evitare ogni possibile contatto o contagio nella parola. Al punto che si immagina che lui stesso sia il padrone della parola.
Questo personaggio, che risponde a questi requisiti, è differente a seconda delle fantasmatiche. Generalmente, è noto con il nome di dio.
Dio è colui cui ci si rivolge per avere il conforto, ma il conforto di che se non dall’incontro con la solitudine? Dio è colui che dice che non sono solo.
La locuzione “Dio è con noi” è nota, moltissimi l’hanno utilizzata. Anche il Foscolo, in un libricino sulla giustizia, si interroga su questa questione, cioè sulla funzione di dio, delle religioni, come cioè ciascuno sia costretto, per potere reperire e mantenere il consenso, a ricorrere a un’entità superiore, qualcuno che non sia possibile interrogare direttamente.
Invece, nell’Antico Testamento questo non avveniva. Giobbe, infatti, si rivolge direttamente a dio e con lui ha un colloquio.
La vicenda di Giobbe è narrata in uno dei libri poetici della Bibbia, insieme al Cantico dei cantici. Qual è la questione in Giobbe, di che cosa si lamenta Giobbe? Che dio lo ha abbandonato. Stessa questione che indicavamo rispetto a alcuni teologi ebrei, non ultimo Hans Jonas nel suo Principio di responsabilità o il libello su Dio dopo Auschwitz. Insiste su questa eventualità, che dio ci ha abbandonato. Se dio ci ha abbandonato è una tragedia. In questo caso, Giobbe teme di essere stato abbandonato da dio e si chiede quale crimine possa avere commesso per meritare una simile punizione. Passa in rassegna tutte le cose che ha fatto, non ha fatto altro che del bene a tutti quelli che incontrava. Apparentemente, non c’era nessun motivo. E, quindi, si rivolge a dio molto seccato. Si chiede cosa è successo per meritarsi un simile flagello e, non avendo commesso nulla di male, se la prende moltissimo. Gli amici lo rimproverano dicendo che lui è molto arrogante a prendersela con dio, perché qualunque cosa dio faccia, evidentemente, ha dei motivi che a lui sono ignoti. Ma, quando poi si rivolge a dio direttamente, dio gli dice che lui è più forte, che è più forte di Giobbe. Giobbe non può fermare la pioggia, fermare il terremoto, le acque, tutte le cose che avvengono. Quindi, non può stare lì a lamentarsi tanto perché dio è più forte e fa quel che gli pare.
Questa è una questione interessante perché il dio degli ebrei è un dio terribilissimo che minaccia continuamente catastrofi e che tiene gli ebrei tranquilli e mansueti sotto il giogo della catastrofe. Ogni tanto manda qualche piccolo olocausto tanto per ricordare loro di fare attenzione a quello che fanno. Ma la questione è sempre questa: un dio straordinariamente potente, forte, terribile, che non soltanto ha il dominio su tutto ma lo esercita in modo violento. Si pongono due questioni.
Una è questa del diritto del più forte, l’altra è quella dell’abbandono. Dio abbandona gli umani e, allora, che cosa succede, qual è la catastrofe? Che le cose cessano di avere un senso. Se non c’è più dio che garantisce il significato delle cose, perché lui ha un suo disegno, allora tutto perde di significato, di senso, tutte le cose avvengono così, per niente. E allora io vivo per niente, la mia vita è niente. Considerazioni a cui alcuni erano arrivati, come gli stoici ad esempio.
L’abbandono è la perdita qui totale e irreversibile del senso delle cose, in definitiva del significato che io ho della mia esistenza.
A torto Nietzsche diceva che se dio è morto tutto è permesso. No, tutto è permesso solo se dio è vivo. Allora, sì c’è il permesso di fare, c’è una proibizione, ecc. Se dio non c’è, non c’è né il permesso né la proibizione.
Si tratta di una responsabilità che non ha nulla a che fare con il bene e con il male ma con il non potere tenere conto di ciò che dico e di ciò che faccio. Vale a dire, non posso più fare come se non avessi detto, fatto, ciò che ho detto o fatto.
