HOME 

 

LA FORMAZIONE DELLO PSICANALISTA

 

1 ottobre 1994

 

Il tema di questa serie di incontri è “La formazione dello psicanalista”.

Questione complessa su cui molto si è dibattuto sin dai tempi di Freud.

Psicanalista come colui che pratica una psicanalisi.

Quindi, occorre forse accennare a cosa debba intendersi con psicanalisi. Questione che non va da sé.

Freud, insieme con Anna O., chiamò questa pratica talking cure, cioè una cura di parola, che avviene lungo la parola. Perché di fatto ciò che avviene lungo una psicanalisi è essenzialmente questo: si parla.

Da qui una serie di riflessioni che sono intervenute da parte di Freud stesso, di Lacan e di altri intorno alla parola.

La parola come atto, anzi, potremmo dire l’atto, ciascun atto, come propriamente atto di parola.

Intorno a questo potremmo dire alcune cose, così come preliminare.

Intanto questo. Esiste una proposizione che non può negarsi o confutarsi salvo negare la possibilità stessa di confutare?

Potrebbe essere questa: gli umani parlano.

È un enunciato molto semplice ma anche molto bizzarro, perché non è verificabile. Non è verificabile in quanto qualunque verifica si rivelerebbe una petizione di principio, cioè per verificarlo occorre parlare e quindi dare per acquisito ciò stesso che si deve provare. Non è nemmeno falsificabile, con buona pace di Popper. Non è falsificabile nel senso che, per falsificarlo, occorre dire e dicendo si conferma ciò stesso che si deve falsificare. E non sarebbe neanche una proposizione per i logici, perché una proposizione occorre che possa sottoporsi a un criterio verofunzionale. Ma come sottoporre questo enunciato a un criterio verofunzionale, ché in entrambi, sia nel caso che io dica che vera o che io dica che è falsa, comunque devo dire. E, quindi, mi trovo ancora al di qua della possibilità di dire che è vera o falsa.

È uno strano enunciato, dunque. E molto curioso. Che, tuttavia, può indurre a alcune riflessioni. Una di queste è che non c’è modo di uscire dalla parola.

Cosa implica tutto questo? Cosa comporta? Ché c’è l’eventualità che abbiano dei risvolti queste considerazioni. Tanto più che in una psicanalisi si fa essenzialmente questo, si parla. Ma come si parla? E cosa comporta il tenere conto di questo aspetto, che non c’è uscita dalla parola?

In ciascun istante, in ciascun momento, in qualunque cosa io faccia o non faccia, io dica o non dica, pensi o non pensi, tutto questo avviene tenendo conto della parola. Intendo qui con parola propriamente l’atto per cui gli umani possono definirsi tali. Dico “possono” perché senza la parola non possono definirsi in nessun modo. Vale a dire, tutto ciò che interviene ogni volta che parlo, che penso, che faccio, come eco, come immagine, come implicazione, come risvolto, come scena. Tutto ciò è imprescindibile. Qualunque cosa io faccia oppure non faccia.

Ecco che se praticare la psicanalisi è tutto ciò, allora è essenzialmente questo: un itinerario dove ho l’occasione di accorgermi, constatandolo, di ciò che accade mentre parlo. Ciò che accade mentre va molto al di là di quanto solitamente suppongo. Una marea di implicazioni, di risvolti, di scene, delle eco che intervengono mentre parlo.

Accorgersi di questo non è semplicissimo. In ciascuna dottrina, anche quella psicologistica o molto spesso quella psicanalitica, va in una direzione che esattamente opposta. Intendo dire che ciò di cui sto parlando è un itinerario intellettuale che nulla ha a che fare con un itinerario sentimentale, come invece viene generalmente inteso. Itinerario sentimentale dove si tratta di mettere in gioco delle emozioni indicando quali sono quelle giuste, qual è l’emozione giusta da provare in quella circostanza, perché quella che prova questo signore è eccessiva oppure troppo poco.

Un itinerario intellettuale dove ciò di cui si tratta è il porre le condizioni perché ci sia formazione.

Un itinerario intellettuale, che prende le distanze dall’addestramento, addestrare a interpretare, addestrare a comprendere. Ciascun addestramento ha la struttura del metodo indicato da Pavlov, stimolo e risposta: quando c’è una certa cosa io devo fare quest’altra.