Questa è la responsabilità di cui si tratta in un’analisi. Una persona dice una cosa: è questo che ha detto e è con questo che occorre che si confronti. Prendete il caso del lapsus: “Non volevo dire questo!”. Certamente questo non lo voleva dire, però l’ha detto e è questo che importa. Cosa volesse dire non lo sappiamo, ci atteniamo a ciò che ha detto, sempre. Questo, in effetti, può dare molto fastidio, essere costretti a attenersi a ciò che si dice. Provate a farlo con qualcuno e subito si arrabbierà moltissimo, dicendo che non si può sempre prendere tutto alla lettera. E, in effetti, non è possibile. Solo gli psicotici ci riescono, prendono tutto alla lettera da essere, per l’appunto, insopportabili. E è per questo che vengono isolati. Prendono alla lettera in un modo drammatico. Prendere alla lettera non è un obbligo morale, è un modo per darsi una chance, per accorgersi di ciò che si sta dicendo. È noto come in alcuni casi si dicono delle cose che in altre circostanze non si direbbero. Per esempio, quando si è molto stanchi, arrabbiati, sbronzi - qualcuno diceva, ai tempi di Freud, che il super-io è l’unica istanza solubile in alcool. Ci sono delle condizioni in cui si dicono cose che in altre circostanze non si sarebbero dette. Qualcuno si arrabbia moltissimo, fa una sfuriata, poi tutto mesto chiede scusa “sai, ero talmente arrabbiato che ho detto ...” quello che pensava evidentemente, che invece non avrebbe detto se non fosse stato arrabbiato, si sarebbe trattenuto dal farlo. Questo è un esempio molto banale ma appena per dimostrare come accade ininterrottamente di dire ciò che si pensa, di dire quali sono le questioni che ci riguardano senza accorgersene, senza avere l’opportunità e gli strumenti per accorgersene. Tant’è che ciascuno, che lo sappia o no, che lo voglia o no, parla continuamente di sé, dice le questioni che lo riguardano, che lo angosciano, che lo spaventano, che lo inquietano, che lo interrogano ininterrottamente senza accorgersene.
Perché non se ne accorge? Non se ne accorge per un motivo semplicissimo, che attribuisce a tutto ciò che dice un significato che sta altrove. Significato che può essere un referente, cioè dico delle cose e ciò che dico si riferisce per esempio alle cose che descrivo. Dunque, non mi riguarderebbero. Se parlo di questo aggeggio, parlo di questo, non di me. Ma c’è l’eventualità che parli di quell’aggeggio per parlare di me o comunque di cose che mi riguardano, di cose che non posso tacere.
Le cose si dicono comunque, che io lo sappia o no, che io lo voglia o no. Posso all’occasione accorgermene. Ma le cose si dicono. Se non fosse così, Freud non avrebbe avuto l’occasione di inventare la psicanalisi perché non avrebbe avuto alcuno strumento per ascoltare nulla, per intendere nulla. D’altra parte, lungo un’analisi l’unico strumento di cui è possibile disporre sono le parole di chi sta parlando, non c’è niente altro. Anche un gesto, una condotta, una dimenticanza, qualunque cosa, dà effetti di senso in quanto ne parla, in quanto ne dice. Se non ne dice nulla, io non ne so nulla, né perché abbia fatto un gesto, né perché abbia dimenticato, per esempio, di venire all’appuntamento. So che non è venuto all’appuntamento, non so più di questo. Posso immaginare che ci sia una questione connessa a questo, ma finché non me ne parla posso fare tutte le congetture che mi pare. Posso immaginare qualunque cosa e il suo contrario. Soltanto la persona in causa può dirne.
La responsabilità è ciò che consente a ciascuno di accorgersi di ciò che sta dicendo e, quindi, delle questioni che lo stanno interrogando. Togliete la responsabilità da ciò che si dice e ciascuno non ha più niente. E, quindi, dovrà arrabattarsi per racimolare attorno sé qualche cosa per potere supporre di avere qualcosa. Ma qualunque cosa supporrà di possedere non sarà mai sufficiente. Non potendo disporre delle proprie parole, non potendo disporre di ciò che dice, non può disporre di nulla. Come mai?