Ciò che stiamo indicando qui non ha nulla a che fare con questo. Nulla a che fare con l’addestramento.

Un itinerario intellettuale è tale perché si pone come una ricerca, un’elaborazione, un’analisi intorno a ciò che accade parlando.

In effetti, l’analista non interpreta assolutamente niente, cioè non volge una cosa in un’altra ma lascia che questa cosa possa esistere e come tale costituire un elemento intorno a cui riflettere.

Se una persona dice una cosa, una cosa qualunque, e io dico che questa cosa che dice vuole dire quest’altra, al di là del fatto che tutto ciò non significa assolutamente nulla, tolgo, elimino ciò che ha detto questa persona costringendola a accogliere quest’altra cosa. Quindi, la cosa che ha detto scompare, non esiste più, esiste quella che dico io. Questo è il sistema dell’addestramento.

Ma c’è l’eventualità che non sia necessaria questa operazione, a meno che non si vogliano addestrare le persone. Non soltanto, impedisce totalmente a questa persona di poter confrontarsi con ciò che sta dicendo, in quanto, come dicevamo prima, ciò che dice scompare, non esiste più.

È, invece, propriamente questo che interessa, ciò che si dice, il modo in cui si dice. Il modo di intervenire rispetto alla parola è il porla in evidenza, è il sottolinearla. Non “dice questo ma voleva dire quest’altro”. No, ha detto questo, proprio questo, niente altro che questo e, dunque, è con questo che occorre che avvenga il confronto.

Un itinerario intellettuale in questa accezione, cioè come ricerca scientifica, ricerca proprio nel senso di un “andare intorno” a ciò che accade parlando, è ciò che consente di cogliere i risvolti, la portata, la ricchezza della parola. Ma anche la sua sovversione.

Se io non compio questa operazione di riconduzione di un enunciato a un altro, che ne è di questo enunciato?

Resta in sospeso, non trova un significato, non trova nessuna collocazione, ciò che avverto immediatamente l’interrogazione che comporta, la domanda che insiste in questo enunciato. L’interpretazione, in qualunque forma essa sia, toglie questa domanda, dice “ah! ecco, voleva dire questo!”.

Se non si compie questa operazione la domanda insiste. E allora cosa fare di questo enunciato? O che ne è di questo enunciato?

Continua a interrogare, continua a dire, non cessa di questionare. E qualunque significato io possa attribuirgli, questo significato resterà inadeguato, insoddisfacente, tant’è che ciascuno può darsi continuamente, e se le dà, delle risposte alle domande che incontra lungo il suo cammino.

Questa domanda che insiste non lascia tranquilli, qualcosa continua a questionare. Ma, continuando a questionare, toglie la possibilità che io possa reperire l’ultima parola. L’ultima parola è quella che vorrebbe chiudere il discorso, chiudere la questione, per cui so esattamente di cosa si tratti, per esempio per quanto mi riguarda.

Ma ciò che in qualche modo già Freud aveva ovviato è questo, un itinerario in cui la questione è sempre aperta, è sempre lì. Non c’è soluzione. Non a caso avevamo indicato proprio nella parola “analisi”, prendendola nel suo etimo analysis, l’assenza di soluzione. Non c’è soluzione, non c’è l’ultima parola. Questa è la fortuna, come dire che ciascuna volta c’è un altro elemento che si affaccia, c’è un altro rilancio. E la risposta non è altro che un rilancio della questione, qualunque sia la risposta.

È questa la fortuna.

Allora, porre la formazione dell’analista in questi termini è accogliere la portata sovversiva che è nella parola. Perché sovversiva?

Perché non rientra in nessuna codificazione, in nessuna significazione, non si accomoda in nessuna casella, non si sistema da nessuna parte. Dovunque la mettiate deoborda, continua a dire e in alcuni casi a urlare. Non si arresta, mai soddisfatta, mai tranquilla. Nella parola c’è un’inquietudine inarrestabile, che indicavo come intellettuale. Intellettuale in questa accezione: che costringe a dire, quindi, costringe a riflettere, costringe a a aggiungere altro. Impedisce di accomodarsi in una risposta immaginata definitiva, tranquilla, rilassante. Costringe a pensare e, quindi, a dire. In questo senso questa inquietudine è intellettuale.

La psicanalisi costringe a dire e, pertanto, a pensare.