Cos’è il disporre di ciò che si dice? È non potere ascoltare, è il non potere confrontarsi con ciò che sta dicendo. Quindi, non sa ciò che dice, né perché, né donde venga ciò che sta dicendo, né che cosa comporti, che cosa implichi, né di fatto che sta parlando. Non si accorge che sta parlando, con tutto ciò che questo comporta. Di cosa si accorge? Di niente. È soltanto travolto da un fiume di parole e di pensieri, di cui non sa nulla e che è inarrestabile. È sballottato, letteralmente, fra i suoi pensieri: prima pensa una cosa, poi un’altra, poi il contrario di questa. Ogni volta o crede fermamente a ciò che sta dicendo oppure in preda al dubbio non sa mai da che parte girarsi. Questo avviene con una certa frequenza.
Ma c’è un altro modo di porsi, dove non si tratta di controllare le parole, non c’è modo di controllare le parole.
Non c’è controllo sulla parola. Gli oratori sono duemila anni che ci provano a controllare le parole, quindi, a persuadere. Non c’è modo di persuadere. Non sono riusciti a persuadere.
La questione del plagio è antichissima. Non esiste il plagio. Nessuno può essere plagiato se non per ciò che già di per sé desidera fare. Si dice “questo tizio è plagiato in quanto fa questa cosa che quell’altro gli ha suggerito”. Ma se gliene avesse suggerito un’altra, non funzionava affatto.
Il plagio sarebbe il colmo della persuasione, sarebbe la persuasione riuscita. Ma non si verifica. Per alcuni è un malanno incalcolabile perché se riuscisse la persuasione sarebbe totale, sarebbe il controllo sulla parola.
L’unico plagiatore autorizzato è dio e, in sua vece, lo stato.
Ci sono ultimamente molte voci che insistono sulla necessità di tutelare tutto, tutelare i cittadini, tutelare i minori, tutelare i maggiori, cioè tutelare tutti perché ciascuno è potenzialmente incapace e, quindi, soggetto a potere essere soggiogato dalle menti terribili che ci sono in circolazione.
Questa fantasia dice che ciascuno è potenzialmente plagiabile e ciò comporta che ciascuno deve essere tutelato, perché se non comportasse questo non interesserebbe a nessuno che uno sia plagiato o no.
Quando c’è l’accusa di plagio? Quando qualcuno segue il suggerimento di altri anziché il mio. In questo caso è plagiato. Se, invece, segue il mio, allora non è plagiato, è ragionevole.
L’unico autorizzato al plagio totale è dio. Soltanto chi è padrone della parola può governarla e, quindi, dire qual è la parola vera e quella falsa. Perché è poi questa la questione.
Chi può plagiare in modo definitivo? Chi conosce la parola vera. Gli altri sono plagiatori di terz’ordine, come i sofisti per Platone e per Aristotele, cioè persone che giocando con le parole facevano sembrare vero ciò che vero non è, utilizzando il verosimile. Mentre la parola vera è quella che soggioga necessariamente. Di fronte alla verità assoluta non è possibile fare altro che acconsentire. Da qui la potenza del sillogismo scientifico di Aristotele e da qui la suggestione che produce la scienza che si immagina che lavori con il vero. Ma questo comporta la certezza che sia possibile la parola vera, quella definitiva, quella ultima, perché non si può aggiungere altro sulla parola vera; altrimenti, sarebbe più vera del vero, per cui si va all’infinito e non se ne viene più fuori. Quindi, occorre che ci sia l’ultima parola, quella che costituisce l’arresto definitivo. Difatti, la parola di dio non può essere messa in discussione. Viene fatto, sì, ma solo dagli eretici.
Oggi gli eretici non sono più di moda ma il papa oggi sta dando un contributo in questa direzione, cioè a produrre il bisognoso, l’instabile, lo psicolabile, l’incapace. Quindi, deve essere continuamente corretto, bisogna evitargli di guardare certi spettacoli alla televisione, non deve leggere certe cose, non deve fare tutta una serie di cose, perché altrimenti si turba.
La questione è che l’operazione che sta avvenendo, di cui la vicenda tangentopoli è un aspetto, è quella di porre le condizioni perché ciascuno si senta in qualche modo incapace e, quindi, bisognoso di tutela.