Non si tratta soltanto di cessare di credere, credere in qualunque cosa. Questo già i sofisti avevano dato un notevole contributo, mostrando la corda di qualunque credenza, di qualunque certezza.

Ecco la questione religiosa. La questione non attiene soltanto alla chiesa. La chiesa si limita soltanto a un aspetto, quello più folcloristico.

La questione religiosa è la questione che ciascuno incontra laddove immagina che esista o debba esistere la verità, il bene o qualunque altra cosa.

Anche la dottrina legata alla scienza, anche quella più recente, insiste su questa questione, cioè sulla necessità della verità come causa. Anche se naturalmente non è raggiungibile, tutti gli sforzi, magari di falsificazione, devono muoversi in quella direzione, cioè la verità come causa.

E se la verità fosse un effetto? C’è questa eventualità, che si produca come effetto del dire.

La verità come causa è sempre una verità accomodante, che giustifica, in nome della verità o del bene o della giustizia, può farsi qualunque cosa e il suo contrario.

Così come è possibile dimostrare qualunque cosa e il suo contrario, non è difficilissimo.

Questo dove ci conduce?

Dicevamo della credenza. Il credere è il modo per potere immaginare che qualcosa debba essere così, almeno provvisoriamente, almeno per un pò deve essere così. Perché se no, cosa succede? Non succede assolutamente niente, ma ciò che succede è l’eventualità di trovarsi a dovere continuare a dire e a pensare.

Laddove ciascun elemento è messo in gioco, messo in gioco linguistico, si instaura un percorso che non ha a che fare con il dubbio, almeno quello cartesianamente inteso. Possiamo parlare del dubbio in un’altra accezione, nel senso del due, della dualità delle cose che non può togliersi.

Dicevo tempo fa in modo un po’ parodistico di non avere né dubbi né certezze. Non avere dubbi nel senso che ciò che dico è quello ciascuna volta e non altro. Né certezze perché ciò che dico non certifica assolutamente niente. È qualcosa che si pone lì in quel momento, così com’è. Che impone un confronto. Confrontarsi con ciò che si pone è questo: cogliere ciò che si dice e accoglierne gli effetti, gli effetti che si danno per me, gli effetti di senso, di verità.

Come si forma uno psicanalista? Se abbiamo preso le distanze dall’addestramento pavloviano, come si forma dunque?

Si forma lungo una ricerca intorno al proprio discorso. Non c’è chi lo formi, cioè non c’è chi compie questa operazione. C’è chi può porre le condizioni perché ciascuno avvii un itinerario intellettuale, cioè una ricerca intorno al proprio discorso lungo cui avviene la formazione.

Perché ci sia formazione occorre ci sia analista. Non c’è formazione senza analista.

Parafrasando Lacan che diceva “L’analista, non chiunque, si autorizza da sé”, possiamo che perché ci sia formazione occorre che ci sia analista.

L’analista è colui che lascia che ci sia ascolto nel proprio discorso, che può consentirsi che lungo il proprio discorso ci siano degli effetti, che può lasciare che ciò che dice produca dell’altro. In altri termini, che ci sia poesia, letteralmente, in ciò che dice. Poesia come produzione.

Interpretando, riducendo, trasferendo una cosa a un’altra, non c’è nessuna produzione. Ché se suppongo che ciò che dico voglia dire quest’altro, la cosa è termina lì, la questione è chiusa. Posso acconsentire oppure no, certamente, ma se acconsento c’è l’eventualità che io creda che sia proprio così.

L’addestramento degli psicanalisti o degli psicoterapeuti avviene in questi termini: è un apprendimento di un codice di interpretazione, neanche dei più sofisticati, dove a ciascun elemento che interviene si affianca un altro, nel senso che “se c’è questo, allora vuol dire quest’altro”. Per cui si suppone che ci sia la buona interpretazione e la cattiva interpretazione.

Non ha alcun senso parlare in questo senso né ha alcun interesse.

Se voi leggete i manuali di psicanalisi, c’è una letteratura sterminata di psicanalisi, potete verificare che un grandissimo rilievo occupa la questione dell’interpretazione, del come interpretare, del come interpretare in modo corretto. Interpretare in modo corretto sarebbe l’antica adæquatio rei et intellectus, cioè l’adeguamento corretto. In questo caso, ciò che si interpreta è ciò che realmente è. In altri termini ancora, “la persona dice questo, però di fatto la questione che sta ponendo è un’altra, di fatto l’enunciato corretto sarebbe un altro, quello che io gli indico, quello cui occorre che si attenga”.

In che cosa differisce tutto ciò dall’addestramento? Nulla. Solo che l’addestramento, come quello militare per esempio, è più esplicito. In questo caso, invece, ciò che ammanta tutta l’operazione sarebbe il bene dell’altra persona, che non sa, che è ignara e, quindi, va istruita.

Sapete dell’intervento ultimo di Popper sui pericoli della cattiva istruzione - lui parlava della televisione, ma la questione è stessa. La buona istruzione e la cattiva istruzione. Quando è buona? Chiaramente, quando ha fini buoni. E quali sono i fini buoni? I miei naturalmente. Non c’è alcun dubbio a questo proposito, quello che io ritengo tali. E posso pensare anche di più, che chi non si accorge di questo principio fondamentale, di questa verità prima, o è malato, o è in cattiva fede o è ignorante e allora va addestrato.

Non c’è nulla di sorprendente in tutto ciò, ha sempre funzionato così. Da tremila anni e funziona perfettamente. Non si è mai cessato di credere e ha sempre funzionato. Quindi, se ha sempre funzionato, perché darsi tanto da fare? Perché non possiamo cessare di parlare, quindi, di dire, di interrogare. Solo per questo. Null’altro ci muove all’infuori di questo.

Nessuna crociata, nessuna individuazione del bene o del male, o di qualunque altra cosa, della giustizia, della verità.

Il bene, come la verità, la giustizia, sono in prima istanza dei significanti. Come tali hanno effetti di senso, che possono essere interrogati.

Ciò di cui man a mano, soprattutto la linguistica ma anche la logica per altro verso, non senza una certa inquietudine ha incominciato a intravedere: è che non c’è nessun modo di arginare gli effetti della parola, di contenerli, di indirizzarli, di gestirli, di isolarli.

Ecco allora il problema arduo, per chiunque intenda gestire altri, a qualunque titolo e per qualunque motivo, di avere un controllo o tentare un controllo sulla parola. E lo si può fare, lo si può tentare, talvolta con buoni risultati, attraverso l’instaurazione del luogo comune.

Il luogo comune è una formulazione potentissima, che ha la capacità di attrarre a sé e di annullare ogni interrogazione, ogni domandare.

Già le annotazioni di Aristotele nei Topici sono molto precise intorno a questo. Funziona. Funziona chiaramente apparentemente, fino a un certo punto. Se si fosse trovato il modo di farlo funzionare, gli umani sarebbero mossi in un’unica direzione, da cui non si sarebbero mai più scostati. Questo non è mai avvenuto, né c’è l’eventualità che mai accada.

Tuttavia, lo si può pensare, lo si può credere. Ed è ciò che avviene. Non c’è nulla di male in tutto ciò. Ma ciò non impedisce che altri possano proseguire, trovare anche piacere nel proseguire, nell’incontrare altro parlando, altre questioni, altri elementi che continuano a porsi incessantemente. E non essere soddisfatti del luogo comune. Può succedere.

Allora, dicevamo, che analista è chi pratica la sovversione strutturale della parola. Che dicevamo è sovversiva in quanto in nessun modo può gestirsi, isolarsi, controllarsi, manipolarsi.

Allora, lo psicanalista, in questa accezione, è il sovversivo.

Non il rivoluzionario, il sovversivo.

La rivoluzione è un percorso che ritorna esattamente da dove era partito. E, quindi, riproduce, instaura tutto ciò che ha rivoluzionato.

Il sovversivo no. Perché non ha niente da rivoluzionare. Ma si trova nella posizione in cui non può in nessun modo credere. Tutto sommato, nemmeno in ciò che sta facendo. Non è che ci creda, lo accoglie, lo pratica, perché non può farne a meno, perché ciò che dice continuamente gli getta innanzi altre questioni, altre domande. Non si pone nemmeno la questione di credere oppure no, anche perché se dovessi credere in qualche cosa dovrei già supporre che questo qualche cosa è già isolato, è lì, è osservabile. In ciò che dico non c’è nulla di osservabile.

Tutta la dottrina intorno all’osservazione conduce necessariamente sempre a un’unica cosa, all’osservanza, quindi, al terrorismo. Ma al terrorismo quello più bieco, per cui deve costringere altri a osservare la stessa cosa.