C’è l’edificazione della repubblica dell’incapace. Se ciascuno è incapace, ciascuno deve essere tutelato. Da chi? Da nessuno, naturalmente, ma si crea ciascuna volta il plagiatore. È un’operazione demonologica. È il diavolo, in effetti, che plagia. Diavolo incubo o diavolo succubo, a seconda di chi sta di sopra o di sotto. Una volta, dovete sapere, i diavoli incubi indemoniavano le fanciulle possedendole e i diavoli succubi indemoniavano gli uomini facendosi possedere.
Fra la scienza e la retorica c’è la stessa distanza, la stessa questione che passa tra dio e il diavolo, cioè tra la parola vera e la parola verosimile. La parola verosimile è la parola che inganna, la parola vera è la parola che non inganna ma dice come stanno le cose. La retorica dice il verosimile, quindi, fa apparire ciò che non è. Così come il diavolo, che ha sempre fatto questa operazione: come una sorta di prestigiatore, fa apparire il falso. Il diavolo mente. La parola del diavolo non è integra, non è tutta. Allora, di volta in volta c’è chi rappresenta il diavolo. Questa demonologia è ricorrente da sempre. La demonologia indica qual è il luogo del male, della parola falsa e ingannatrice. Naturalmente, sempre contrapposta a quella vera.
Ma questa operazione su che cosa fa leva? Sul fatto che, se da una parte c’è la parola vera e dall’altra quella ingannatrice, allora, ciascuno non è responsabile perché la parola vera non gli appartiene, altrimenti sarebbe dio. E, quindi, è sempre in debito nei confronti di chi detiene la parola vera. Come dicevo prima, dio o, in sua vece, lo stato. Lo stato come l’istanza in cui si manifesta la suprema etica e, quindi, la suprema possibilità per l’uomo di distinguere il bene dal male e, dunque, il vero dal falso. Rispetto a questo ciascuno è in difetto, ciascuno è bisognoso di sapere da altri qual è la parola vera.
Così avviene e così ciascuno è sbarazzato di questa responsabilità, rispetto a cui sarebbe assolutamente solo. Cosa fa chiaramente lo stato o dio, a seconda dei casi? Dicendo la parola dice la parola che, in quanto tale, è partecipata e partecipabile. Dunque, instaura la compagnia e, pertanto, non sono più solo, tutti pensano come me, tutti credono come me, tutti sanno come me che là c’è il vero e di là c’è il falso.
Questo è il motivo per cui gli umani sono facili a essere persuasi, tutto sommato. Perché è esattamente questo che cercano, cioè di essere persuasi che sia possibile per loro che qualcuno si faccia carico della responsabilità di ciò che dicono. Togliere questo, lasciare ciascuno nella sua responsabilità, è ciò che mette in atto la psicanalisi. Non senza qualche difficoltà.
La difficoltà sta nell’accorgersi che, mentre si parla, si sta parlando, con tutto ciò che questo comporta, quindi, le torsioni, le implicazioni, le variazioni, le alterazioni che intervengono. Una difficoltà insormontabile, evidentemente, che non è toglibile perché non c’è la parola vera, la parola tutta. Solo questo potrebbe togliere la difficoltà, in quanto arresterebbe questo percorso. Ciascuna volta non trovo l’ultima parola, ciascuna volta mi trovo a dire altro, a aggiungere altro. Freud diceva che l’analisi procede per supplementi.
Il supplemento è propriamente ciò che deborda rispetto alla parola. Dico qualcosa e, adiacente a quello che dico, compare un altro elemento, un elemento imprevisto, imprevedibile, che comporta una variazione, un’altra direzione, comporta un pleonasmo, un’eccedenza: volevo dire una cosa ma si aggiunge un elemento e allora devo dire anche questo e poi quest’altro e così via, non riesco mai a chiudere.
La supposizione è che possa darsi, che esista, l’ultima parola, quella che chiude. È la parola mortale, quella che uccide.
Contrariamente a quanto volevano gli antichi, i Padri della Chiesa, e a quanto dice oggi il catechismo e cioè che la parola vivifichi, cioè porti la vita. Da dove viene questa idea? Perché se è l’ultima parola, la toglie, cioè non lascia più nessuna chance, nessuno scampo. Allora, come risolvere il problema? Semplicissimo, la vita vera non è questa, è quell’altra.
Dunque, ciascuno sarà vivificato da questa parola in un’altra occasione.