Quando guardo, non so che cosa vedo. Vedo sì, ma che cosa?

Provate a chiedere a qualcuno che sta guardando cosa vede. Dirà un sacco di cose, ma non le osserva. Non le osserva in quanto non può fermarle. L’immagine che incontra è in una continua e inarrestabile semovenza.

Prendete il caleidoscopio, l’immagine è sempre altra, in una continua e inarrestabile alterazione.

Dunque, una ricchezza inesauribile a cui è possibile attingere continuamente, che non consente, tuttavia, di fermarsi. Ché è la parola che non può fermarsi. E se io mi trovo come effetto di ciò che dico, in ciascun istante, come posso fermarmi? Nonostante tutti gli sforzi mi troverò sempre travolto o, più propriamente, preso in ciò che dico. Preso nella parola.

Dicevamo che non c’è uscita dalla parola, dall’atto in cui è presa la parola.

In qualunque modo io cerchi di farlo, lo farò sempre nella parola.

Come la supposizione che un gesto possa essere considerato fuori della parola. E come potrei isolare un gesto fuori della parola? Sarebbe impensabile. Anzi, non potrei nemmeno pensare.

Che io pensi me ne accorgo se parlo. Parafrasando de Saussure, che io pensi lo so nel momento in cui di questo pensiero posso dirne. Che lo dica fra me o me è un’altra questione, ma se non posso dirne che cosa mi autorizza a affermare che io penso? Rigorosamente, assolutamente nulla.

E così altre nozioni che questo itinerario intellettuale cessa di porre come ipostasi, come la realtà per esempio, su cui per anni ci si è dati un grandissimo da fare, come un referente, come una sorta di garanzia.

Lo si può pensare che la realtà sia il referente, ma una condizione, che non ci si possa assolutamente alcuna domanda intorno a che cosa debba intendersi con realtà. Questa è la condizione essenziale perché se si comincia a riflettere allora sorgono dei problemi.

Problemi tali che alcuni sono stati costretti, come ad esempio i padri della chiesa, che hanno dovuto confrontarsi con la realtà in modo tutt’altro che marginale, in modo tutt’altro che semplice, costretti a ammettere dunque un’entità a garanzia di questa realtà, cioè che la realtà non menta, che sia così come è, proprio così come io la vedo.

L’unico che può fare questa operazione è dio, come è noto.

Oppure, una verità, che io immagino sempre proiettata in là, verità come causa, che giustifica ogni cosa, che garantisce il tutto. È una variante, non è che ci sposti granché, è sempre dio, l’unico autorizzato a garantire che la realtà sia quella che è. Che è che cosa?

Praticare la parola, dunque, lungo questo itinerario intellettuale, è il trovarsi a non potere non confrontarsi con questi elementi, soprattutto, in prima istanza, per come questi elementi costruiscono tutto ciò che io dico, tutto ciò che credo, che immagino, che penso, che sogno, che congetturo, ecc.

La formazione avviene nel momento in cui non posso più non ascoltare ciò che dico. Non posso più accogliere delle cose immaginando che siano così come sono. Non è possibile, non riesce più.

C’è qualcosa di quello che gli antichi avevano individuato nel demone, l’altro nome per quello che Freud chiamava pulsione. Noi qui stiamo indicando come domanda, domanda che non attende nessuna risposta ovviamente, anzi, della risposta non gliene importa assolutamente nulla. Così come della riduzione, della riconduzione. Se voi riflettete intorno a tutte le dottrine, anche quelle più recenti, sia filosofiche, ermeneutiche, logiche, linguistiche, trovate delle elaborazioni anche molto sofisticate, molto articolate. Tuttavia, c’è un elemento di cui spesso non si tiene conto e cioè del fatto che gli uamni parlano. E questo cosa comporta?

Ci si è soffermati moltissimo sulla struttura di questo dire, come si combina, come accade e tantissime altre cose, quali sono i criteri di inferenza, ma non si è tenuto che l’unica condizione perché ciascuno possa farsi questa domanda o questa questione, cioè il fatto che gli umani parlano, è che parli.

La questione è talmente banale da essere perlopiù accantonata.

Eppure, c’è l’eventualità che abbia molti risvolti e possa, se affrontata, condurre a questioni tutt’altro che banali e tutt’altro che marginali.

Adesso ne stiamo accennando alcune.

La formazione dell’analista è la formazione dell’intellettuale, né più né meno. Formazione dell’analista non soltanto rispetto al chi decida, intenda, voglia, desideri praticare come analista. Questo è tutto sommato marginale.

Porsi come analista del proprio discorso: questa è la scommessa che si avvia con ciascuna analisi. Analista del proprio discorso è chi non può non ascoltare ciò che dice, non può in nessun modo.

Ascoltare non è il stare a sentire. Uno può stare a sentire tutto e non ascoltare niente, cioè non accorgersi di nulla di ciò che avviene parlando.

Formazione come itinerario intellettuale è tutto questo.

Se, come dicevo, perché ci sia formazione occorre che ci sia analista, la formazione propriamente non avviene tramite qualcuno che mi forma, ma avviene laddove io incomincio a ascoltare ciò che dico, cioè a accorgermi delle connessioni, dei risvolti, della ricchezza in definitiva della parola in cui mi trovo.

Se non c’è la parola io non so se c’è altro. Questione che, dicevo all’inizio, non è del tutto marginale, per cui che ci sia oppure no non ha alcuna importanza o, parafrasando Wittgenstein, non ha alcun senso.

Perché avviare una formazione analitica?

È una questione di un certo interesse: perché uno dovrebbe formarsi come analista?

Questo può accadere lungo un’analisi. Uno può iniziare un’analisi perché decide di divenire analista ma non necessariamente. Ciò che interviene lungo un’analisi è il trovarsi nella posizione di analista del proprio discorso e, laddove questo si instaura, la formazione è inevitabile, inarrestabile. Perché è dicendo e ascoltando ciò che si dice e non potendo non confrontarsi, non elaborare ciò che sta dicendo, che si trova a praticare una formazione.

Quando chiesero a Freud, a suo tempo, che cosa occorresse per divenire analisti, si trovò un pò imbarazzato nel rispondere, perché non sapeva bene che cosa occorresse. Dice a me hanno già dato molto le letture dei miti, le letture di storia, la letteratura, queste cose mi hanno giovato. Ma è difficile dire che cosa giova a ciascuno. Sicuramente, dice, non mi ha giovato fare il medico, anzi, se c’è stato un intoppo, l’ho trovato proprio lì. Ha avuto di non essere un buon medico, nel senso di chi si crede tale.

Cosa occorre, dunque?

Forse la domanda posta in questi termini è posta male, nel senso che non ci porta da nessuna parte, nel senso che ciascuno reperisce che cosa occorre lungo la propria logica, la struttura del proprio discorso, per rilanciare le questioni in cui si trova. E lo reperisce lungo l’analisi del proprio discorso, quando si accorge di quali sono le questioni che insistono, che cosa continua a domandare, che cosa insiste in ciò che dice, in ciò che fa, in ciò che pensa in ciò che sogna, ecc.

Ciò che occorre non posso saperlo io per altri, perché altri sa, nel senso che incontra le proprie questioni, la propria storia, la propria vicenda, dunque, ciò che lo riguarda. Io posso trovare il pretesto per una elaborazione leggendo qualunque cosa ma questo non significa che debba valere per altri. Perché? Abbiamo detto fin dall’inizio che non si tratta di un addestramento, per cui ciascuno reperisce la portata delle questioni in cui si trova dal proprio discorso, da ciò che sta dicendo, che è lì che le questioni che lo interrogano insistono, non altrove. Io posso anche suggerire delle letture, allo stesso modo per cui altri possono suggerire altre letture, perché io le ho trovate interessanti. È l’unica cosa che posso dire. Magari per un altro non è così. Succede. Come avviene spessissimo. Uno ha letto una cosa che le è piaciuta moltissimo e allora vuole che anche altri la leggano per parteciparli di questa bellezza, di questo interesse. Poi, quando un altro la legge, magari si chiede come ha fatto a piacergli tanto, cosa ci ha trovato.

Cosa che accade anche con le persone. Un amico che presenta l’amica ... mah, chissà cosa ci ha trovato?