La mitologia che esiste intorno alla scienza campa di questo, della supposizione che la scienza dica la verità. Non si è mai capito il motivo per cui ci sia questa supposizione. Alcuni hanno contribuito a questa supposizione, immaginando che il calcolo numerico risponde alle regole che gli sono state date, allora, siccome questo calcolo è applicabile a certi fenomeni, la supposizione è che questi fenomeni siano loro a rispondere e quindi a essere traducibili, anzi, a essere fatti propriamente di numeri. Parafrasando Galilei, l’universo è fatto di numeri, i tratta di trovare il metodo giusto per leggerlo.
È la stessa questione della religione: esiste una verità assoluta, totale, quella che costringe tutti all’assenso, quella di fronte a cui ciascuno non può non inchinarsi, quella che non lascia scampo.
Questa supposizione, questa credenza, che sbarazza ciascuno della propria responsabilità e lo mortifica letteralmente, lo fa morto, lo fa morto rispetto a ciò che dice, quindi, non in condizione di poter avvantaggiarsi, di potere giovarsi di ciò che dice, della libertà e della ricchezza che c’è in ciò che dice.
La legge è il criterio attraverso cui è possibile stabilire la distanza di ciascuno dall’ultima parola. Perché tutto ciò sia possibile occorre che ci sia la credenza in tutto ciò, che si creda fermamente perché ci sono vantaggi. Un vantaggio è quello di immaginare di essere in compagnia e, quindi, di poter non essere soli di fronte a ciò che si dice, di fronte alla parola. Quindi, immaginare che da qualche parte ci sia la risposta. Mentre è ciò che dico che risponde continuamente. Non va da sé che me ne accorga.
Non è così semplice poter stabilire ciò che si sa. È sufficiente domandarsi come so di sapere per avvertire una difficoltà connessa al sapere. Ciò che so è qualcosa che, per essere tale, deve essere identico a sé.
È possibile sapere? A quali condizioni è possibile sapere? L’oggetto del sapere è qualcosa di identico a sé oppure non è identico a sé, nel senso che è preso nella continua trasformazione, non posso fermarlo. In questo caso, non so perché non posso fermarlo, localizzarlo. E allora deve essere necessariamente identico a sé. Ma qui sorgono altri problemi. Come so che è identico a sé? Sono questioni che hanno occupato molti per diversi anni, soprattutto ultimamente i linguisti che hanno dovuto lavorare con questi elementi proprio per potere stabilire dei fondamenti su cui muoversi. Ecco che allora, immaginare che qualcosa possa darsi come identico a sé può accadere soltanto per una decisione, perché io stabilisco che è così. È un atto arbitrario dal momento che non ho nessuno strumento per stabilire che qualcosa è identica a un’altra e che, quindi, possa essere confrontabile, se non altro con se stesso. La questione dell’identità è molto complessa. I peggiori paradossi della matematica procedono dalla questione della autoreferenzialità, cioè dal fatto che un elemento è richiesto di dimostrare se stesso, vale a dire di porsi come identico a sé. Ma non lo può fare lui, devo farlo io al suo posto, ma, facendolo io, intervengono altri elementi che con lui non hanno nulla a che fare. Da qui una questione tutt’altro che marginale e cioè che le cose non rispondono propriamente. Questione antica “che cos’è questo?”. Il che cos’è pone questioni interminabili, per cui non c’è nessun criterio, nessun modo per potere stabilire un’identità. Neanche in matematica. Quando Peano scrive che A = A, questo segno di uguale a che cosa è uguale, con che cosa posso confrontarlo? È uguale a qualcosa? Ci si imbatte in un’aporia, è impossibile stabilire un’uguaglianza al segno uguale. Dunque, è il colmo della differenza.
Questioni logiche anche che insorgono inevitabilmente laddove si tenta di stabilire un’identità, al punto che l’unica chance per potere immaginare è che un elemento sia fuori della parola. Se è fuori della parola, allora, non è travolto dalle trasformazioni, dalle alterazioni, dalle variazioni che intervengono parlando. Ma come posso porlo fuori della parola e continuare a considerarlo? In nessun modo.
La metafisica è stato un tentativo colossale, immenso e sofisticatissimo per risolvere questo problema. Ma resta che di ciascuna cosa mi trovo a parlarne e, parlandone, sono preso in questi effetti della parola.