Per tornare alla nostra questione, si può considerare cosa avviene in un’analisi, ché uno comincia a parlare. Comincia a parlare di qualche cosa. Cosa avviene mentre parla? Che espone delle cose in cui per lo più crede, espone delle sue credenze, delle sue supposizioni, delle sue certezze. Come mai espone queste certezze, queste sue credenze? Ha questa fortuna, chiaramente, perché qualche cosa, a sua insaputa, continua a questionare, continua a domandare. Quindi, per quanto certo possa supporre di essere di qualche cosa, continua a ripeterla. E ogni volta che la ripete si accorge che forse occorre aggiungere qualche cosa perché sia più certa.

L’analisi compie questo, che si aggiunge una cosa, poi se ne aggiunge un’altra, poi un’altra ancora, fino al punto in cui verifica o constata che può aggiungerne un numero infinito. Anzi, molte di più. E ciò che incontrerà sarà di nuovo la domanda che gli rilancia la questione.

Ora, a cosa mi attengo? A ciò che dico.

Il linguaggio è un aspetto della parola, c’è dell’atto che consente agli umani di definirsi tali. Con parola intendo qualcosa di compiuto in sé, dove si produce del senso, degli effetti di senso, dei sapere, di verità, dove anche ci sono delle immagini.

Mathieu, che insegna qui a Torino, utilizzava un modo interessante, ponendola a fianco della frase musicale, che è compiuta in sé, assolutamente, ma che è tale perché inserita in una struttura. Che cosa vuole dire una frase musicale? Dice per ciascuno qualcosa, ma non vuole dire niente. Dice senza voler dire assolutamente nulla.

In moltissimi casi lo psicanalista ha funzionato e funziona come funzionario della normalizzazione. Funzionario messo lì a guardia del codice, codice sociale, posto lì a dire “No, guarda che tu lì sbagli, le cose non sono così, devi pensare come è tuo bene che tu pensi”.

Buona parte della psicanalisi e della psicologia è stata reimportata dagli Stati Uniti. Freud non è mai riuscito a portare la peste, come diceva lui, negli Stati Uniti.

Lo psicanalista, come funzionario della normalizzazione, è preposto a un riciclaggio di chi, per qualche motivo, avverte il disagio. Dice “No, guarda non devi preoccuparti. Tu pensi questo perché la mamma, quand’eri piccolo, ti ha fatto questo, ma se tu te ne fai una ragione, poi stai meglio”.

Adesso banalizzo un pò, ma neanche poi tanto. Addirittura, gli junghiani immaginano la cosa peggiore che possa immaginarsi. Immaginano un destino già segnato di cui non resta che prendere atto. Lo si può pensare, ciascuno può pensare qualunque cosa, anche questo, ma non so se è di grande interesse.

Qualunque cosa che si ponga come la riduzione di ciò che inquieta, di ciò che domanda, di ciò che questiona non è molto interessante perché impedisce di proseguire, chiude la questione. Dice “È così! o ci credi o non ci credi”. No, non ci credo no, non ci credo perché preferisco proseguire, non potrei non farlo, non posso fermarmi né attendere, né qualcuno né qualcosa.

 

Risposte lungo il dibattito.

 

Provate a cessare di pensare che esista il bene, vostro, della comunità, ecc. Diventa tutto estremamente complicato. Non c’è più nulla né qualcuno che vi possa garantire di alcunché.

Ma c’è forse anche l’eventualità di accorgersi che non è necessario, né la garanzia, né il fondamento.

 

Il bene. È sempre stato questo il motivo conduttore, il bene, il bene della comunità, il bene della repubblica, dello stato, il bene dell’umanità. È sempre questo che ha mosso qualunque cosa.

Se si prova a cessare il bene come meta ultima, come causa del proprio agire, come giustificazione del proprio agire. Dicevamo prima che chiunque può giustificarsi in qualunque modo pensando di fare per il bene dell’Altro. Se riesce a pensare questo non ha più alcun problema, può fare qualunque cosa e la fa di fatto. E se non c’è questo bene? Allora, non sono più giustificato da qualche cosa in ciò che faccio, perché la giustificazione mi consente di pensare che ciò che io faccio è mosso da una causa superiore e, quindi, io sono soltanto il tramite, innocente, di ben altri scopi che mi trascendono.

Quindi, non sono assolutamente responsabile in quanto ciò che vado facendo, essendo dettato da cose altissime, non ho nessuna occasione di constatare cosa di fatto sto facendo. Che ciò che sto facendo sono io che lo voglio fare per questioni che mi riguardano. E la giustificazione del bene supremo è il mezzo attraverso cui faccio quello che sto facendo.

Come accade che cessa di pensare questo, cioè che ciò dice è giustificato da qualche buon motivo che lo trascende, si trova costretto a fare i conti con ciò che dice e non è più sorretto da nulla, ma questa cosa la sto facendo io. Perché? Se non sono più sostenuto da nobili ideali che mi proteggono, che mi guardano alle spalle, perché faccio questo? Nulla contro i nobili ideali, neanche contro quelli più biechi, nulla contro gli ideali ma neanche nulla a favore. Costituiscono la giustificazione, cioè rendono giusto tutto ciò che faccio, in un modo o nell’altro.

La questione politica non può non porsi, a questo punto, in quanto vengono poste delle condizioni perché ciascuno cessi di credere di essere giustificato in ciò che da altro, da altro da sé. Tutto ciò può avere effetti non indifferenti.

 

Occorre riflettere intorno a questa nozione di interpretazione, che ce sono varie forme. C’è quella ermeneutica, che è quella che attualmente ha più fortuna, ma ci sono anche altre forme, per esempio l’esegesi biblica, che è un’altra forma di interpretazione. O l’interpretazione semantica.

Che cosa interpreta l’interpretazione? Questa è una domanda che taluni si sono posti, perché sull’onda di un certo pensiero, avviato in particolare dai francesi, da Derrida con il decostruttivismo, da Barthes e altri, per ciascuna cosa è interpretazione, che non è possibile interpretare.

Ma, a questo punto, interpretare che cosa? Domanda legittima. Ecco che allora si sono accorti che il testo che va interpretato non c’è più, si dissolve. Questo è il decostruttivismo alla Derrida. Ma a questo punto l’interpretazione cessa anche lei di esistere. Cessa di esistere, in quanto l’interpretazione, in qualunque modo la si ponga, dall’esegesi biblica fino a quella alla Derrida, compie un’operazione che di fatto dice delle cose e...

Ecco, qui dobbiamo arrestarci perché “dice delle cose”. Dice delle cose intorno ad “altro”, potremmo dire, ma qui torniamo al punto di partenza: che cos’è questo altro, se io ho non altro modo che l’interpretazione per coglierlo?

Allora, la domanda che può porsi è se è possibile interpretare, se abbia un senso parlare di interpretazione. A meno che non insista, come continua a insistere l’ermeneutica, con la supposizione di una sostanza, di una sostanza identica a sé e, quindi, isolabile, che garantisce tutto il procedimento ermeneutico, perché sennò non sarebbe garantito da niente. Così come l’esegesi biblica: se non c’è un dio che garantisce il chiosatore, siamo rovinati, perché chiunque può dire qualunque cosa. Soltanto un’autorizzazione divina o universitaria consente la giusta interpretazione. Per interpretare occorre che esista qualcosa in quanto tale, identico a sé come sostanza, perché altrimenti non può farsi. Perde senso la stessa operazione, così come perde senso parlare oggi di esegesi biblica, che è ipirata da dio. Dobbiamo crederci in questo dio, sennò ... l’esegesi non è più niente.

E così forse anche l’interpretazione, a meno che l’interpretazione non abbia un’altra funzione, che è questa: fare supporre che ciò che dico abbia un certo significato. E allora sì, allora è funzionale al luogo comune, a quello che riporta ciascuna volta ad altro. Prenda qualunque manuale di psicologia, la invita a fare questa operazione. Dice che occorre necessariamente interpretare.

Anche Freud diceva che di fatto del sogno non si dà che l’interpretazione, aggiungendo poi a un certo punto che questa interpretazione non ha fine, non si arresta e parla di “ombelico del sogno”. Che è questo punto vuoto, tutto sommato.

E allora l’interpretazione si rivela un discorso, un discorso che non interpreta niente, cioè non porta nulla da nessuna parte.

È forse a questa condizione che si può parlare di interpretazione, il supporre che esista il testo in quanto tale, anche se gli ermeneuti storcono il naso. Tuttavia, logicamente è necessario per loro.

Ciò che Freud chiamava nevrosi o psicosi costituiscono un tentativo più meno riuscito, più o meno drammatico, per rispondere o di chiudere la questione. Un rimedio. La nevrosi è un codice ermeneutico per cui si dà già un testo per cui ciascuna cosa viene interpretata in un certo modo.

Sono un codice d’interpretazione per antonomasia.

 

HOME  INDICE